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ANCHE IL CAPITALE HA LE SUE RICORRENZE:
la catena di montaggio compie cento anni!

(20 Ottobre 2013)

Dal giornale "Alternativa di Classe" (n. 10)

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Poco prima della morte di Frederick Winslow Taylor, avvenuta nel 1915, industriale e teorico americano di organizzazione aziendale, fu il suo connazionale Henry Ford, che, ispirandosi alle sue teorie, ma con meno pretese “filosofiche”, introdusse, cinquantenne, il 7 Ottobre 1913, esattamente cento anni fa, la, oggi famigerata, “catena di montaggio” nella sua industria automobilistica, la Ford Motor Company, nata nel 1903. Ford legò alcuni principi cardine di Taylor alla realtà sociale americana di quegli anni ed al concreto sviluppo dell’industria nazionale.
L’obiettivo di Ford era quello di costruire auto semplici e poco costose, destinate al largo consumo; ciò consentiva un’offerta di merce destinata a, quello che si direbbe oggi, un “target” più ampio: le automobili, fino ad allora un manufatto poco più che artigianale riservato a ricchi appassionati, diventavano accessibili alla “middle class”, consentendo profitti certi e maggiori! Da quel giorno nello stabilimento di Dearburn, nel Michigan (USA), “ogni dipendente, anche se inesperto, cominciò ad assemblare un unico pezzo della vettura, tramite movimenti ripetitivi e meccanici, che permettevano un notevole risparmio di tempo nella produzione”.
La catena di montaggio consentiva una produzione di massa di prodotti omogenei, e fungeva, così, da premessa per il diffondersi del consumismo. Bastava, come in seguito avvenne, inserire dei “punti deboli” in alcune parti, che le rendessero meno durature, anche a livello di assemblaggio generale (che ora avveniva “in linea, su nastro trasportatore”), e tali da obbligare, in determinati tempi “medi”, alla sostituzione del veicolo, il cui uso abituale lo aveva reso “necessario” per il cliente… Questa meccanizzazione non fu certo una innovazione di poco conto! Essa consentì ai tempi produttivi del Modello “T Ford” (rigorosamente nero) di allora, già accorciati per l’uso di nuove macchine, di passare dalle 12 ore e mezza a 2 ore e quaranta, e poi a meno di 2 ore per un singolo autoveicolo! Si trattava di un passaggio storico.
Aldilà di considerazioni degli economisti borghesi, che mettevano l’accento sulla, pur reale, diminuzione dei costi di produzione, quel che conta è che era aumentata quella che Marx chiama “la forza produttiva del lavoro”, e lo era in misura tale che, se nel 1909 la “Ford T” costava 900 dollari, nel 1925 ne sarebbe costati 290! L’automobile passò da prodotto elitario a merce di largo consumo, con ben dieci milioni di prodotto venduto: era nata la produzione in serie! Ciò gli consentì l’anno successivo di introdurre in azienda la giornata lavorativa di otto ore e, contemporaneamente, di aumentare i salari da 2,10 a 5 dollari al giorno (!), a “compensare” gli alti livelli di disciplina, cui questa organizzazione del lavoro costringeva gli operai. Ad un raddoppio del salario fecero da contraltare saggi di profitto altissimi: con una produttività oraria cresciuta subito di quasi cinque volte, il “pluslavoro” aumentava certamente più dell’aumento salariale!
Quanto sopra non impedì all’opinione pubblica di allora di considerarlo, inizialmente, quasi come un “padre” dei suoi operai, per i quali introdusse forme di partecipazione agli utili, interpretando in questa maniera quello che negli anni ’30 venne chiamato “fordismo”; in realtà, la frase che più si addice a H. Ford è quella, oggi famosa: “Gli americani avranno l'auto che vorranno, del colore che vorranno, purché sia nera"! Essa rivela, fra l’altro, una sua, spiccata quanto pionieristica, attenzione agli aspetti di marketing. Il suo modello di produzione fu poi seguito da molti ed esteso a tutta l’industria manifatturiera; dal punto di vista logistico, significò la separazione territoriale tra i “centri di ricerca e sviluppo” da una parte e le linee di produzione altrove, mentre, per il mercato, significò, anche attraverso l’introduzione della forma di acquisto rateale, il trionfo del “consumismo”.
Il fordismo rimase il modello dominante (con il padrone fisicamente distante dagli operai), almeno fino agli anni ’70, in particolare negli USA, che lo esportarono più massicciamente in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, come simbolo dello stile di vita americano. Anche l’URSS, con Stalin, aveva importato, utilizzando esperti USA, il modello fordista di produzione, con relativo “lavoro a catena (di montaggio)”. In seguito, soprattutto la crisi petrolifera del ’73 (data che si considera come “conclusiva” dei sessanta anni di primato del fordismo), le lotte dei lavoratori, la saturazione dei mercati per le merci da consumi di massa, insieme ad altri fattori, misero in forte difficoltà il “fordismo”, visto come sistema dell’organizzazione capitalistica.
Il precursore del nuovo modello produttivo è venuto dal Giappone negli anni ‘80, con il “toyotismo”, teorizzato da T. Ohno ed applicato, ancora una volta, da una azienda produttrice di autoveicoli, la Toyota. Il toyotismo, senza ancora uscire dal fordismo, promosse una maniera di produzione “snella”, chiamata “just in time”, che modificava l’organizzazione aziendale con un aumento delle mansioni degli operatori ed un avvicinamento, anche fisico, dei dirigenti agli operai nel lavoro di gruppo, lanciando il “credo” della “qualità totale”.
Sono stati, poi, fenomeni quali la mondializzazione del capitale e la “rivoluzione informatica”, cioè la sua introduzione massiccia negli apparati produttivi a segnare la discesa del fordismo come modello e del “compromesso sociale” che lo sosteneva. Il “post-fordismo”, denominazione che ricomprende le diverse organizzazioni produttive con i nuovi caratteri comuni, come sempre avviene nello sviluppo capitalistico, non ha perso i capisaldi strutturali dell’epoca precedente, ma ha permesso al capitale di avviare una ristrutturazione, di cominciare, cioè, ad adattarsi ad una nuova situazione, peraltro prodotta proprio dal suo sviluppo dinamico.
Il decentramento produttivo, le delocalizzazioni, che caratterizzano il capitalismo nella forma attuale, sono, in ultima analisi, frutto della concentrazione del capitale, dello sviluppo delle multinazionali e del diffondersi degli strumenti informatici e, quindi, dell’automazione; che permette uno sviluppo “a rete”. Altro che “nuovo capitalismo cognitivo”, ed altri surrogati teorici, che la borghesia propina e propaganda per contrastare il marxismo e la relativa teoria del valore, che, invece, resta il principale strumento per uno studio serio e rigoroso dello sviluppo capitalistico.
Oggi “ai mercati” non bastano più i “punti deboli” dei prodotti, ma si passa ad una loro “personalizzazione”, che richiede certamente più flessibilità, il nuovo totem, rendendoli sempre più obsolescenti. Le stesse relazioni di mercato vengono internalizzate dai grandi conglomerati, come mezzo di regolazione organizzativa, con sempre maggiore spazio ai servizi all’impresa, e con una aumentata partecipazione, anche interiore, al lavoro da parte del singolo operatore.
Il passaggio al post-fordismo è in corso, e perciò ad oggi non sono definiti compiutamente nuovi paradigmi produttivi e sociali; sono solo i rapporti di forza fra le classi che li individueranno, sempre che la portata della crisi in atto non conduca “alla rovina comune delle classi in lotta”, oppure non inizino a prevalere gli interessi di classe degli sfruttati, con nuovi rapporti di produzione verso l’uscita dal capitalismo, da questo sistema sociale sempre più distruttivo.

Alternativa di Classe

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