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L’errore è giudiziario ma solo per fiction

(12 Giugno 2014)

Letteratura e pena. Se il processo non è giusto perché il magistrato sbaglia o la polizia non fa il suo dovere, è la letteratura a correre in soccorso della verità. Come in "Morte di un anarchico" di Dario Fo o in "Cronachette" di Leonardo Sciascia

cronachette

L’errore giu­di­zia­rio può essere visto – al pari di ogni infor­tu­nio sul lavoro — come ine­vi­ta­bile fata­lità, come cala­mità natu­rale. L’errore può nascere non solo da un fare (un ingiu­sto, un super­fi­ciale, un pre­or­di­nato accer­ta­mento di respon­sa­bi­lità o di inno­cenza ), ma anche da un non fare: i magi­strati sanno chi è il col­pe­vole, ma sanno che è oppor­tuno sopras­se­dere nella for­mu­la­zione dell’accusa, sanno che è pre­fe­ri­bile can­cel­lare le prove, indi­riz­zare il pro­cesso su figure col­la­te­rali, insab­biare le inda­gini, fre­nare chi le con­duce.
E’ sto­ri­ca­mente pro­vato che le con­se­guenze dolo­rose, sca­tu­rite dalle sen­tenze del giu­dice errante pos­sono essere deva­stanti e irre­pa­ra­bili, non solo in pre­senza di tor­tura o di pena capi­tale, ma anche quando la pena inflitta a dispetto della verità non con­senta il ripri­stino dello sta­tus quo ante. L’irreparabile avviene quando le san­zioni hanno fisi­ca­mente e social­mente can­cel­lato la vit­tima o anche quando l’identità del reduce dal pro­cesso e dal car­cere risulti can­cel­lata o rico­struita dalle carte giu­di­zia­rie e dalla carta stam­pata : in quest’ultimo caso deve con­vi­vere con il sovra­stante per­so­nag­gio a lui estra­neo, costruito – in buona o in mala fede – nel labo­ra­to­rio gestito dalla poli­zia , dai magi­strati dell’accusa e dai mass media ausi­liari. Il soprav­vis­suto al pro­cesso resta così con­dan­nato a vivere con l’alter ego sovrap­po­sto cal­zato sulla sua per­sona , sul suo modo di essere e di pen­sare.
La vit­tima può sco­prire che sotto la toga niente verità o niente impe­gno diretto ad evi­tare che l’errore tra­sformi il romanzo poli­zie­sco in dramma pirandelliano,in cui si è svi­lup­pata una trama fatta di pul­sioni, ambi­zioni, modi di sen­tire della cul­tura dei poteri forti.
Nel feno­meno delle sen­tenze ingan­ne­voli con colpevoli/assolti e innocenti/condannati, pro­nun­ciate dai giu­dici mal­de­stri o ingan­nati dalle appa­renze o con­di­zio­nati dalle sug­ge­stioni esterne all’aula di giu­sti­zia o gui­dati da impulsi di ven­detta sociale, è inter­ve­nuta la let­te­ra­tura. Così, in un ampio arco di romanzi, novelle,commedie, tra­ge­die, incon­triamo denunce, testi­mo­nianze, sen­tenze di con­danna e di asso­lu­zione su fatti e misfatti , real­mente avve­nuti o gem­mati dalla fan­ta­sia.
Gli autori hanno esa­mi­nato e hanno cri­ti­cato anche le opere crea­tive di chi nell’indagare e nel giu­di­care ha fatto il salto dalla ricerca dell’accaduto all’intuizione del pos­si­bile, dal libero con­vin­ci­mento all’opportuno con­vin­ci­mento, dalla razio­na­lità alla super­sti­zione, dalla ragion pura alla ragion di Stato. E’ il magi­strato che agi­sce da arti­sta, per­ché il suo dire e il suo fare sono libe­rati dal reale, la fan­ta­sia ha preso il comando dell’agire pro­ces­suale, ha fatto librare le per­sone vere dai fogli del pro­cesso e ne ha fatto entrare altre, che, in nome e per conto delle prime, subi­scono la trama e il suo esito. Alla pro­nun­cia della sen­tenza irre­vo­ca­bile escono dal fasci­colo pro­ces­suale liberi o reclusi, a pre­scin­dere comun­que da quanto acca­duto e da quanto com­messo.
In alcuni pro­cessi ci sono fatti che acca­dono per farsi nar­rare dalla let­te­ra­tura, per­ché nascono dalla fan­ta­sia, dalle voci di den­tro dell’inquirente e del giu­dice, fun­zio­nali a col­mare per il prin­ci­pio dei vasi comu­ni­canti, il vuoto di una verità che non è rag­giun­gi­bile o non è desi­de­rata. La fan­ta­sia del let­te­rato, in caso di già avve­nuta defi­ni­zione di respon­sa­bi­lità o di inno­cenza, si è mostrata tal­volta più vero­si­mile della verità archi­viata nella memo­ria uffi­ciale dello Stato. Rispetto alla verità uffi­ciale espressa dagli atti del pro­cesso, nella memo­ria popo­lare è entrata una verità diversa, in cui la rico­stru­zione let­te­ra­ria può acqui­stare più coin­vol­gente capa­cità di con­vin­ci­mento. Il balzo di Giu­seppe Pinelli, su spinta del malore attivo, è una verità che non ha tro­vato asilo nella ragione e nella cre­du­lità dell’uomo comune, spe­cial­mente di chi ha letto “Morte acci­den­tale di un anar­chico”, di Dario Fo. Gra­zie al testo dell’opera, il let­tore si eman­cipa da una verità uffi­ciale che può sem­brare aver ogget­ti­va­mente chie­sto asilo poli­tico alla fan­ta­sia. Se è stato detto che Faul­k­ner aveva rea­liz­zato l’intrusione della tra­ge­dia greca nel romanzo poli­zie­sco, si potrebbe dire che Fo ha intro­dotto la tra­ge­dia greca nel romanzo poli­zie­sco.
La let­te­ra­tura inve­ste cri­ti­ca­mente non solo pro­cessi e sen­tenze pla­teal­mente erro­nei , ma anche un metodo di pon­de­ra­zione della pena a coper­tura del non fare.
Leo­nardo Scia­scia (in “Cro­na­chette”, Adel­phi) indi­rizza la nostra atten­zione sulla con­danna mite che diventa con­danna sospetta. Nell’affresco di un grosso errore giu­di­zia­rio del non fare (le omesse inda­gini sulla morte di Rosetta, una pro­sti­tuta incappata,nell’agosto del 1913, in un letale scon­tro con la poli­zia) , si mostra per­plesso sull’esito di un pro­cesso a carico del con­vi­vente della donna, che era stato con­dan­nato a «una così mite pena per un furto tanto cla­mo­roso, da farci sospet­tare che nem­meno la sua reità era stata appieno pro­vata… Ma una spie­ga­zione la tro­viamo nei reso­conti , sia pure som­mari , del pro­cesso ed è la solita spie­ga­zione di quelle miti sen­tenze che arri­vano quasi ad assol­vere gli impu­tati pur di non impu­tare i poli­ziotti che ven­di­ca­ti­va­mente li hanno con­se­gnati alla giu­sti­zia . Nel pro­cesso in que­stione, ad accusa della Rosetta e a con­vin­zione dei giu­dici, una istrut­to­ria si sarebbe dovuta aprire sul com­por­ta­mento della poli­zia».
Pro­blemi anti­chi della cala­mità natu­rale dell’errore giu­di­zia­rio, su cui occorre tornare.

Antonio Bevere

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