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(Contratto Metalmeccanici)

Tute blu in sciopero per il contratto. Confindustria replica: basta sindacato

(9 Gennaio 2006)

Da domani inizia la fase decisiva della vertenza contrattuale dei metalmeccanici. Contemporaneamente si avvia il negoziato finale e ripartono gli scioperi.
In pochi giorni sapremo se la più importante categoria dell’industria, avrà finalmente un accordo da poter giudicare con il proprio voto, oppure se l’intero sistema contrattuale verrà messo in crisi. Tutto dipende dal gruppo dirigente della Confindustria. E’ da lì, che in questi mesi, sono venuti ostacoli e pregiudiziali all’accordo. Di fronte a una richiesta sindacale assolutamente moderata, consistente in 105 euro per il quinto livello più altri 25 euro come indennità per la mancata contrattazione aziendale, da parte padronale si è sin dall’inizio posta la più rigida delle interpretazioni delle regole del 23 luglio.

La Federmeccanica, in assoluta sintonia con la Confindustria, il cui vertice, è bene ricordarlo, è tutto composto da industriali metalmeccanici, ha presentato una contabilità persino insultante. Così alla fine delle somme, per i metalmeccanici venivano fuori ben 59 euro e 58 centesimi, benignamente arrotondati a 60. Solo nel mese di dicembre, di fronte alla palese impossibilità di continuare ad arroccarsi attorno agli indici dell’inflazione programmata per il 2005, la Federmeccanica ha leggermente rivalutato la sua proposta a 76 euro. Ma lo schema del ragionamento è sempre stato lo stesso. Se volete di più di queste cifre, che anche noi ci rendiamo conto essere troppo basse, allora dovete pagare l’aumento lavorando di più. Questo sin dall’inizio e sino a pochi giorni fa è stato il succo della posizione degli industriali.

Così mentre promuoveva conferenze sull’innovazione e sulla formazione e sulla necessità di cambiare, la Confindustria rinnovava con il metalmeccanici il più antico e tradizionale attacco al costo del lavoro. La parola d’ordine è quella della flessibilità, come se non ce ne fosse già troppa. Gli industriali però vogliono ben altro: essi parlano di flessibilità, ma intendono ottenere una profonda revisione a loro favore dei ruoli dei poteri della contrattazione.

Si deve poter imporre di lavorare 60 ore quando serve e di stare a casa quando e come vuole il padrone. Si deve poter utilizzare al meglio la legge 30 per così adoperare appieno la precarietà della forza lavoro. E soprattutto si deve realizzare tutto questo senza l’interferenza della contrattazione aziendale.
Una nuova, orribile, parola ha così invaso il vocabolario delle relazioni sindacali: “esigibilità”. Essa vuol dire che si fanno gli accordi nazionali solo se servono a impedire la contrattazione nelle aziende. Il vicepresidente della Confindustria si è spinto più in là, e ha addirittura parlato di un nuovo patto costituzionale, per proibire lo sciopero quando le aziende esigono la flessibilità.

Su questi temi c’è stato lo scontro principale del contratto in tutti questi mesi. Alla faccia di tanta propaganda sul decentramento in azienda della contrattazione, si è tentato di imporre, nel contratto nazionale dei metalmeccanici, la soppressione del potere di contrattazione delle Rsu nei luoghi di lavoro. Del resto la Confindustria ha sempre combattuto la contrattazione in azienda. Per questo quando i suoi esperti parlano di riduzione del peso e del ruolo del contratto nazionale, non pensano certo a contrattare di più altrove. Il ridimensionamento del ruolo del contratto nazionale serve a ridurre la contrattazione dappertutto. Così come la cancellazione della scala mobile ha ridotto dappertutto il salario contrattato e garantito ai lavoratori.

Per queste ragioni la vertenza dei metalmeccanici da conflitto sul salario è diventata uno scontro complessivo sui diritti e sulla contrattazione. I lavoratori l’hanno compreso bene e per questo hanno scioperato per un anno con tanta determinazione. Per ottenere un accordo salarialmente dignitoso, senza scambio o rinunce sui diritti, i metalmeccanici sinora hanno scioperato per ben 50 ore. Una perdita media di oltre 600 euro nelle buste paga, nella prospettiva di ottenere un aumento che al massimo può essere di 130. Fa rabbia tutto questo nel paese delle plusvalenze e dei guadagni improvvisi e scandalosi. Ma i metalmeccanici, per fortuna, non ragionano in termini di guadagno a breve. Essi sanno che ciò che conta è investire sul futuro dei diritti e della contrattazione.

Conta anche se costa. I metalmeccanici fanno parte di ciò che ancora resta di sano in questo paese travolto dalla caduta dei valori e dei principi. E certamente l’Italia andrebbe infinitamente meglio se, come ci ricordava su queste pagine un’intervista a Enrico Berlinguer, si capisse che la questione morale è intrinsecamente legata alla svalutazione che dagli anni Ottanta in poi ha subìto il lavoro. E’ allora utile ricordare che l’intransigenza che si oppone ai diritti dei metalmeccanici non è quella dei furbetti del quartierino, degli speculatori finanziari, bensì quella della crema del padronato e del sistema delle imprese. Sono costoro, gli imprenditori progressisti e neocentristi, che sinora si sono con più determinazione opposti alle richieste dei metalmeccanici. Rifletta su questo la politica italiana. Se nei prossimi giorni non si arriverà a quell’accordo, giusto e dignitoso che i lavoratori metalmeccanici meritano, nella campagna elettorale non irromperanno solo le vicende giudiziarie delle scalate e del capitalismo, ma i cortei dei lavoratori che da spendere hanno solo le proprie assolute e incontestabili ragioni.

Giorgio Cremaschi (Liberazione 8 Gennaio 2006)

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