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(2 Marzo 2015)
Per il proletariato internazionale, non ha importanza sotto quale latitudine, in Russia come in Ucraina, in Siria come sotto le nere bandiere del Califfato, in Arabia saudita come negli Usa, nell'Italia dell'Eni e di Marchionne come nella Francia del "socialista” Hollande, occorre ripensare alla possibilità di una alternativa a questa perpetua barbarie sociale.
C'è persino chi ritiene che in passato si siano commessi degli errori nei confronti, in generale, delle primavere arabe e, in particolare, nei confronti della Libia di Gheddafi. Chi lo dice, ovviamente, appartiene a quel mondo politico borghese e al suo sottobosco affaristico - economico che, di fronte alla barbarie dello Stato Islamico e alle atrocità della guerra civile libica, dimentica le proprie responsabilità, sia in termini di aggressivo perseguimento degli obiettivi economici, sia in termini di atrocità commesse.
E' il tipico ragionamento dell'imperialismo occidentale quello di commettere i crimini più atroci, che la tecnologia militare oggi consente, senza battere ciglio, e scandalizzarsi della ferocia della concorrenza, sottacendo in entrambi i casi le cause che sono alla base dei rispettivi comportamenti.
Nel 2011 la Libia di Gheddafi, come precedentemente la Somalia, l'Iraq di Saddam Hussein o l'Afghanistan filo russo, ha subito la devastazione dell'intervento militare francese prima e dello smembramento sociale poi, con tanto di decine di migliaia di morti civili.
Gheddafi, il dittatore, l'uomo che ha costruito il suo piccolo impero sulla rendita petrolifera, che ha osato sfidare gli imperialismi più forti pur di mantenere il consenso interno e un ruolo di primo attore sulle scenario internazionale, è stato cancellato dalla faccia della terra dall'avidità dell'imperialismo francese, sorretto militarmente da quello inglese e con l'avallo politico degli Usa. In gioco non c'era la smania dei "Cavalieri" della democrazia di combattere una guerra santa contro il feroce dittatore. Non c'era nemmeno in palio il ruolo di “democratico” sostenitore della primavera araba in chiave libica. Ciò che ha mosso il governo di Sarkozy contro la Libia è stato il tentativo di strappare, con la caduta del regime di Gheddafi, al futuro governo libico nuovi e più vantaggiosi contratti petroliferi, prima che il Colonnello vendesse “l'oro nero” ai cinesi e continuasse a privilegiare il colosso italiano Eni.
L'intervento ha favorito sì la messa fuori gioco di Gheddafi, ma ha anche messo in moto un processo di distruzione e di guerra civile che ancora perdura e che aggiunge barbarie interne a quelle prodotte dall'imperialismo francese. Per assurdo, quella operazione che avrebbe dovuto favorire il ruolo petrolifero della Francia in terra libica si sta trasformando nel suo contrario. La produzione di petrolio si è abbassata di cinque volte, la lotta tra le varie fazioni porta al reciproco boicottaggio, con tanto di attacchi ai pozzi petroliferi, e, non da ultimo, l'insicurezza politica e l'inaffidabilità del "sistema Libia" gettano il paese nel vortice di mille interessi economi e politici che vedono coinvolte molte fazioni interne come alcuni imperialismi dell'area o di imperialismi esterni, che non vogliono rinunciare a una parte del bottino o, più "modestamente", a giocare un ruolo di controllo e di gestione politica dell'area interessata.
La caduta del regime di Gheddafi ha scatenato, come di solito avviene nei casi di ricomposizione delle strutture sociali aggregate attorno ad un unico, ma ricco centro economico come quello energetico, il peggio della violenza e della barbarie, che solo il perseguimento degli interessi capitalistici in una fase di crisi economica internazionale riesce a produrre. Non importa se a farne le spese sono i civili, le centinaia di migliaia di lavoratori, le loro famiglie e i loro figli. Non importa la guerra tra bande, la distruzione del nemico, gli accordi ipocriti e contraddittori. Non meraviglia l'alternanza delle alleanze tra le le fazioni interne e il codismo nei confronti dell'imperialismo internazionale. Così come è relegato a fattore collaterale che circa un milione di profughi bussi alle porte del Mediterraneo. L'unica cosa importante è quella di mettere le mani sui pozzi petroliferi, del vecchio Colonnello, di gestirne la rendita, di allocare l'oro nero e il gas ai migliori offerenti e/o ai più forti protettori, riproponendo il vecchio schema dei tempi di Gheddafi con solo qualche aggiustamento che la tragica situazione sta imponendo ai nuovi interpreti del "business" libico.
Nel più assoluto caos e nella più feroce delle barbarie sociali, si scorgono alcune linee guida che attraversano la nuova Libia dei vecchi interessi petroliferi. Innanzitutto, sono nati due governi. Uno, quello di Tobruk, governato da un aspirante dittatore "costituzionale" che risponde al nome di Abdulla al Thani. Questo governo della Cirenaica è per il momento l'unico ad avere un credito a livello internazionale. Possiede un esercito regolare, un parlamento, una costituzione ed estende il suo potere nella zona di Tobruk e al Bayda, dove ci sono i terminali petroliferi dell'est della Libia. Al suo fianco opera un vecchio oppositore di Gheddafi, Halifa Haftar, che con le sue truppe, composte prevalentemente da soldati appartenenti al vecchio esercito, conduce la campagna militare "Operazione dignità" contro tutte le altre forze più o meno islamiste che operano sul territorio. In più c'è la presenza delle Brigate di Zintan, che hanno avuto un ruolo determinante nella caduta di Tripoli all'epoca di Gheddafi, e di una serie di gruppi politici e di tribù del sud, che hanno nel loro programma la separazione della Cirenaica dal resto del paese per meglio controllare i pozzi e le vie di commercializzazione verso il nord, senza cioè rendere conto a nessuno della loro quota di rendita petrolifera.
Il secondo, con sede a Tripoli, è quello degli islamisti. I rivoluzionari, così amano definirsi i nuovi signori della vecchia capitale o i promotori della nuova Fagr (Alba), hanno riesumato il vecchio Parlamento nel quadro istituzionale di un processo di "salvezza nazionale". Capo carismatico un professore di Bengasi, Umar al Hasi, a cui fanno riferimento gruppi dichiaratamente islamisti, legati allo jihadismo internazionale, come Ansar al Sharia, a cui si attribuisce l'uccisione dell'ambasciatore americano a Tripoli nel 2012, e le Brigate di Misurata. Anche in questo caso, i jiahadisti di Alba e i suoi alleati vogliono fare della zona di Tripoli il loro presidio politico e militare a difesa dei pozzi e delle pipe-line che da sud arrivano nell'ovest delle sponde libiche, senza interferenze da parte della concorrenza.
In "fieri" c'è un altro centro di aggregazione, quello proposto dallo Stato Islamico di al Baghdadi e del suo Califfato che, per il momento, si è installato nel Golfo della Sirte, nelle città di Derna e di Sirte, dove arrivano alcuni terminali petroliferi di grande interesse economico e strategico, perché collocati al centro rispetto ai due governi rivali, quello di Tripoli ad ovest e quello di Tobruk a est.
Una quarta componente è rappresentata dalle 140 tribù sparse su tutto il territorio, ma in modo particolare al sud della Cirenaica, della Tripolitania e del Fezzan. Il loro ruolo è quello di comprimari, ma, nonostante ciò, fanno sentire la loro voce perché sarebbero in grado di boicottare il passaggio delle pipe-line che transitano nei loro territori, perché dispongono delle chiavi" dell'acquedotto che dall'oasi di Kufra, a sud della Cirenaica, porta acqua potabile sino a Tripoli. Come dire, noi non abbiamo il petrolio ma vogliamo lo stesso la nostra parte della rendita, altrimenti mettiamo in crisi il sistema del condotti e quello idrico. In sostanza, il dopo Colonnello si presenta come una guerra di tutti contro tutti. Nonostante la crisi economica interna e internazionale, nonostante la drastica diminuzione delle estrazioni e, quindi, delle esportazioni di petrolio, così come la distruzione di tutta l'economia libica, i soldi e le armi non mancano solo perché il teatro dello scontro dilata i suoi confini agli imperialismi dell'area, che sostengono questa o quella fazione a seconda dei loro interessi immediati e futuri.
Arabia Saudita e Egitto finanziano e armano il governo di Tobruk. Per Riad, che da sempre è il perno fondante dell'Opec, il maggiore produttore dell'area, il paese che ha fatto il bello e il cattivo tempo sul mercato petrolifero in termini di prezzi e di quantità di barili da estrarre in 55 anni di collaborazione e, a volte, scontro con l'imperialismo Usa, le vicende petrolifere libiche dovono essere attentamente seguite, indirizzate e condizionate. Molto meglio che il futuro governo sia "laico" o islamico moderato, sunnita ma soprattutto fraterno collaboratore dei Wahabbiti. Mai e poi mai Riad consentirebbe le nascita di un governo di ispirazione sciita con il quale non potrebbe avere rapporti economici e politici e, oltretutto, correrebbe il rischio di vedere la Libia orientarsi verso il suo nemico giurato, l'Iran sciita del "nuovo corso".
Per l'Egitto, che ha giocato un ruolo di primo piano nella Lega araba e in tutte le vicende medio orientali, sia che si trattasse di eventi di guerra contro Israele o di dirimere le controversie tra gli stessi paesi arabi, una vittoria delle forze jihadiste ai suoi confini creerebbe le condizioni per un rafforzamento del nemico interno, come i salafiti e, soprattutto, i Fratelli musulmani. Meno che meno sopporterebbe la nascita dello Stato Islamico in Libia. Non per niente, al Sisi ha pensato bene di dare una lezione con i suoi F.16 alle truppe di al Baghdadi in Libia. Per gli Emirati vale un discorso di più basso profilo, anche se il ruolo petrolifero e finanziario che vogliono giocare all'interno dell'area li collocano forzatamente all'interno del campo sunnita a fianco dei sauditi e degli egiziani.
Sull'altro fronte abbiamo il governo jihadista di Tripoli che viene, nonostante le smentite ufficiali, armato e finanziato dalla Turchia e dal Qatar.
La Turchia ambisce a diventare il più importante hub petrolifero nel Mediterraneo, congiungendo Europa e Medio oriente, Siberia russa ed Europa orientale, passando dai collegamenti che la Turchia sta attivando e che in buona parte ha già attivato, per cui i destini del petrolio libico interessano Ankara tanto quanto la disintegrazione della Siria e il ridimensionamento del ruolo dell'Egitto nel Mediterraneo e quello dell'Arabia saudita nella gestione dei rapporti petroliferi internazionali. La scelta di campo è allora obbligata, contro l'Egitto e l'Arabia saudita, contro il governo di Tobruk per un "nascosto" sostegno a quello di Tripoli, al jihadismo di Alba e di Ansar al Sharia.
In quanto al Qatar, vale il discorso fatto per gli Emirati, con la differenza che il governo di Doha ha maggiori ambizioni e mal sopporta la supremazia petrolifera di Riad, il rinascente ruolo politico dell'Egitto di al Sisi, per cui ritiene di trovare il suo spazio nella questione libica sostenendo lo stesso fronte jihadista che è appoggiato dalla Turchia e, per voci sommesse ma insistenti, anche dai seguaci dell'ex presidente egiziano Morsi.
Sembrerebbe essercene anche per lo Stato Islamico di Al Baghdadi. Ufficialmente, dopo che i disegni strategici del Califfo nero sono entrati in collisione con i suoi finanziatori (Usa, Arabia Saudita e Qatar che lo hanno sorretto, armato e finanziato in prospettiva anti Bashar el Assad di Siria e contro al Maliky dell'Iraq ) i rapporti sarebbero terminati. In realtà, qualche canale è rimasto aperto “grazie” alla munificenza interessata di alcuni Principi sauditi, in lotta con la Casa regnante, e a quella di qualche Emiro non allineato alla nuova politica degli Emirati Riuniti. Senza dimenticare che, a parte l'Egitto e la Giordania che hanno avuto la “necessità” d' intervenire contro lo Stato Islamico con atti di ritorsione, per gli altri paesi dell'Alleanza anti-ISIS c'è l'interesse di renderlo innocuo senza spendere più di tanto in termini di uomini e di spesa militare. Il che regala al Califfo l'opportunità di continuare la sua battaglia ideologico – religiosa, e di issare un po' più a lungo la nera bandiera del più ottuso medio evo islamico.
Un passo indietro troviamo il vigile interesse della Francia, causa prima dell'attuale disastro, non più sotto la gestione di un governo di destra come quello di Sarkozy, ma di quello di "sinistra" di Hollande, a dimostrazione che gli interessi imperialistici, in questo caso petroliferi legati al colosso Total – Fina, non hanno colori ideologici diversi, bensì solo interessi coincidenti. Il governo di Parigi per il momento sta a guardare per poi riconvertire al meglio i vecchi contratti, vigilando che la concorrenza europea, in modo particolare quella italiana dell'Eni, non entri direttamente nella partita.
Questo, a grandi linee, il quadro attuale della situazione interna e internazionale che interessa la crisi libica. Manca drammaticamente solo una componente. Quella del mondo del lavoro, dei proletari, di quelli che sono il motore propulsore nell'estrazione del petrolio, di quelli che hanno costruito migliaia di chilometri di condotte e che della rendita petrolifera ricevono una manciata di briciole. A questa componente non soltanto è stato tolto tutto, meno che lo sfruttamento, ma persino il senso di una alternativa sociale a questo mondo capitalistico barbaro e bestiale che produce solo miseria, sfruttamento, guerre e orrendi crimini contro l'umanità e l'ambiente. Come se fosse del tutto naturale essere sfruttati in tempo di pace e carne da macello in tempi di guerra, o combattere e morire sotto le bandiere del profitto, intruppati negli “eserciti banda” dell'Emiro di turno o dietro le bandiere della falsa democrazia. Per il proletariato internazionale, non ha importanza sotto quale latitudine, in Russia come in Ucraina, in Siria come sotto le nere bandiere del Califfato, in Arabia saudita come negli Usa, nell'Italia dell'Eni e di Marchionne come nella Francia del "socialista” Hollande, occorre ripensare alla possibilità di una alternativa a questa perpetua barbarie sociale. Non è più il tempo di inventare strategie di come stemperare le violenze belliche, di combattere l'incremento dello sfruttamento, della disoccupazione e della crescente pauperizzazione a colpi di slogan umanitari. Non è più possibile pensare di correggere questo infame sistema economico e sociale pretendendo di dargli un volto umano. E' tempo di pensare ad una alternativa rivoluzionaria che riproponga al centro della questione il lavoro, l'assenza dello sfruttamento, l'armonia tra produzione-distribuzione e che fermi la distruzione dell'ambiente. Che trasformi i rapporti di produzione per il profitto, che significa sfruttamento dei lavoratori all'interno del sistema economico e aggressione imperialistica all'esterno, in un rapporto produzione - distribuzione in funzione del soddisfacimento dei bisogni sociali. Se questo processo di riacquisizione del senso dell'alternativa sociale non riemerge nei termini politici concreti, la barbarie del capitalismo è destinata a continuare perpetuando sfruttamento miseria e morte come gli ultimi avvenimenti stanno a dimostrare.
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Partito Comunista Internazionalista - Battaglia Comunista
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