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Israele: i rifugiati africani rifiutano espulsione

Chi sono i profughi eritrei e sudanesi che verranno colpiti dalla Legge di Prevenzione di Infiltrazione di Israele, passata lo scorso mese? Cosa hanno affrontato nei loro Paesi di origine e che cosa combattono adesso?

(11 Febbraio 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in nena-news.globalist.it

Israele: i rifugiati africani rifiutano espulsione

foto: nena-news.globalist.it

MYA GUARNIERI (ALTERNATIVE INFORMATION CENTER)*

Tel Aviv, 11 febbraio 2012, Nena News - Quando appoggio il mio registratore digitale sul tavolo, Kidane Isaac, un profugo eritreo, lo osserva e si sposta sulla sedia. Piega verso il basso il suo cappello di paglia rotto, capovolgendo il bordo inferiore, come per coprirsi il volto.

Il cappello, che ha una fascia nera e un buco sulla parte superiore — pezzi di paglia sfatta, attaccata qua e là — non si abbina alla giacca a vento rossa, bianca e blu che Isaac indossa. È una povera scelta visto il clima. È una giornata invernale in Israele e il cappello di stile estivo è inefficace contro il freddo.

Senza tener conto poi che il cappello sembra fuori luogo qui, in un chiosco di caffé nella stazione centrale degli autobus di Tel Aviv. I quartieri circostanti, i più poveri della città, sono casa per un vasta popolazione di lavoratori stranieri e profughi africani così come per una manciata di collaboratori palestinesi. Mentre alcuni braccianti migranti guadagnano abbastanza da spedire denaro a casa alle loro famiglie, la maggior parte dei profughi africani sono a malapena appesi all’ultimo gradino della scala socioeconomica. Alcuni ne sono caduti completamente—i senzatetto, vivono nei parchi vicino alla

Quando inizia a parlare con me più tardi — facendo scivolare il cappello sulla testa, piegandosi in avanti, appoggiando i gomiti sul tavolo — apprendo che Isaac, 25 anni, non è un senzatetto. Ma è disoccupato. Troppo orgoglioso per usare la parola, dice: “Mi sto prendendo una pausa”.

I posti di lavoro sono scarsi per i circa 35.000-50.000 profughi africani di Israele. Lo Stato non fornisce visti di lavoro per loro, per cui sono costretti ad entrare nel mercato nero, dove fronteggiano lo sfruttamento. A causa del crescente razzismo, i profughi vivono tempi duri per trovare un lavoro. Anche se riescono a mettere insieme i soldi per affittare un appartamento, alcuni proprietari ebrei si rifiutano di affittare agli stranieri.

E Israele non tratta le loro richieste di asilo — una “politica di non-politica” che è stata nettamente criticata dalle organizzazioni dei diritti umani, inclusa Amnesty International. Ma, poiché Israele non deporta i sudanesi e gli eritrei ai loro paesi d'origine — dato che procura lavoratori illegali — ammette tacitamente che restino dei profughi.

Isaac ha lasciato l’Eritrea cinque anni fa, spiega, perché il suo servizio di mandato militare consisteva in lavoro di costruzione, una situazione che lui chiama “lavoro forzato”. “Non ti pagano, non puoi vedere la tua famiglia – dice Isaac, uno dei nove figli della sua famiglia – Mi sentivo come se non fossi un cittadino nel mio stesso Paese, sai cosa intendo?”.

Secondo le Nazioni Unite, il servizio militare in Eritrea è “effettivamente a tempo indeterminato” e le violazioni dei diritti umani vanno da abusi e torture dei prigionieri e disertori dell'esercito a “arresti arbitrari e la detenzione” fino a “uccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza”. I diritti civili sono fortemente limitati, così come la libertà di movimento.

Così nel 2007, Isaac è partito. È fuggito in Sudan, dove ha vissuto in un campo profughi vicino al confine eritreo. Dato che la cooperazione per la sicurezza tra le due nazioni non faceva sentire Isaac al sicuro, si è trasferito in Libia dove ha trascorso più di tre anni “vivendo nelle mani dei contrabbandieri”.

Mentre cercava di continuo di attraversare il Mediterraneo e di raggiungere l’Italia, ricorda Isaac, veniva passato da un contrabbandiere all’altro. È la tipica esperienza dei rifugiati africani in Libia, spiega con non-chalance. “Oppure puoi esser messo in prigione e poi paghi un sacco [per uscire fuori]. Ci sono molte tangenti e corruzione in Libia”.

Nel 2010, ha abbandonato ogni speranza di raggiungere l'Europa e, siccome aveva inteso che Israele fosse “l'unica democrazia nel Medio Oriente”, ha messo gli occhi su Tel Aviv. Quando lasciò l'Eritrea, non aveva “alcuna intenzione o inclinazione ad andare in Israele. Per niente, per niente”. Aveva sentito del conflitto israelo-palestinese, “tutti i problemi e l’esercito israeliano. Dopo quello che ho passato in Eritrea – dice, alzando le mani – Khalas”, la parola araba per basta.

“Volevo un posto dove poter andare e vivere in pace – aggiunge – Ecco perché ho preferito passare tutti quegli anni in Libia, cercando di raggiungere l’Europa”. Isaac si dice scioccato dalle condizioni a cui fanno fronte i profughi africani qui: “Non c'è alcuna vera e propria politica per noi. [Ai profughi] non è permesso fare niente. Oserei quasi dire che sarebbe meglio [per noi] vivere in prigione”.

Il carcere, spiega, sarebbe più onesto della situazione attuale, che definisce un “inganno”.

*Per leggere il resto di questo articolo, visitate Caravan Magazine.

Nena News

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