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La sottrazione dei pesci

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(19 Luglio 2011) Enzo Apicella
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I limiti del mercato del lavoro palestinese

(12 Dicembre 2012)

Un anno fa la terza conferenza nazionale BDS. Ben poco e' cambiato da allora. Manca leadership capace di fornire alternative ai lavoratori palestinesi

mercalavpalest

foto dal sito www.jpost.com

di Emma Mancini

Beit Sahour (Cisgiordania), 12 dicembre 2012, Nena News - "Come arma di resistenza e lotta, l'economia è più importante del confronto militare. In Cisgiordania nei mercati di frutta e verdura, nei supermercati, nei piccoli negozi la maggior parte dei prodotti sono israeliani. E manca una leadership in grado di gestire a livello politico il boicottaggio economico di Israele".

Con queste parole, un anno fa a Hebron, Haidar Ibrahim, segretario generale dell'Unione Generale per i Lavoratori Palestinesi, apri' il dibattito sull'importanza del movimento di boicottaggio nato nel 2005 dalla società civile palestinese. Da allora ben poco e' cambiato.

Mancanza di leadership, incapacità a fornire alternative ai lavoratori costretti a impiegarsi nelle colonie, convoglio degli investimenti palestinesi in Israele, debolezza intrinseca del mercato del lavoro interno. Queste erano e rimangono le ragioni che hanno reso nei decenni l'economia palestinese dipendente a doppio filo da quella israeliana.

"Una dipendenza che il potere occupante ha realizzato con una lunga e radicata strategia politica, volta a spezzare le gambe all'economia palestinese - disse da parte sua Ibrahim Shikaki, economista palestinese - Fin dall'inizio dell'occupazione militare della Cisgiordania, nel giugno del 1967, Israele ha messo le mani sull'economia dei Territori Occupati al fine di controllarla e annichilirla. Prima di tutto accordi economici, quali il Protocollo di Parigi, che permettono ad Israele di introdurre nel mercato palestinese i propri beni senza alcuna restrizione e che affidano unilateralmente ad Israele il controllo dei confini e quindi di esportazioni ed importazioni".

"In secondo luogo - continuo' Shikaki - il totale controllo che Israele esercita sulle potenziali risorse dei Territori Occupati, dalla gestione dell'acqua e delle risorse energetiche e minerali fino alla'amministrazione delle tasse pagate dalla popolazione palestinese". Ed infine, le restrizioni fisiche al movimento di persone e beni attraverso checkpoint, Muro di Separazione, bypass road, restrizioni che impediscono il naturale sviluppo di un'economia indipendente.

Quattro decenni di attuazione di simili politiche ha prodotto una forte dipendenza dell'economia palestinese da quella dell'occupante: la prima debole e periferica, la seconda forte e dominante. "Sono due gli effetti più tangibili e negativi - ha proseguito Shikaki - L'aumento della macrodomanda di lavoro e il flusso di produzione, quindi di offerta di beni, che dal centro va verso la periferia. Ciò ha provocato un aumento costante del numero di palestinesi che vanno a lavorare nelle colonie e in Israele, effetto volutamente cercato da Israele che in questo modo può privare la Cisgiordania della sua forza-lavoro".

E il tasso di disoccupazione cresce: se prima della Seconda Intifada non superava il 10%, alla fine del 2010, secondo il report pubblicato dal Ministero del Lavoro palestinese questo settembre e riguardante l'anno 2010, il dato è salito al 33,3%. Esattamente un terzo della forza lavoro in Palestina non ha un'occupazione. I contesti peggiori sono quelli dei campi profughi, dove il tasso supera in media il 30%, e dei distretti di Hebron (25%) e di Betlemme (24,7%). Pesante la situazione nella Striscia di Gaza: se in Cisgiordania il tasso di disoccupazione è pari al 26,6%, nella Striscia vola al 40,5%.

"I lavoratori palestinesi hanno cominciato a cercare un impiego in Israele e nelle colonie per diverse ragioni - ribadisce oggi Omar Assaf - Prima di tutto la tentazione di salari più alti. In secondo luogo, la frustrazione per la mancanza di offerta di lavoro nei Territori occupati. E infine la debolezza dei sindacati palestinesi nel garantire la tutela dei lavoratori. A ciò va aggiunta la mancanza di una leadership politica in grado di gestire il mercato del lavoro. Ai lavoratori palestinesi non è data alcuna alternativa, se non quella di essere impiegati in Israele".

Le conseguenze dell'impiego di forza-lavoro palestinese nel mercato israeliano (oltre 71mila nel 2010, secondo il Ministero del Lavoro palestinese) ha svariati effetti: L'aumento del tasso di disoccupazione interna; la perdita di potere d'acquisto in Cisgiordania dovuta all'incremento del costo di produzione e quindi del prezzo dei prodotti in vendita; e la riduzione dell'importanza del settore agricolo, storicamente elemento forte dell'economia palestinese. Prima degli accordi di Oslo, secondo una ricerca di Issa Smeirat, l'agricoltura rappresentava il 20% del Prodotto Interno Loro: oggi non supera il 4%.

Ma accanto alle intenzioni israeliane e alle strategie economico-politiche delle autorità di Tel Aviv, non mancano le responsabilità da parte palestinese, incapace di sviluppare un'alternativa politica di base allo strapotere economico israeliano. Tale dipendenza, dicono gli analisti palestinesi, è frutto anche dell'assenza dell'Autorità Nazionale Palestinese del presidente Abu Mazen nella gestione del settore economico. Un'assenza che ha liberato le mani dei pochi imprenditori e businessman, che ogni anno investono nel mercato israeliano circa 250 milioni di dollari per mancanza di alternative.

Una somma che secondo la ricerca di Smeirat sarebbe sufficiente a creare oltre 213mila posti di lavoro in Cisgiordania, ma che viene invece convogliata verso Israele e verso le colonie. Costringendo di conseguenza i lavoratori palestinesi a seguirli.

"Non esiste una reale industria palestinese - spiega Salah Haniyyeh - L'Autorità Nazionale Palestinese deve sostenere la campagna di boicottaggio del Comitato palestinese, attraverso una legge che spinga le famiglie a consumare prodotti palestinesi e i lavoratori a restare in Cisgiordania".

Nena News

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