">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

Roma. Il Parlamento

Roma. Il Parlamento

(22 Novembre 2010) Enzo Apicella
Il vertice Nato di Lisbona decide di trasferire in Italia le atomiche americane che gli altri paesi europei non vogliono più

Tutte le vignette di Enzo Apicella

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

Necessità della guerra, necessità della rivoluzione

(9 Luglio 2014)

Può destare sconcerto, al lettore democratico-progressista che malgrado tutto spera e crede nella razionalità dell’umano agire e nelle sue sorti, un certo articolo comparso nel luglio di quest’anno sul New York Times, “The lack of major wars may be hurting economic growth”, La mancanza di grandi guerre può essere di danno alla crescita economica, che descrive la guerra come un destino, terribile e disastroso, ma in fondo fattore di progresso, di evoluzione e di rinnovato sviluppo economico.

A corredo, c’è un interessante grafico che correla nel tempo, a far base dagli anni ’50 fino al 2010, i morti ammazzati, militari e civili. Grafico che, rigoroso, non include i morti per malattia o fame e mostra il “rapido declino” almeno fino al 2010, fatto salvo un picco nei periodi 1970-1975 e 1980-1990, della contabilità del macellaio.

Te guarda, anche oltreoceano si fa strada l’idea che questo evento possa essere un fattore produttivo la cui assenza, alla lunga, riduce le possibilità o le prospettive di un miglioramento della condizione umana; almeno per quelli che potranno avere una ragionevole probabilità o la fortuna di sopravvivere.

Ma di guerre, dopo il secondo conflitto mondiale, ce ne sono state a iosa; e quelle non dovrebbero forse contare, anche se i morti paiono “in decisa diminuzione” ? Anzi in questi ultimi decenni c’è stata una forte accelerazione di conflitti, e neppure più semplicemente locali, ma via via più larghi e duraturi. E allora? Il titolo dell’articolo, nella sua semplicità, è chiarissimo, Major wars, che, senza troppo forzare ci vien da leggere Guerre mondiali. Questa è la chiave. La guerra deve essere ampia, più ampia possibile, deve sconvolgere e rompere lo stagnante sviluppo del 1-2%, quando va davvero bene, deve accelerare la messa in campo di risorse tecniche e produttive. Per... una crescita del 4%, figurarsi. Morti, lutti, rovine, un sottoprodotto sgradevole, ma dolorosamente necessario.

Non invano simili articoli compaiono ad un punto avanzatissimo della peggiore crisi capitalistica dal secondo dopoguerra, dopo che tutte le riprese “dietro l’angolo” che avrebbero dovuto verificarsi “da un momento all’altro” si sono dimostrate inconsistenti e alla lunga fallaci.

Fino a ieri le guerre erano condotte per ragioni di sicurezza, per il controllo su risorse o zone di influenza, e via di questo passo. Ora simili giustificazioni, valide indubbiamente per una certa fase dello sviluppo capitalistico e della sua crisi, non bastano più. La teorizzazione sale di tono, e per certo verso diventa più precisa – e più tragica. La sua crudezza mostra il cinismo delle classi dominanti e dei loro teorici, in primis gli economisti del capitalismo che fanno degno paio con gli Stati maggiori militari e non si vergognano, anzi si compiacciono della correttezza e del “coraggio scientifico” con cui manifestano all’universo mondo la “loro” verità, pur truculenta che sia.

Non ci interessa seguire le contorsioni ideologiche dell’articolista, forse preoccupato dello sconcerto che simile tesi estrema può suscitare nei lettori meno smaliziati. Il coraggio di affermare chiaramente che l’uscita dalla Grande Depressione è stata realizzata con il ricorso allo spaventoso macello della Seconda Guerra Mondiale non c’è, ma si leggono ben chiare le indicazioni che l’evento in sé è stato un potentissimo motore di sviluppo in una condizione di profonda crisi economica mondiale. E non soltanto perché la guerra faccia aumentare la spesa pubblica e metta a lavoro quanti erano disoccupati nella crisi, tesi keynesiana classica, ma soprattutto perché costringe i governi a prendere decisioni fondamentali sull’economia, liberalizzandola da ogni precedente vincolo.

Più di questo la pletora dei teorici dello sviluppo ininterrotto del capitale non può dire, non riesce ad andare.

Oltre può andare soltanto la scienza di un modo di vita associata che dovrà superare i limiti della produzione per il profitto, che non avrà a paradigma la necessità intrinseca al meccanismo di accumulazione capitalistico, di crescita continua e costante, senza la quale c’è solo la crisi. Crescita continua ed ossessiva che è la dannazione dell’umanità lavoratrice, che per essere di nuovo ritrovata quando diminuisce fino all’arresto, impone la distruzione periodica di quanto è stato accumulato.

Il mondo classico antico, strutturato su altro modo di produzione, aveva raggiunto un suo culmine di scienza politica nella celebre massima del si vis pacem para bellum; al suo imporsi come modo di produzione moderno all’inizio del 19° secolo il capitalismo aveva letto la guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi; oggi nella sua fase più avanzata di putrescenza, proclama che la recente diffusione della pace è incompatibile con la riproduzione del profitto. È lo “sviluppo” finale del pensiero economico e politico borghese costretto dalla forza dei fatti a denunciare l’unica via di uscita che sia disponibile, all’interno del capitalismo stesso.

Naturalmente lo stesore di tanta scienza non è solo nelle sue considerazioni finali. E con serietà e correttezza scientifica ci offre ampia dovizia e citazioni di altri illustri maitres-a-penser che hanno raggiunto, dopo studi storici ed economici, dall’antichità classica ai tempi odierni, le stesse conclusioni, sulle quali noi stessi, seguaci di una dottrina a questa opposta, non possiamo che dirci d’accordo, salvo il piccolo distinguo di quale sia però la necessità fondamentale della guerra per il capitalismo.

E allora di tanta impudente franchezza dobbiamo essere grati a questi signori, che danno, loro malgrado, conferma e validità alla nostra visione del mondo: la guerra è una necessità imprescindibile per il mondo del capitalismo, che si rivela anche in questo supremo aspetto anti-umano.

Ma i comunisti non hanno paura della guerra in nome di un pacifismo impotente che ha per sola aspirazione il mantenimento delle condizioni esistenti, dello sfruttamento del lavoro morto sul lavoro vivo, magari in un modo meno ossessivo, più equilibrato, più giusto; senza sangue e violenza. Alla guerra del Capitale, per il suo perpetuarsi, la Rivoluzione deve contrapporre la sua guerra per cessare alla fine, questa mostruosità che ormai solo opera contro la specie umana.

Partito Comunista Internazionale

6427