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SIONISMO E ANTISIONISMO

Tratto da "COMUNISMO" n. 86 - Giugno 2019 Anno XLI

(1 Settembre 2019)

Theodor Herzl

Theodor Herzl

Il 16 luglio 2018, per commemorare il rastrellamento degli ebrei di Parigi nel 1942, il presidente Macron, in presenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, “mon cher Bibi”, invitato per l’occasione, ha dichiarato: «Non cederemo in nulla all’antisionismo perché è la nuova forma dell’antisemitismo». Poi Macron ha fatto prudentemente marcia indietro sulla sua proposta di una legge per perseguire penalmente l’antisionismo.

Ne è seguito il solito polverone sull’antisemitismo, l’antisionismo, l’agitare fuori di ogni contesto gli orrori della Shoah, il “ritorno” del fascismo, ecc. ecc. Contro questo caos mediatico è necessario tornare almeno sulla definizione marxista dei termini ebraismo, antisemitismo, sionismo, antisionismo.

Il 19 luglio 2018, la Knesset ha adottato una nuova Legge Fondamentale dello Stato di Israele che definisce il paese “lo Stato-nazione del popolo ebraico”, istituendo così formalmente l’apartheid della sua popolazione araba (il 20% della popolazione israeliana, senza contare i territori occupati), e conferma nuovamente Israele come “la patria di tutti gli ebrei”.

La questione quindi torna di attualità: si contrappongono le visioni, entrambe borghesi, di uno Stato laico, “dei cittadini”, per il quale la religione è una questione privata, e quella dello “Stato del popolo ebraico” che, a dire il vero, nessuno riesce a capire cosa significa, ma che serve benissimo a camuffare un antiproletario e controrivoluzionario Stato del capitale, come tutti gli altri.


Giudaismo e antigiudaismo

Piuttosto che “antisemitismo” più esatto sarebbe dire “antigiudaismo”.

La Riforma protestante nel XVI secolo riscoprì le radici del cristianesimo nella Bibbia ebraica. Il termine semita fu poi inventato nel 1781 dall’orientalista tedesco August Ludwig von Schlözer, derivato dal nome di uno dei figli di Noè, Sem, per designare la parentela, stabilita fin dal Medioevo, fra le lingue ebraica, aramaica e araba, di popolazioni che vivevano principalmente nel Medio Oriente, nel Nord Africa e nel Corno d’Africa.

Le scoperte filologiche del XIX secolo portarono alla denominazione degli ebrei contemporanei come semiti, i discendenti razziali degli antichi ebrei.

Il termine semita è stato ripreso dai propagatori della concezione delle razze, cui il francese Ernest Renan contribuì ampiamente: la razza superiore essendo l’indo-europea, o ariana, mentre quella dei semiti, ebraica e araba, era considerata inferiore. Le teorie razziali si sono diffuse fino ad oggi, estendendo alla specie umana le stesse leggi applicate agli animali. Queste teorie si diffusero presto in Europa, Inghilterra compresa.


Sulla definizione di ebreo

Quando i popoli dell’Europa si divisero in nazioni, gli ebrei divennero “una nazione nella nazione”, uno Stato nello Stato; e così quando nacque la nazione tedesca.

Ma esiste un “popolo ebraico”, un gruppo umano con la stessa origine geografica, linguistica e religiosa?

Quello che oggi si chiama “popolo ebraico” ha origini geografiche diverse a causa della sua dispersione storica, proprio come nel caso dei cristiani o dei musulmani. Biologicamente la gran parte di coloro che sono ritenuti ebrei ha poco o nulla a che fare con le tribù della Palestina e i palestinesi di oggi sono certamente molto più vicini in senso genetico agli antichi popoli della regione rispetto agli odierni abitanti di Israele e agli ebrei di tutto il mondo.

Recenti studi sulla popolazione ashkenazita, quella degli ebrei originari dell’Europa orientale e centrale, hanno dimostrato che in media l’80% del loro patrimonio genetico ha un’origine europea e che solo una piccola porzione proviene dal Medio Oriente. Gli ebrei d’Europa si sono infatti incrociati con popolazioni del Nord e specialmente dell’Est e del Centro del continente: Moravia, Polonia, Lituania, oltre a slavi e kazari (turchi delle steppe convertiti all’ebraesimo). E si sono mescolati con popolazioni dalla Mesopotamia alla Spagna.

Questi ebrei parlavano l’yiddish, proveniente da molti dialetti germanici innestati su basi ebraiche e aramaiche, incorporando frasi slave e romanze, ma scritto in caratteri ebraici. Alcuni storici hanno così evocato l’esistenza di un “popolo yiddish”.

Gli “ebrei” non formano quindi una razza, come asserisce ancora oggi la borghesia israeliana, che pratica l’etnocrazia come l’Europa “razzista” del XIX e XX secolo!

Di conseguenza l’antisemitismo non si applica contro una razza o contro una popolazione geograficamente stanziale ma contro una religione e, più in generale, una cultura, una filosofia. Per contro la nozione di “popolo ebraico” su cui si basa la creazione e la costituzione dello Stato di Israele nel 1948 non ha alcuna base oggettiva. Ciò non toglie che lo Stato di Israele esista eccome! Ogni Stato, celata oppressione di una classe sociale su di un’altra, ha bisogno dei suoi miti, anche dei più insensati e ridicoli.

Qual è dunque la definizione del qualificativo o del sostantivo “ebreo”? Ovvio che indica una cultura, un rapporto col mondo, e non un gruppo etnico e ancor meno una razza, che non esiste.


Borghesia e razzismo

Fino alla rivoluzione borghese, nel corso della storia le popolazioni sono state spesso divise in “comunità” separate. Per esempio l’Impero Ottomano, pur definendo l’Islam religione di Stato, tollerò le altre religioni, organizzate in “comunità” separate e riconoscibili, con propri quartieri nelle città, governate ciascuna da un “consiglio” e con leggi proprie.

Ma ancora oggi in alcuni borghesissimi e democratici Stati i cittadini sono registrati in base alla loro appartenenza a una “comunità religiosa”, come in Svizzera, in Germania e in altri paesi del Nord Europa, alla quale talvolta devono per legge versare del denaro, e anche se l’individuo si dichiara ateo o del tutto indifferente.

Perfino in Francia la separazione tra Stato e chiesa risale solo al 1905 e il solenne “principio di laicità” proclamato nella Costituzione non ha fatto sparire del tutto la realtà di una nazione “cristiana”, diffidente nei confronti delle altre religioni, dell’“ebreo”, preso a simbolo dell’usura e della finanza internazionale, e oggi dei praticanti l’islam, per esempio.

In Germania il nazismo non discriminò solo la popolazione ebraica. Nacque in reazione alla lotta di classe e una sua funzione essenziale fu lo sterminio dei comunisti. Poi, fra le altre “razionalizzazioni” della borghese nazione tedesca, si impegnò nella eliminazione di una sovrappopolazione che pesava sulla riproduzione del Capitale. Questa oltre ai comunisti, includeva gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, i malati di mente, i rom e gli slavi. L’”olocausto” deve quindi comprendere le decine di milioni di morti “senza etichetta”, sterminati dalle due guerre mondiali. Tutte queste morti, nei campi di concentramento, sotto le bombe e sui campi di battaglia, sono servite a salvaguardare l’ordine capitalista e a dare nuova vita al sistema capitalistico.

Secoli ormai di regimi democratici e di solenni Costituzioni non hanno fatto sparire i pregiudizi razziali, nazionali e religiosi e le persecuzioni e discriminazioni, legali o di fatto. Il razzismo è un valido strumento che le classi dominanti useranno sempre per dividere il proletariato e distoglierlo dai suoi compiti storici.


Nascita del sionismo

Ove nel XIX secolo si erano affermati gli Stati-nazione si era avuto un indebolimento delle precedenti istituzioni medioevali delle comunità, ebraiche in particolare, e la richiesta degli stessi diritti degli altri cittadini.

L’Haskalah, “educazione”, fu un movimento ebraico di pensiero ispirato all’illuminismo europeo, emerso in Germania nel XVIII-XIX secolo. Esprimeva il desiderio di integrare gli ebrei in società laiche, abbandonando la cultura ebraica e la lingua yiddish, opponendosi così alla tradizione. L’Haskalah cercò di rompere l’egemonia dei rabbini ortodossi sugli ebrei delle piccole città dell’Europa orientale e di rinunciare a tutto ciò che percepiva come cultura ebraica “medievale” a favore della moderna cultura secolare europea. Un giudaismo riformato, protestante, emerse dal seno dell’Haskalah. Questo programma assimilazionista si proponeva di integrare gli ebrei nella modernità europea.

Ma con i pogrom del 1880 perse terreno come via per l’integrazione degli ebrei.

Il sionismo nacque senza dubbio come reazione ai pogrom. Questi si moltiplicavano, specialmente alla fine del secolo in Russia e in Polonia, dove viveva la maggior parte delle comunità ebraiche. Da qui, nel secolo, si era sviluppata una forte emigrazione, principalmente verso gli Stati Uniti, che continuerà ad essere accolta fino agli anni ‘30, mentre una piccola parte di essa si dirigeva verso la Palestina.

Ma anche l’affare Dreyfus in Francia del 1898 ebbe un’eco notevole nel mondo occidentale e accentuò lo sviluppo del movimento sionista.

Era un sionismo teso a creare uno Stato per gli ebrei, a differenza delle precedenti correnti sioniste, spirituali o culturali. Fomentava un sentimento nazionale per la creazione di un centro territoriale o uno Stato popolato da ebrei in “terra di Israele”, la Palestina del mondo moderno, che faceva allora parte dell’Impero Ottomano, dove la popolazione ebraica era vissuta nell’antichità.

Il suo teorico era l’austro-ungherese Teodoro Herzl, nato a Budapest, vivente in Austria, ebreo assimilato e laico. Come giornalista aveva seguito l’affare Dreyfus, e nel 1896 aveva pubblicato un’opera “Der Judenstaat”, “Lo Stato degli Ebrei” (non “Lo Stato ebraico”, come spesso viene tradotto), in cui considerava che gli ebrei non sarebbero mai stati integrati negli altri Paesi e che avevano bisogno di uno Stato proprio. Il sionismo quindi chiedeva un ritorno a Sion, che è una delle colline che circondano Gerusalemme. Nessun accenno vi si fa all’esistenza in quella terra di una popolazione autoctona.

Si trattava di fatto di un progetto colonialista, inserito nel contesto del colonialismo e dell’imperialismo europeo.

Del resto, nei secoli andati, non avevano forse i profughi protestanti colonizzato il Nordamerica? In pieno Novecento, nel 1938, anche Mussolini avanzerà la possibilità della formazione di una “patria ebraica”, che avrebbe costituita nelle colonie africane, nei Migiurtini. Questo scrive il 30 agosto Galeazzo Ciano nel suo “Diario”: «Il Duce mi comunica anche un suo progetto di fare della Migiurtinia una concessione per gli ebrei internazionali. Dice che il Paese ha notevoli riserve naturali che gli ebrei potrebbero sfruttare». È da notare che tre mesi dopo l’Italia emanerà le leggi razziali. Una contraddizione? Certo che no! dimostra come sia vero che sionismo ed antisemitismo vanno a braccetto.

Herzl vantava presso le borghesie occidentali l’interesse che esse avrebbero potuto trarre dal vedere partire una popolazione povera e che si stava spostando dall’Oriente verso Occidente.

Nel 1897 Herzl convocò a Basilea il primo Congresso sionista. Si avvicinò al banchiere francese Edmond de Rothschild che aveva iniziato a comprare terreni in Palestina già nel 1882.

Comprendendo che il suo piano per il futuro dell’ebraismo europeo era in linea con quanto desiderato dal movimento anti-giudaico, Herzl sviluppò rapidamente una strategia di alleanza con quest’ultimo. Scrisse in “Der Judenstaat” che «i governi di tutti i paesi colpiti dall’antisemitismo saranno molto interessati ad aiutarci ad ottenere la sovranità che vogliamo», aggiungendo che «non solo gli ebrei poveri» avrebbero contribuito ad un fondo per l’emigrazione degli ebrei europei, «ma anche i cristiani che vogliono liberarsi di loro». Herzl confidò senza complessi al suo diario che «Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più fidati, i paesi antisemiti i nostri alleati».

Nel 1902, Herzl si mise in contatto con il governo britannico, in particolare con il Segretario di Stato Chamberlain, ed ottenne il sostegno del ricchissimo Lord Walter Rothschild, partigiano e sostenitore finanziario del sionismo. Nel 1903 incontrò dei noti antisemiti come il Ministro degli Interni russo Vyacheslav von Plehve, che aveva organizzato pogrom anti-ebraici in Russia, cercando di proposito un’alleanza. E si rivolse anche ad un altro famoso antisemita, Lord Balfour che, come Primo Ministro della Gran Bretagna, promosse nel 1905 la Legge sugli Stranieri o Aliens Act. Questa aveva lo scopo di frenare l’immigrazione verso il Regno Unito di profughi ebrei provenienti dall’Impero russo in fuga dai pogrom, al fine, come dichiarò apertamente, di salvare il paese dai «mali incontestabili di una immigrazione essenzialmente ebraica». Le tesi razziste e antisemite avevano e hanno molto seguito in Inghilterra.

Il comunista Bund, l’Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia, che fu fondato a Vilna, nella Lituania russa, il 7 ottobre 1897, poche settimane dopo lo svolgimento del primo Congresso Sionista a Basilea, divenne il più aperto nemico del sionismo di Herzl. Il Bund su questo si trovò allineato alla esistente coalizione di rabbini, ortodossi e riformisti, antisionisti in quanto memori dell’articolo di fede che gli ebrei non avrebbero avuto una loro terra prima della venuta del Messia.

Ma la situazione politica in Medio Oriente progrediva nel senso desiderato da Herzl. Dalla fine del XIX secolo le potenze imperialiste, come la Francia, la Gran Bretagna, la Russia e anche la Germania si stavano preparando a spartirsi l’Impero Ottomano che si decomponeva rapidamente. Ma contemporaneamente nasceva anche il nazionalismo arabo che veniva abbracciando le conquiste ideologiche europee.

La nascita del movimento operaio in Medio Oriente ebbe luogo prima del 1914 con organizzazioni di mestiere dove i proletari indigeni si mescolavano con il proletariato coloniale europeo.

L’imperialismo inglese, al fine di indebolire ulteriormente l’Impero Ottomano, incoraggiò il movimento per l’indipendenza, all’inizio composto da arabi cristiani e musulmani, ma ancora debole a causa delle ostilità tribali e della concorrenza tra le borghesie regionali. Inoltre, la “perfida Albione” ovviamente preferiva affidarsi alle organizzazioni religiose sunnite, come avevano fatto prima gli Ottomani, in una regione in cui gli sciiti erano molto numerosi. La diplomazia britannica quindi incoraggiò il nazionalismo arabo, pur cercando di dividerlo, con la promessa fatta nel 1915 allo Sceicco sunnita della Mecca Hussein e ai suoi beduini, come a Ibn Saud, in cambio della loro partecipazione alla guerra contro i turchi ottomani, di «riconoscere e sostenere l’indipendenza degli arabi» e di favorire la creazione di un grande Stato arabo indipendente.

Ma già nel 1916, il Regno Unito firmò l’accordo segreto con i francesi detto Sykes-Picot, che spartiva tra i due paesi imperialisti il grande regno destinato agli arabi (senza prevedere alcun Focolare nazionale ebraico). Il mantenimento delle promesse fatte a Hussein era fuori questione!

La grande rivolta araba guidata dall’emiro Hussein e dai suoi figli dal 1916 al 1918 permise a Londra di aprire un fronte a sud dell’Impero Ottomano. A missione compiuta il pericolo per l’imperialismo inglese era ormai il nazionalismo arabo: la strategia fu quella di creare dalle rovine dell’Impero Ottomano degli Stati deboli e opposti tra di loro. Divide et impera, vecchio congegno ma sempre attuale.

Dopo aver simulato di sostenere il nazionalismo arabo per indebolire l’Impero Ottomano, ora si trattava di trovare il modo di opporsi a questo nazionalismo arabo! Nel mezzo del conflitto mondiale Londra si rivolse al movimento sionista. Promettere ad esso un “Focolare Nazionale” poteva – pensavano gli strateghi britannici – trasformare gli ebrei in una risorsa: in Palestina, dove essi avrebbero appoggiato le truppe del generale Allenby; negli Stati Uniti dove avrebbero accentuato l’impegno del paese nella guerra; in Germania, in Austria-Ungheria, in Russia, dove gli imperialisti speravano che, essendo molti capi bolscevichi e menscevichi di origine ebraica, ne sarebbero stati distolti. Senza dimenticare che si trattava anche di contrastare la presenza francese.

Negli ultimi decenni si erano già stabilite in Palestina delle colonie di ebraiche, provenienti, dal 1878, principalmente dalla Russia a seguito dei pogrom. Ma ancora all’inizio del XX secolo, la Russia zarista impantanata in disordini politici, nella guerra russo-giapponese, poi nella rivoluzione del 1905, conobbe ancora un’ondata di pogrom; furono quasi un milione gli ebrei che lasciarono il paese, e 40.000 di loro, tra cui molti socialisti, si diressero verso la Palestina, la “Terra Santa”.

Nel 1917 iniziò l’occupazione britannica della Palestina. Fu poi pubblicata la famosa Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917. La data della lettera era quella della vittoria decisiva che l’esercito britannico aveva ottenuto a Gaza contro le forze ottomane. La Dichiarazione Balfour consisteva in una lettera aperta, dattilografata, che Lord Arthur James Balfour, allora Ministro del Foreign Office, aveva inviato il 2 novembre 1917 a Lord Walter Rothschild, “capo” della “comunità ebraica britannica”, finanziatore del movimento sionista, e che fu pubblicata sul “Times” il 9 novembre nell’inserto “La Palestina per gli ebrei - La simpatia ufficiale”. La lettera è breve e vale citarla nella sua interezza.

«Foreign Office, 2 novembre 1917
«Caro Lord Rothschild,
«A nome del Governo di Sua Maestà, sono lieto di inviarvi la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni sioniste ebraiche, dichiarazione presentata al Gabinetto e da esso approvata.
«Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e farà ogni sforzo per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche in Palestina e i diritti e lo status politico di cui godono gli ebrei in qualsiasi altro paese.
«Le sarò grato se porterà questa dichiarazione all’attenzione della Federazione Sionista.
«Arthur James Balfour».

I promotori cristiani del sionismo, Lord Shaftesbury fin dal 1839 (in quell’anno aveva acquistato una pagina completa del “Times” per pubblicare un articolo in cui suggeriva il ritorno degli ebrei in Giudea e in Galilea: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”) e Lord Balfour nel 1917, pensavano così di sbarazzarsi del problema della immigrazione degli ebrei in Gran Bretagna. Lord Arthur James Balfour fu infatti sostenuto da un “Sionismo Cristiano” sostenitore del “ritorno” degli ebrei in Palestina al fine di ripulire dagli ebrei il paese a maggioranza cristiana.

Edwin Samuel Montagu, ebreo, fu l’unico membro del gabinetto di David Lloyd George, a cui apparteneva Balfour, ad opporsi alla dichiarazione Balfour, che considerava antisemita, e al progetto sionista nel suo complesso. Montagu mise in guardia contro la prospettiva che l’impresa sionista avrebbe comportato l’espulsione di musulmani e cristiani indigeni dalla Palestina e che avrebbe rafforzato anche in tutti gli altri paesi le correnti che volevano sbarazzarsi degli ebrei.

La famigerata Dichiarazione Balfour vanificò gli impegni che Londra aveva precedentemente fatto ai nazionalisti arabi, che gridarono al tradimento. Lawrence d’Arabia poteva andare a cambiarsi d’abito!

Il Regno Unito si dichiarò quindi favorevole alla creazione di una nazione ebraica in Palestina, la quale non avrebbe dovuto però danneggiare le preesistenti comunità non ebraiche esistenti! Una contraddizione di cui presto si raccoglieranno gli amari frutti.

Nel 1917 gli inglesi favorirono l’immigrazione ebraica in Palestina. Secondo le istruzioni della Società delle Nazioni, nel 1922 fu creato un sistema politico autonomo responsabile per gli ebrei, attorno ad un’assemblea eletta e ad una Agenzia Ebraica incaricata del potere esecutivo. Quest’ultima era una branca dell’Organizzazione Sionista Mondiale fondata nel 1897 a Basilea da Teodoro Herzl (la sede fu in seguito spostata a Berlino, Londra, New York e oggi si trova a Gerusalemme). Il Jewish Colonial Trust (Fondo per la Colonizzazione Ebraica) fu fondato da Herzl nel marzo del 1899 e raccolse i capitali ricevuti da tutta la diaspora ebraica; nel 1901 il Fondo Nazionale Ebraico riuscì ad acquistare i terreni messi in vendita in Palestina, in primo luogo dagli ottomani poi, dopo il 1919, dai proprietari terrieri arabi, indifferenti al destino dei contadini che vivevano su quelle terre e le coltivavano. Questo fondo si trasformò in una banca anglo-palestinese e poi nella National Bank of Israel nel 1951.

La popolazione ebraica della Palestina passò quindi da 94.000 nel 1914 (con 525.000 musulmani e 70.000 cristiani) a 630.000 nel 1947 alla fine del mandato britannico (con 1.181.000 musulmani e 143.000 cristiani); l’80% della popolazione ebraica era costituita da ashkenaziti provenienti dall’Europa. Nel 1926, arrivarono in Palestina 100.000 ebrei, dato che dal 1925 gli Stati Uniti avevano limitato l’ingresso di ebrei: nel 1924 si contarono 50.000 ebrei immigrati negli Stati Uniti e 14.000 in Palestina, l’anno seguente l’opposto. Nel 1931, la popolazione ebraica in Palestina raggiunse le 164.000 persone (il 16% della popolazione della Palestina), di cui un quarto era di origine orientale; nel 1938 erano 217.000, principalmente provenienti dalla Russia, dai Paesi Baltici e dall’Europa centrale; il tasso di emigrazione in Palestina raddoppiò a partire dal 1933.

L’ascesa del nazismo, ovviamente, provocò un’accelerazione dell’immigrazione ebraica dalla Germania: dal 1932 al 1939 ci furono 247.000 arrivi, cioè 30.000 all’anno, quattro volte di più rispetto agli anni seguenti la Prima Guerra Mondiale. Rappresentando più una fuga dalle persecuzioni che una “scelta sionista” questo trasferimento in Palestina beneficiò dell’accordo detto “Haavara”, concluso dall’Organizzazione Sionista con le autorità naziste di Berlino il 25 agosto 1933 e che funzionò fino al 1939. Questo accordo facilitava l’emigrazione degli ebrei tedeschi in Palestina, in cambio questi ultimi avrebbero versato del denaro per comprare merci tedesche per la Palestina, aggirando così l’embargo britannico. Ne beneficiarono 20.000 ebrei tedeschi. Molti di questi avrebbero preferito migrare verso altre aree del mondo più prospere, ma la maggior parte dei paesi europei (la Gran Bretagna in particolare) e gli Stati Uniti si mostrarono piuttosto ostili, e questo anche dopo la Seconda Guerra Mondiale.

In Medio Oriente il malcontento contro il tradimento inglese e le sue promesse mancate, già vivo nel 1917, crebbe nel periodo tra le due guerre mentre si rafforzava la costruzione del Focolare Nazionale ebraico, il cui sviluppo violava la clausola del mandato che avrebbe dovuto proteggere teoricamente le popolazioni “non ebraiche” che costituivano la grande maggioranza.

Di qui le rivolte sempre più massicce e sempre più violente, con un Regno Unito preoccupato soprattutto di non lasciare che il suo potere sulla regione venisse messo in discussione.

Dopo gli scontri del 1920, alla vigilia della Conferenza di San Remo, (5 morti ebrei e 4 arabi) e quelli del 1921 a Jaffa (47 ebrei e 48 arabi uccisi), avvenne l’esplosione, molto più grave, del 1929: gli scontri avvennero un po’ ovunque, anche a Gerusalemme, attorno al Muro del Pianto, e a Hebron, dove parte della popolazione araba uccise decine di ebrei mentre un’altra parte li protesse. In totale, in una settimana di agosto, le rivolte costarono la vita a 133 ebrei e 116 arabi. Alla fine, nel 1936, ci fu un vero e proprio sciopero insurrezionale palestinese, che durò quasi tre anni.

Dal 1945 al 1947, i 100.000 soldati britannici di stanza in Palestina combatterono l’attività dei gruppi sionisti che erano diventati molto aggressivi. La tragedia della nave Exodus, durante l’estate del 1947, quando fu impedito ai sopravvissuti dei campi di sterminio di sbarcare in Palestina, ricoprì di ignominia il governo di Sua Maestà, ma la responsabilità andava estesa a tutte le borghesie uscite vittoriose dalla guerra.

Comunque sia, la Seconda Guerra Mondiale aveva suonato la campana a morto per l’imperialismo britannico, che dovette passare la mano allo statunitense. Il governo di Sua Maestà stimò che il Regno Unito, stremato dalla guerra mondiale, non poteva più permettersi di stazionare 100.000 uomini in Palestina – un decimo delle sue forze all’estero – né spendere 40 milioni di sterline l’anno per il suo mandato. Non dimentichiamo che Londra sopravvisse solo grazie al prestito di 39 miliardi di sterline da parte degli Stati Uniti (un debito che non sarà rimborsato completamente che nel 2006!).

Restava da trovare la migliore soluzione per preservare gli interessi britannici in Medio Oriente.

Un fattore altrettanto determinante per la regione fu la pressione internazionale, in particolare quella degli Stati Uniti e dell’URSS. Oltre alla urgente necessità di risolvere la questione degli scampati al genocidio, Washington e Mosca condividevano uno stesso calcolo strategico, naturalmente ciascuno a pro’ suo: cacciare i britannici dalla Palestina per indebolire la loro presa in tutta la regione. Ancora i due grandi vincitori della guerra mondiale non erano passati alla cosiddetta “guerra fredda” – questa iniziò nel febbraio 1948 con la presa del potere da parte dei “comunisti” a Praga in Cecoslovacchia.

Il 18 febbraio 1947 il Foreign Office dovette consegnare il suo mandato alle Nazioni Unite. Largo ai vincitori! Il 14 maggio 1948, lo Stato di Israele fu proclamato alla radio dalla voce di Ben Gurion.

L’esercito inglese lasciò la Palestina. I gruppi terroristi ebraici si dettero ad atrocità contro la popolazione palestinese inerme per spingerla a fuggire. Lo Stato di Israele fu immediatamente riconosciuto dagli Stati Uniti e dopo due giorni dall’URSS. La Turchia fu il primo paese musulmano a riconoscere Israele nel 1949. Le due maggiori potenze imperialiste di allora, USA e URSS, avevano capito l’importanza controrivoluzionaria di questo piccolo Stato per contrastare i movimenti nazionalisti e di decolonizzazione non solo in Medio Oriente ma nel mondo intero.

Dopo il 1948 molti ebrei continuarono ad immigrare verso Israele, dato che non erano graditi in Europa e neppure negli Stati Uniti. Nei primi anni dopo la fine della guerra, centinaia di migliaia di ebrei, che non avevano più casa, vivevano ancora nei campi di concentramento. Anche la Palestina era per loro chiusa dagli inglesi. Per i polacchi tornare significava spesso perdere la vita. Gli Stati Uniti, terra di migranti, già nel 1921 avevano ridotto l’immigrazione attraverso delle leggi che limitavano la quota al 3% per ogni Paese; nel 1924 una legge restrittiva riguardò l’immigrazione dall’Est e dal Sud dell’Europa; pochissimi ebrei erano stati accolti durante la guerra; una nuova legge contro l’immigrazione fu approvata nel 1952 (gli Stati Uniti non firmarono la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati provenienti da paesi in cui erano perseguitati). Un milione di ebrei arrivò invece in Israele dal Maghreb, sia perché erano stati espulsi, come nel caso dell’Egitto, sia perché convinti a farlo da organizzazioni di propaganda ebraiche.

Alla fine degli anni ‘70, l’emigrazione riprese dall’URSS, che attraversava una grave crisi economica, e si accelerò con Gorbaciov nel 1988.

La Comunità russa di Israele è oggi la più numerosa, più di un milione. Gli ebrei russi, prima diretti verso gli Stati Uniti, si sono volti nel 1990 verso Israele dopo l’inasprimento della politica di immigrazione negli Stati Uniti. Per ragioni economiche, più che ideologiche, si sono stabiliti anche negli insediamenti della Cisgiordania e di Gaza: i russi sono il 96,6% della popolazione della colonia di Ariel, l’84,9% di Ma’ale Adunim, il 74,5% di Kiribati Arba. Gli affitti in questi insediamenti, “città dormitorio” vicino alle zone di lavoro di Tel Aviv, di Gerusalemme e più in generale lungo la Linea Verde, godono di sovvenzioni statali.

Attualmente Israele ha una popolazione di 6,5 milioni di ebrei (il 75% della sua popolazione totale), mentre la popolazione mondiale di ebrei è stimata in 15 milioni, di cui 6 negli Stati Uniti.


Il primo antisionismo

Il sionismo fin dalla sua nascita nel XIX secolo incontrò rapidamente ostilità all’interno delle comunità ebraiche, sia di religiosi, riformatori o conservatori, sia di laici, molti dei quali si professavano socialisti. La maggior parte della popolazione ebraica del mondo viveva allora nell’Impero Russo, non in Russia ma in Lituania, Polonia, Bielorussia, Ucraina, Moldavia. Si può quindi affermare che l’antisionismo era soprattutto diffuso e maggioritario tra le comunità ebraiche, in Europa e negli Stati Uniti, che continuavano a vedere il sionismo come un movimento anti-ebraico, e questo fino agli anni ‘40. Per questi ebrei si trattava di combattere per rimanere nel “loro” paese, non per essere mandati in un territorio che non riconoscevano assolutamente come loro patria. Anche per questo, quando lo Stato di Israele afferma che è lo “Stato degli ebrei”, si riferisce agli ebrei sionisti, e di fatto ha bisogno e si alimenta dell’antisemitismo.

Gli ambienti religiosi ebraici consideravano, e considerano, il sionismo addirittura una bestemmia, idolatria, perché nella loro dottrina non ci può essere una patria per gli ebrei senza la precedente venuta del Messia.

L’organizzazione del Bund, Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia, creata nel 1897 in Lituania, era un movimento socialista ebraico laico, lottava per i diritti dei lavoratori ebrei, rivendicava l’uso della lingua yiddish e si opponeva al sionismo, visto come complice del colonialismo britannico. Fu riconosciuto come una frazione del Partito socialdemocratico dei lavoratori di Russia nel 1898, era vicino ai menscevichi. Nel 1905 il Bund fu in prima linea nelle proteste in Bielorussia, nel 1917 non passò ai bolscevichi, ma numerosi suoi iscritti aderirono infine al Partito bolscevico. Ricordiamo che il bundista Marek Edelman, uno dei capi della rivolta del Ghetto di Varsavia del 1943, si dichiarava apertamente antisionista.

Quindi l’antisionismo nasce storicamente come opposizione ebraica ad un progetto che nega che un individuo che si dichiara ebreo possa essere integrato nel Paese e cittadino di pari diritti nello Stato in cui è nato e vive. Antisionisti erano gli ebrei che non riconoscevano la Palestina come il loro Paese.

Ancor oggi, la maggioranza degli ebrei, che vive al di fuori di Israele, considera la possibilità di una loro “alià”, “salita” (a Gerusalemme) solo quando siano nella necessità di emigrare dal paese che abitano da secoli, tranne casi di idealismo religioso.

È evidentemente cosa del tutto indipendente dall’antisionismo di chi dissente e condanna la politica della borghesia israeliana di colonizzare i territori palestinesi e di opprimere le popolazioni arabo israeliane, agitando freneticamente l’alibi della Shoah.

Noi comunisti, come abbiamo scritto, non siamo anti-israeliani, come non siamo anti-americani, per esempio. Definiamo la politica della borghesia israeliana come colonialista, una politica di oppressione contro la sua popolazione araba e anche contro lo stesso proletariato, ebreo ed arabo, di Israele. Siamo ugualmente critici nei confronti della borghesia palestinese, complice della borghesia israeliana nell’oppressione del proletariato palestinese. E auspichiamo l’unione delle classi proletarie israeliana e palestinese, per combattere il loro nemico comune, la borghesia israeliana e palestinese unite fra loro e sottomesse alla borghesia internazionale. Siamo internazionalisti e la nostra lotta è quella del proletariato internazionale contro la borghesia internazionale.

Siamo anti-sionisti come siamo nemici di tutti gli Stati borghesi. In particolare, nella regione, prefiguriamo un sovvertimento anche delle presenti istituzioni statali, che può andare ben oltre la soluzione a “due Stati” e verso una federazione di repubbliche nate dalla sollevazione rivoluzionaria delle classi lavoratrici.

Ciò che invece interessa il governo israeliano e molti dei suoi sostenitori non è combattere l’antisemitismo e la “rinascita del nazismo”, come dimostrano i flirt con le forze di destra in Europa e negli Stati Uniti, continuando ad applicare la ricetta di Teodoro Herzl. Chi difenderà infine gli ebrei (i proletari ebrei) dagli ebrei (dai borghesi ebrei)?

Ma non denunciamo solo la politica colonialista di Israele, denunciamo la connivenza dei grandi Stati imperialisti prima della Seconda Guerra mondiale nella creazione dello Stato di Israele, in una terra palestinese squassata da movimenti nazionali arabi, e la connivenza dopo la guerra, e anche quella attuale, di tutte le borghesie, comprese quelle arabe, per controllare qualsiasi movimento delle masse proletarie arabe e dello stesso proletariato israeliano.

L’imperialismo offre il suo sostegno incondizionato alla politica di Israele, un piccolo Stato ma fortemente sostenuto dal gigante americano. Oggi lo Stato di Israele è una delle roccaforti militari statunitensi in Medio Oriente, che garantisce il mantenimento dell’ordine sulle nazioni arabe che lo circondano e in Nord Africa sull’Egitto, ma soprattutto sul proletariato di tutte queste nazioni la cui unità è stata finora impedita.

Il proletariato israeliano, schiacciato dalla propaganda che la sua borghesia gli ammannisce quotidianamente, non ha altra soluzione se non sfuggire a questa oppressione con la lotta di classe contro la sua borghesia, che lo sfrutta materialmente, lo opprime con leggi sempre più dispotiche e fasciste, lo indebolisce moralmente con la propaganda bellicista e gli inculca l’odio contro un presunto aggressore per separarlo dai suoi fratelli di classe arabi e palestinesi.

Di fronte alla crisi economica globale gli attacchi contro i lavoratori continuano a moltiplicarsi, e ogni scusa è buona per aizzare l’odio tra le varie “comunità” e dividere il proletariato.

Solo il proletariato internazionale, percorrendo la via della difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro nelle sue organizzazioni economiche, conquistate alla direzione del Partito Comunista, potrà salvare non solo se stesso ma tutta l’umanità dalle atrocità del sistema capitalista stabilendo, prima di tutto con la sua dittatura sulle altre classi, le basi di una nuova società in cui non esisterà più lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, dove la divisione in classi, il salario e il capitale, la proprietà individuale e l’odio per “l’altro” non avranno più alcun posto!

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Partito Comunista Internazionale

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