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(31 Ottobre 2012) Enzo Apicella

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Israele: perche'? chi e' morto?

E' la storia di un "clandestino" giunto da Gaza che rubò un’auto, rimase ferito in un incidente, quindi fu dimesso dall’ospedale per venire scaricato, ancora ferito, da alcuni poliziotti sul ciglio della strada a morire. Quali sono gli elementi che, uno dopo l’altro, hanno portato ad una simile atrocità?

(7 Marzo 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in nena-news.globalist.it

Israele: perche'? chi e' morto?

foto www.haaretz.com

DAVID GROSSMAN

(questo articolo del quotidiano israeliano Haaretz e' stato tradotto in italiano da Stefania Fusero per conto del sito www.centropacecorrie.it. la foto di Omar Abu Jariban e' presa da www.haaretz.com)

Roma, 07 marzo 2012, Nena News - Omar Abu Jariban, residente nella Striscia di Gaza, mentre si trovava illegalmente in Israele, rubò un’auto e venne gravemente ferito mentre ne era alla guida. Venne dimesso dal Centro Medico di Sheba mentre era ancora sotto cura e venne affidato in custodia alla stazione di polizia di Rehovot. La polizia non fu in grado di identificarlo. Lui era confuso e smarrito. I poliziotti di Rehovot decisero di liberarsi di lui. Secondo il racconto di Chaim Levinson, lo caricarono di notte su un furgone della polizia accompagnato da tre agenti. Era ancora attaccato al catetere, aveva indosso un pannolone e un camice da ospedale. Due giorni dopo venne trovato morto sul ciglio della strada.

E’ una piccola storia. Ne abbiamo già lette di simili e ce ne sono persino di peggiori. Soprattutto considerato chi è il soggetto di questa storia: un infiltrato, un clandestino di Rafah, ladro di macchine per giunta. E in ogni caso risalente al 2008, c’è un limite di tempo per queste cose. E abbiamo altri argomenti più freschi, più urgenti e per noi più importanti da prendere in considerazione. (E oltre a tutto ciò, hanno iniziato loro, gli abbiamo offerto qualsiasi cosa e loro l’hanno rifiutata e non scordatevi il terrorismo…)

Da quando ho letto la storia, trovo difficile respirare l’aria di qui: continuo a pensare a quel viaggio nel furgone della polizia, come se qualche parte di me fosse rimasta lì, legata in modo tale da non potersi liberare. Come precisamente può essere accaduto? Quali elementi reali, banali, tangibili si sono coagulati fino a produrre una simile atrocità?

Dal giornale ricavo che con Omar c’erano tre poliziotti. Faccio scorrere più volte mentalmente il videoclip nella testa: era seduto come loro sul sedile o era coricato sul pavimento del furgone? Era ammanettato o no? Qualcuno gli parlava? Gli hanno offerto da bere? Si sono fatti una risata insieme? Hanno riso di lui? L’hanno preso in giro per il suo pannolone? Hanno deriso la sua confusione o il suo catetere? Hanno discusso di quello che era in grado di fare finché rimaneva attaccato al catetere o una volta che glielo avessero tolto? Hanno detto che si meritava quello che stava per arrivare? Gli hanno dato qualche calcetto come si fa fra amici, o forse perché la situazione richiedeva un calcio veloce? O lo hanno preso a calci solo per il gusto di farlo, solo perché loro potevano, e allora perché no?

Oltretutto, come hanno potuto semplicemente dimettere qualcuno in quel modo al Centro Medico di Sheba? Chi lo ha lasciato uscire in quello stato? Quale possibile spiegazione avranno scritto nel foglio di dimissione che qualcuno ha firmato?

E che cosa è accaduto quando il furgone è arrivato al posto di blocco di Maccabim? Ho letto sul giornale che è nata una discussione col comandante del posto di blocco israeliano, che si è rifiutato di accettare il paziente. Omar avrà sentito la discussione su di lui dall’interno del furgone, o lo avranno trascinato fuori e sbattuto davanti al comandante, completo di catetere, pannolone e camice da ospedale perché questi lo potesse sottoporre a rapida valutazione?
E il comandante disse no. E yalla! Rieccoci in cammino. Così se ne sono tornati al furgone e hanno continuato ad andare. E adesso forse i tipi del furgone non sono carini come prima, perché si sta facendo tardi e loro vogliono tornare indietro e si chiedono che cosa mai avranno fatto per beccarsi questo negro del deserto e che cosa devono farne ora. Se il checkpoint di Maccabim non lo ha voluto, non se lo prenderà di certo quello di Atarot. Ormai fuori è buio pesto e per inciso, mentre percorrono la Route 45, tra la base militare di Ofer e il checkpoint di Atarot, ecco che spunta un’idea o una proposta. Forse qualcuno ha detto qualcosa e nessuno ha avuto da ridire oppure forse qualcuno ha avuto da ridire ma quello che se ne era uscito con quella proposta contava di più. O forse non c’è stata alcuna discussione , qualcuno ha detto qualcosa e qualcun altro ha convenuto che quello è esattamente ciò che va fatto, e uno di loro dice a chi guida, accosta un po’, non qui, c’è troppa luce, fermati là. E tu, sì tu, muoviti, muovi il culo pezzo di merda –colpa tua se il furgone puzza; ci hai rovinato la serata, vattene! Che vuol dire dove? Vattene.

E dopo che succede? Omar sta in piedi, o le gambe non lo reggono? Lo lasciano a lato della strada, o ce lo portano di peso, e come? Lo tirano? Lo trascinano all’interno del campo?

Tu rimani qui! Non seguirci! Non muoverti!

E poi se ne tornano in macchina, camminando a passo un po’ più svelto, guardandosi dietro le spalle per assicurarsi che lui non li stia seguendo. Come se lui avesse già qualcosa di contagioso. No, non la sua ferita. Qualcosa sta già cominciando ad essudare da lui, come cattive nuove, o la sentenza del tribunale. Forza, andiamo, è tutto finito.

E lui, Omar Abu Jariban, che cosa ha fatto allora? Se ne è rimasto semplicemente sulle sue gambe o ha improvvisamente afferrato che cosa stava accadendo, e ha cominciato a correre e urlare che lo dovevano portare con loro? E forse non si è reso conto di nulla, perché come abbiamo detto, era smarrito e confuso, ed è rimasto in piedi sulla strada o nel campo, e ha visto soltanto una strada e un furgone della polizia che se ne andava. Così che cosa ha fatto? Che cosa ha fatto veramente? Incomincia a camminare senza meta, con la vaga sensazione che in qualche modo arrivare un po’ più in là migliorerebbe leggermente la situazione? O forse si limita a sedersi guardando con lo sguardo assente davanti a sé e cerca di pensare, ma l’impresa è superiore alle sue forze perché non è in grado di capire alcunché? O forse si sdraia e si raggomitola per terra ad aspettare? Perché? E a chi pensa? Ce l’ha una persona, un posto, a cui pensare? A nessuno di quei poliziotti, in nessun momento in tutta quella notte non è venuto mai da pensare che forse c’era qualcuno, uomo, donna o famiglia per cui Omar poteva essere importante? Qualcuno che gli voleva bene? Non è venuto loro in mente che sarebbe stato possibile, con un piccolo sforzo aggiuntivo, trovare quella persona e restituirgli Omar?

Il corpo venne ritrovato due giorni dopo. Ma non ho idea di quanto tempo passò dal momento in cui fu scaricato sul ciglio della strada a quello in cui vi morì. Chi sa quando si rese conto della realtà; che il suo corpo non aveva più la forza sufficiente per salvarsi. E che anche se avesse potuto contare su qualche energia, lui era intrappolato in una situazione senza alcuna via di uscita, che la sua breve vita stava per finire lì. Suo fratello Mohammed disse al telefono da Gaza, “Lo hanno semplicemente gettato ai cani”. E sul giornale si dice, “Per quanto orribile possa sembrare, il fratello ha accuratamente descritto ciò che è accaduto.” E io leggo e l’immagine si trasforma in realtà, ed io cerco di cancellare quella immagine dalla mente.

E nel furgone della polizia, che accadde lì dopo avere scaricato Omar? Parlarono fra di loro? Di che cosa? Si nutrirono e infiammarono gli animi con l’odio e il disgusto di lui, per giustificare retrospettivamente ciò che avevano fatto? Per giustificare ciò che nel profondo dei loro cuori sapevano che era in contrasto con qualcosa. Forse quella cosa era la legge (ma con la legge, probabilmente si immaginavano, potevano cavarsela). Ma forse essa andava contro qualcosa di più profondo, qualche ricordo più radicato che avevano dentro, qualcosa in cui si erano ritrovati molti anni prima. Forse era una favola o una storia da bambini in cui da una parte sta il buono e dall’altra il cattivo. Forse uno di loro si ricordò di qualcosa studiato a scuola – sono passati attraverso il nostro sistema educativo, no? Mettiamo che fosse HaShavuy (Il Prigioniero) di S.Yizhar *.

O forse i tre tirarono fuori i cellulari per parlare con la moglie, la fidanzata, il figlio. In quei frangenti forse si desidera parlare con qualcuno che sta al di fuori. Qualcuno che non c’era che non aveva toccato questo qui.

O forse rimasero zitti.

No, il silenzio forse era un po’ troppo pericoloso a quel punto. Tuttavia, qualcosa cominciava ad insinuarsi nell’interno del furgone, una specie di scura sensazione viscosa, come un peccato terribile, per cui non vi è perdono. Forse davvero uno di loro propose piano, torniamo. Gli diciamo che lo abbiamo preso in giro. Non possiamo proseguire, buttare un essere umano.

I giornali dicono: “A seguito di investigazioni dell’Ufficio Affari Interni della polizia, nel marzo 2009 vennero ufficialmente accusati di omicidio colposo solo due degli agenti coinvolti nello scarico e abbandono di Abu Jariban. Non si sono ancora depositate le prove nel processo ma nel frattempo uno dei due accusati ha ottenuto una promozione.”

So che essi non rappresentano la polizia. E neppure rappresentano la nostra società o il nostro stato. E’ soltanto un pugno di mele marce, di erbacce cattive. Ma poi penso ad un popolo che ha buttato un’altra intera nazione sul ciglio della strada e ha sistematicamente sostenuto tale pratica per più di 45 anni, non passandosela neppure male nel frattempo, grazie. Penso ad un popolo impegnato nella strepitosa e geniale negazione delle proprie responsabilità per tale situazione. Penso ad un popolo che è riuscito ad ignorare la follia della deformazione e distorsione che quel processo ha avuto sulla società e sui suoi valori nazionali. Per quale motivo un simile popolo dovrebbe agitarsi per un individuo come Omar?

* S.Yizhar (1916-2012), uno dei maggiori scrittori israeliani, nel racconto HaShavuy (Il Prigioniero), prima ancora che finisca la guerra del 1948, mette a nudo il drammatico destino che si va delineando per i Palestinesi. (n.d.t.)

Nena News

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