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8 marzo: Giornata Internazionale della Donna

Non una festa, ma una giornata di lotta

(8 Marzo 2004)

Noi ripetiamo spesso che per le donne l’8 marzo non dovrebbe essere solo una giornata di festa, ma anche e soprattutto una giornata di memoria e di lotta. Pensiamo che sia negativo che questa giornata si risolva in un qualcosa di puramente celebrativo e riteniamo che non dovrebbe neppure esistere un giorno dedicato alle donne, così come un giorno dedicato ai lavoratori o un giorno dedicato alla Resistenza.
Ma se così è anche perché viviamo in una società che “non ricorda” ogni giorno i diritti delle donne e dei lavoratori o l’insegnamento della Resistenza antifascista; viviamo in una società che ogni giorno impedisce l’affermazione di quei diritti e di quei valori.
Malgrado questo riteniamo importante valorizzare questa giornata per trasformare la memoria in lotta e partecipazione politica attiva.
Cogliamo dunque l’occasione per riflettere sul ruolo della donna nella società in cui viviamo.
In generale, la posizione sociale della donna - così come quella dell’uomo - è, in definitiva, il prodotto delle relazioni sociali che si sono sviluppate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche della società.
Conseguentemente anche il ruolo della donna è un prodotto sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo con la trasformazione della società nel suo complesso.
Quando si tenta, perciò, di analizzare la posizione e il ruolo della donna nella società non si può fare a meno di partire dall’analisi del tipo di società in cui viviamo, dunque una società capitalista, che si fonda essenzialmente su una divisione di classe e sullo sfruttamento di una classe su un’altra classe.
Non possiamo, dunque, non tenere conto che esiste una classe, fatta di uomini e di donne, che viene sfruttata e un’altra classe, anch’essa composta da uomini e donne, che sfrutta, domina e accumula profitto.
Questo è per noi un elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra contraddizione fondamentale che è quella tra lavoratori salariati e capitalisti.

E’ indubbio che la liberazione della donna deve essere opera della donna stessa la quale deve arricchire la propria lotta per l’emancipazione sociale con, appunto, la propria specificità di donna.
In questa lotta le donne hanno bisogno dell’unità con le donne (e gli uomini) della propria classe per lottare contro una società in cui esse sono vittime dello sfruttamento di uomini, ma anche di donne.
Le donne delle classi al potere, se e quando lottano, lo fanno - al limite - per chiedere riforme interne al sistema gerarchico caratteristico della democrazia borghese, non ponendosi mai nell’ottica della liberazione della donna in quanto donna e tendendo a emulare i “normali” comportamenti di potere. Per le donne delle masse popolari l’obbiettivo deve essere quello dell’abbattimento della società in cui esse vivono la loro duplice oppressione di donne e di proletarie.

Riflettiamo per un attimo sulla situazione della donna rispetto al mondo del lavoro.
Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore gli effetti della attuale fase di crisi economica del sistema capitalistico.
Gli attacchi durissimi portati alle conquiste sociali ed economiche del mondo del lavoro hanno avuto conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle donne.
Il generale processo di ristrutturazione e di precarizzazione del mercato del lavoro, portato avanti anche dai governi di centro-“sinistra” attraverso la concertazione e che oggi è stato rafforzato dal governo Berlusconi attraverso l’approvazione delle misure contenute nella cosiddetta “legge Biagi”, ha prodotto l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà del lavoro, portando con sé lo smantellamento di una serie di diritti che i lavoratori e le lavoratrici hanno conquistato nelle lotte dei decenni precedenti.
Le donne sono i soggetti preferiti del supersfruttamento attraverso contratti di lavoro atipici come il lavoro interinale o lo stesso part-time che molte sono portate a richiedere non allo scopo di liberare tempo per se stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia.
Quindi: doppio sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano in casa.

Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica porta con sé l’aumento della violenza sulle donne. Pensiamo alle molestie sessuali sui posti di lavoro (contro le quali, fra l’altro, non esiste in Italia una legge specifica, dato che il nostro Codice Penale punisce soltanto le violenze sessuali o i comportamenti ad esse riconducibili): quanto più il mercato del lavoro è chiuso alle donne, tanto più drammatica diventa la “scelta” di lasciare il posto di lavoro o di denunciare i datori di lavoro o i superiori violenti o molesti.
E i mass media hanno un ruolo determinante nello sviluppare la cultura dell’accettazione della violenza e degli abusi sessuali contro le donne.

Nel mercato del lavoro spesso alle donne si chiede di far corrispondere la propria immagine a quella dettata dal modello culturale dominante (naturalmente per essere funzionale alla realizzazione del profitto: più la venditrice è carina e meglio si vende la merce).

Il capitalismo cerca di suggerire una “naturalità” del ruolo sociale della donna.
Certo, solo le donne possono essere madri, ma non è affatto “naturale” che la donna debba occuparsi - spesso da sola - del lavoro domestico, dell’educazione dei figli o dell’assistenza agli anziani.
Questa idea è profondamente radicata nella società patriarcale e porta a non considerare tutto questo lavoro, svolto gratuitamente dalla donna, come un vero e proprio lavoro.
Questo tipo di ideologia tende a rafforzarsi in fasi storiche, come questa, caratterizzate da una profonda crisi economica in cui migliaia di lavoratori vengono espulsi dal ciclo produttivo in conseguenza di licenziamenti e chiusure di fabbriche.
E le donne sono i primi soggetti che vengono espulsi dalla produzione, dopo essere stati impiegati principalmente in lavori precari e con salari inferiori che alimentano la dipendenza dall’uomo e dallo Stato.

Ecco che allora l’ideologia dominante tenta di giustificare questo processo (“semplicemente” necessario per aumentare il saggio di profitto) con la “centralità” della famiglia nell’organizzazione sociale e con il “meraviglioso” ruolo che in essa ha la donna, “padrona della casa”; ecco che tornano a risuonare i moniti della Chiesa contro ogni elemento che possa metterne in discussione l’autorità “morale”, si insinua progressivamente l’idea di rivedere di tornare a dettare i costumi e ad imporre i canoni di comportamento…
Se per il momento non riesce ad abolire la legge sul divorzio si cerca di impedire la possibilità del matrimonio per le coppie che non si considerano “normali”.
Se per il momento non si riesce ad abolire la legge sull’aborto si cerca di generalizzare l’obiezione di coscienza e di imporre alle donne di riconoscere la propria “missione” e la propria stessa essenza nel compito di creare la vita.

E’ in questo senso che va la recente legge approvata dal Parlamento in materia di fecondazione assistita che si colloca nel quadro di altri attacchi contro i diritti e l’autodeterminazione delle donne e che ha avuto l’appoggio, oltre che della maggioranza di Governo, anche di partiti del centro-“sinistra” come la Margherita.
Questa legge si articola sotto forma di una serie di divieti come il no alla fecondazione eterologa, ossia il divieto di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita utilizzando un seme estraneo alla coppia, penalizzando dunque pesantemente la coppia in cui uno dei partner sia sterile o portatore di malattia certamente trasmissibile.
Dall’altro lato la legge, essendo riservata solo alle coppie sposate o conviventi da anni in età potenzialmente fertile, nega l’accesso ai single o ai gay, ristabilendo così la priorità della famiglia patriarcale e dei legami di sangue.
Si tratta di una legge che, rispondendo ai dettami della Chiesa cattolica e di questo sistema economico, politico e sociale, torna ad imporre un modello unico, “normale” e “sacrale” di famiglia, ignorando la specificità della relazione di maternità e la pluralità dei modelli genitoriali e familiari.

Ma soprattutto evidente è l’uso che di tale legge si intende fare.
Partiti di centro-destra e di centro-“sinistra”, appoggiati dalla Chiesa che da oltre 25 anni persegue con estremo accanimento questo obiettivo, vogliono utilizzare questa legge come primo passo verso la revisione della legge 194 sull’aborto, conquistata dalle donne con lotte durissime.
L’art. 1 della legge sulla procreazione assistita riconosce capacità giuridica all’embrione, ossia la capacità di essere titolari di diritti e dignità umana, modificando in tal senso l’art. 1 del Codice Civile che attualmente prevede il riconoscimento giuridico al momento della nascita.
In questo modo non solo si stravolge il senso e la realtà della inscindibile relazione tra madre e concepito, prefigurando la possibile contrapposizione tra i diritti dell’una e i supposti diritti dell’altro, ma si minano le fondamenta proprio della legge sull’aborto, rendendo potenzialmente punibili le donne che decidessero di interrompere la gravidanza.
Molti altri sono i nodi politici e culturali contenuti in questa legge vergognosa che cancella diritti fondamentali come quello alla revoca del consenso da parte della donna dopo la fecondazione dell’ovulo, con conseguente impianto dell’embrione, anche se malato.
E non va dimenticata la natura fortemente discriminatoria di questa legge dal punto di vista sociale, dal momento che il ricorso alla fecondazione assistita è escluso dalle prestazioni previste dal Servizio Sanitario Nazionale. Un intervento il cui costo oscilla tra i 3.000 e i 10.000 euro non potrà essere facilmente accessibile alle donne più povere.
Di nuovo, come ai tempi in cui le donne della borghesia si recavano all’estero per abortire mentre le donne proletarie ricorrevano ad interventi di persone incapaci rischiando la vita (e spesso addirittura perdendola), le donne non sono tutte uguali di fronte ai diritti e neppure di fronte alla negazione dei diritti.

Anche da questo punto di vista ribadiamo che le donne, nella loro lotta di liberazione complessiva dal capitalismo e dalle strutture patriarcali, non possono che ricercare una unità di classe.
Il fatto che l’approvazione della legge sulla procreazione assistita abbia visto il formarsi di un fronte di opposizione che va dalla diessina Livia Turco alla fascista Alessandra Mussolini in nessun modo può indebolire il concetto di unità di classe. Anche perché, se non si trattasse di una mera unità contingente ed irrilevante sul piano sostanziale (in larga parte dal tentativo di accreditare una sorta di improbabile trasversalità sul tema), non riusciremmo a capire come la “signora” Turco possa conciliare questa sua lotta “in quanto donna” con la legge sull’immigrazione che porta il suo nome (e su cui sarebbe interessante chiedere il parere alle tante donne immigrate nel nostro paese) e, dall’altro, come la “signora” Mussolini possa battersi contro questa legge e contemporaneamente presentarsi alla elezioni europee con una coalizione di cui fanno parte, tra gli altri, i fascisti anti-abortisti di Forza Nuova che il 4 febbraio scorso hanno fatto irruzione in una clinica di Bari esibendo foto di feti e gridando slogan contro l’aborto, minacciando le donne che dovevano abortire.
E’ questo l’esempio di unità e di trasversalità delle lotte cui dovremmo abboccare ? No, grazie.

L’unità delle donne è una unità di classe, una unità di uomini e donne che lottano per l’abbattimento di un sistema che opprime uomini e donne, seppure in misura diversa.

Questa società non riconosce una vera libertà di scelta sul come vivere la propria sessualità (quando ciò avviene in modo non conforme alla “norma” culturale dominante, borghese e cattolica), spinge per diverse ragioni molte donne alla prostituzione come mezzo di sopravvivenza, e propone di schedare le prostitute con la stessa ottica con cui pretende di prendere le impronte digitali agli immigrati.

Del resto, anche l’immigrazione - specie se clandestina - è perfettamente funzionale agli interessi capitalistici perché in questo modo aumenta la competitività tra i lavoratori e si crea un grande “esercito di riserva”, nazionale ed internazionale, da poter usare a proprio piacimento per esercitare sia il ricatto salariale, sia quello rispetto alle condizioni di lavoro (sicurezza, nocività…) dei lavoratori indigeni.
E proprio le donne immigrate costituiscono i soggetti maggiormente impiegati nei cosiddetti “servizi alla persona”, come l’assistenza agli anziani, agli ammalati e agli handicappati, in genere nel settore privato o “in nero”, coprendo così i vuoti dello Stato nell’assistenza sociale e sanitaria.
Ogni giorno uomini e donne, con i loro neonati in braccio, si imbarcano su “carrette della speranza” per raggiungere paesi che appaiono come l’unica “salvezza” rispetto alle proprie terre martoriate dalla fame, dalle guerre e dalle carestie.
Molti di questi uomini e donne muoiono durante le traversate; altri vengono rispediti indietro; altri vengono “accettati”, ma per quel tanto che serve a concorrere al “nostro” profitto e al “nostro” benessere.

Anche questo è il prodotto della crisi economica del sistema capitalistico che sempre più frequentemente ricorre - come sempre ha fatto nella storia - alla guerra imperialista, cioè alla guerra per ragioni economiche e politiche.
Tra pochi giorni sarà trascorso un anno dall’inizio della guerra scatenata contro il popolo iracheno e che ha costituito un altro tassello nella strategia imperialista di rafforzamento e di egemonia militare in Medio Oriente.
Dietro la “guerra mondiale al terrorismo”, lanciata dopo l’11 settembre 2001, si nasconde soltanto il tentativo di giustificare la teoria degli interventi preventivi necessari ai capitalisti per conquistare potere e mercati delle materie prime, delle merci e delle persone nell’ottica di recuperare margini il più elevati possibile di profitto a discapito della sopravvivenza stessa di interi popoli.
L’imperialismo USA ha sferrato l’ennesimo attacco contro il già martoriato popolo iracheno, stremato da lunghi anni di un embargo voluto dall’ONU che ha prodotto più di un milione e mezzo di morti, tantissimi dei quali bambini. A questi morti si sono aggiunti i morti di questa ennesima guerra.

Proprio in queste settimane il Parlamento italiano vota il ri-finanziamento della missione militare italiana in Iraq e in altri paesi. Al voto della maggioranza di governo si è sommata, attraverso l’astensione al Senato, la piena legittimazione politica da parte della maggior parte dell’opposizione. I partiti che hanno votato contro questo ri-finanziamento (“sinistra” DS, PRC, PdCI, Verdi) sono stati tutti, eccezion fatta per il PRC, corresponsabili dell’aggressione militare scatenata nel 1999 contro la Jugoslavia anche dal governo italiano, di cui essi facevano parte.
E lo stesso PRC si appresta a stringere definitivamente un patto di governo con tutti questi partiti per riportare alla presidenza del consiglio Romano Prodi.
Tutto questo per mostrare come nelle stanze del potere istituzionale non abbiamo amici e che per sostenere concretamente la resistenza dei popoli contro l’imperialismo dobbiamo condurre la lotta prima di tutto contro il capitalismo e l’imperialismo di “casa nostra”.

In questa lotta le donne hanno un motivo in più per combattere.
Non è possibile parlare di liberazione della donna all’interno di una società capitalista; solo nell’ambito di una liberazione complessiva di tutti gli oppressi, uomini e donne, sarà possibile raggiungere una effettiva liberazione della donna.

Un processo è rivoluzionario non solo perché cambia la situazione dal punto di vista degli equilibri di potere tra le classi, ma anche perché offre un impulso fortissimo alla trasformazione della cultura e della coscienza.
Dopo la Rivoluzione di Ottobre, avvenuta nel 1917, le donne hanno ottenuto in Russia conquiste che le donne del resto del mondo hanno ottenuto in anni di lotte, alcune di queste relativamente recenti.
Solo per fare due esempi: la prima donna al mondo eletta ministro è stata Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione russa; in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947; in Russia le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo attendere gli anni ’70-’80.

In questa lotta per la liberazione, che è anche lotta per l’abbattimento di una società fondata sullo sfruttamento di uomini e donne, ci sentiamo uniti con i popoli che lottano per la propria liberazione, con i prigionieri politici che resistono nelle carceri imperialiste di tutto il mondo e, infine, con tutti coloro che vengono chiamati terroristi e che invece sono uomini e donne che lottano per “un altro mondo possibile” sì, ma come dicono le Madres de Plaza de Mayo, con la rivoluzione e il socialismo.

Viareggio, 8 marzo 2004

Le compagne e i compagni del Laboratorio Marxista

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