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il pane e le rose

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Miei cari amici palestinesi

Lettera aperta di una ebrea americana

(17 Settembre 2003)

Ellen Siegel, infermiera ebrea di nazionalità americana, volontaria nel 1982 al Gaza Hospital di Sabra, ai sopravvissuti e ai profughi palestinesi di Sabra e Chatila in occasione del ventunesimo anniversario del massacro del 1982 organizzato e coordinato da Ariel Sharon, allora ministro della difesa, nel quale furono uccise oltre 3.000 persone. In quanto cittadina ebrea americana testimoniò davanti alla Commissione di inchiesta israeliana a Gerusalemme presideduta dal giudice Kahan. Ellen Siegel è vicepresidente del Medical Committee of American near East Refugee Aid ed è esponente del movimento per la pace ebraico.

Miei cari amici, Per la prima volta dopo vent'anni, sono recentemente tornata a Beirut, a Chatila e al Gaza Hospital a Sabra, dove avevo lavorato come infermiera volontaria quell'estate del 1982. Sono tornata per ripercorrere quella tragica esperienza. Per ricordare, per essere lì accanto a voi, per esprimervi la mia solidarietà e soprattutto rendere omaggio a voi e alla memoria dei vostri cari.

Il primo giorno, all'alba, mi sono diretta verso il campo e un'auto mi ha lasciata davanti a quella che era stata l'entrata del Gaza Hospital, là dove le milizie falangiste, vent'anni fa, radunarono tutti i sanitari del nosocomio medici e paramedici. Quello che una volta era stato il posto dove le palestinesi e le libanesi del campo venivano per dare alla luce i loro bambini, dove gli abitanti andavano per operarsi e dove i sanitari cercavano di soddisfare le esigenze sanitarie dei rifugiati e dove allora sventolava un'enorme bandiera della Croce rossa, è ora divenuto un posto quasi inabitabile dove vivono molti palestinesi rimasti, alcuni da allora, altri dalla metà degli ottanta, senza casa.

L'entrata è buia, maleodorante, infestata dai topi, coperta di immondizie. Per arrivare alle scale e per salire ai piani superiori occorre avere una torcia o dei fiammiferi. Vi abitano molti palestinesi, libanesi e immigrati da altri paesi arabi che vi si sono istallati alla ricerca di un tetto. Il pozzo che usavano per prendere l'acqua è stato recentemente distrutto e così sono persino costretti a comprare l'acqua potabile. Fili elettrici, fissati alla meglio, pendono pericolosamente dalle pareti e dai soffitti. Le condizioni nelle quali sono costretti a vivere sono indegne per qualsiasi essere umano.

Sono salita fino all'ottavo piano e affacciata al parapetto ho visto di nuovo sotto di me l'intero campo: le strade, le stradine, i vicoli strettissimi e a qualche centinaio di metri, in posizione dominante (il campo sorge in una sorta di avvallamento ndr) l'edificio dove nel 1982 l'esercito israeliano aveva istallato il suo comando avanzato. L'ultima volta che mi ero affacciata a quel parapetto dall'ultimo piano dell'ospedale era una notte di settembre di vent'anni fa. Una notte illuminata a giorno dai bengala lanciati dall'esercito israeliano che esplodevano sul campo. Guardando di nuovo da quella stessa posizione, due decenni dopo, con i miei stessi occhi, mi è stato chiaro che gli ufficiali e i soldati israeliani, con i loro potenti canocchiali, erano perfettamente a conoscenza di quel che stava avvenendo nei campi.

Scesa in strada, ho proseguito lungo la via principale di Sabra, oggi assai più affollata del 1982, e da lì mi hanno portato a visitare i rifugi dove molti abitanti tentarono di nascondersi in quei giorni terribili. Ho rivisto i muri delle esecuzioni di massa con ancora i fori dei proiettili. Il complesso dei vicoli, dei cortili, delle stradine è talmente intricato da rendere assai complesso un massacro sistematico come quello del 1982. Non si trattò certo di un evento casuale ma di un'operazione attentamente pianificata per portare avanti la quale fu necessario uno stretto coordinamento.

La fossa comune, alla fine della strada principale, è stata pulita e risistemata per le commemorazioni e un muro di mattoni sorge sul luogo dove un plotone di esecuzione allineò i lavoratori dell'ospedale. Sono passata poi davanti all'ambasciata del Kuwait e dopo aver attraversato una vasta rotatoria sono arrivata a quello che allora era un abbandonato edificio delle Nazioni unite dove ci interrogarono. Lì vicino, in posizione dominante sul campo sottostante, c'è ancora l'edificio usato dagli israeliani come Comando avanzato.

Nel corso della mia visita ho incontrato molti di voi, i sopravvissuti e le famiglie delle vittime. Ho partecipato alle commemorazioni sul luogo della fossa comune. Ho portato delle rose e le abbiamo piantate insieme. Dentro di me ho recitato il Kaddish, la preghiera ebraica per i morti. Pochi giorni dopo, privatamente, senza cerimonie, sono andata di nuovo a visitare la fossa comune e lì ho visto la spesso muta disperazione e straziante tristezza per le persone amate che vi sono state sottratte. Poi mi ha assalito la triste consapevolezza che un'altra generazione di palestinesi sta crescendo nella disperazione dei campi. Le donne palestinesi di Sabra e Chatila sono straordinarie. Senza alcuna colpa avete passato la gran parte della vostra vita adulta da uno squallido campo profughi all'altro mentre una volta vivevate in ridenti villaggi nella Palestina settentrionale. Lavoravate nei campi, raccoglievate i foraggi, allevavate delle greggi. Eravate autosufficienti. Eppure per tutta questa tragedia costituita dal diventare profughi siete rimaste forti e piene di orgoglio. Non avete mai perso la vostra dignità. Nei vostri confronti non si può che avere il massimo rispetto. Il popolo palestinese ha una incredibile pazienza. Voi state ancora aspettando di tornare nella vostra patria, state ancora aspettando di avere giustizia.

Ogni tanto c'è un fugace raggio di speranza, come quando il Belgio approvò la legge sui crimini di guerra. Per un attimo avete pensato che Ariel Sharon, Amos Yaron e gli altri responsabili per quel massacro sarebbero stati processati come criminali di guerra. Alcuni di voi sono andati in Belgio, molti di voi hanno testimoniato in modo dettagliato su quei giorni oscuri di vent'anni fa. Avete tirato fuori le grandi fotografie ingiallite dei vostri cari scomparsi - le vostre comuni memorie. Per un po' è sembrato che ci sarebbe stato un processo. Al fine i sopravvissuti avrebbero avuto la possibilità di raccontare le loro storie davanti ad un tribunale ufficiale. Sembra però che ciò per il momento non avverrà. A causa delle enormi pressioni sul governo belga di Israele e degli Stati uniti sembra che ancora una volta non sarà resa giustizia nonostante sia chiaro che questo massacro non sarebbe potuto avvenire senza la partecipazione attiva dell'esercito israeliano sotto il comando di Ariel Sharon, Amos Yaron e altri. L'esercito israeliano impedì ai terrorizzati abitanti dei campi di fuggire e di mettersi in salvo, lanciò i bengala in modo che i falangisti potessero individuare le loro vittime, fornì i bulldozer per aiutare a coprire il massacro mentre i suoi comandi erano in costante contatto con gli assassini e ben sapevano quel che stava avvenendo. La Commissione d'inchiesta israeliana decise che Sharon aveva una responsabilità indiretta - una conclusione contestata da molti al di fuori dell'establishment israeliano. I falangisti portarono avanti materialmente il massacro di uomini, donne e bambini e anche di loro si dovrà tener conto nella nostra ricerca di giustizia.

Di sicuro i palestinesi sopravvissuti non potranno mai avere un processo equo in Israele. Basta pensare che il governo israeliano ha respinto ogni responsabilità anche in un caso come quello della morte di Rachel Corrie. Sembra che il guidatore del bulldozer non avesse visto la ragazza che stava davanti al mezzo agitando le mani. Se Rachel Corrie, cittadina americana non ha potuto avere giustizia in Israele figuriamoci gli abitanti palestinesi di Sabra e Chatila.

In ogni caso, i vostri amici d'ogni parte del mondo cercheranno ora di aiutarvi il più possibile e in questo ventunesimo anniversario saranno ancora al vostro fianco. Scriveremo lettere, faremo telefonate, scriveremo articoli, manderemo e-mail, organizzeremo dibattiti, invieremo interventi. Mentre voi ancora aspettate giustizia sappiate che la vostra causa non è stata abbandonata e non lo sarà mai. Gli anziani che incontrai nel mio primo viaggio se ne sono andati da lungo tempo, sepolti in terra libanese. I loro figli e i loro nipoti sono ancora nei campi. Non è cambiato molto in questi trent'anni: le fogne a cielo aperto sono sempre lì, così come le baracche di una sola stanza. Dell'acqua corrente non c'è ancora traccia. E i palestinesi aspettano ancora di tornare alla loro terra. Non so quante generazioni ancora dovrete attendere per avere giustizia ma so che non dovete disperare. Da parte nostra continueremo a lottare con voi finché giustizia non sarà stata fatta.

Ellen Siegel
Washington D.C.

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