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(17 Aprile 2010) Enzo Apicella
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Mali e Costa d’Avorio- Campo di battaglia economica e militare fra gli imperialismi

(20 Marzo 2013)

Le truppe della coalizione internazionale entrarono a Pechino il 14 agosto del 1900; foto degli sguarniti battaglioni, messi a dura prova dai Boxer nei mesi precedenti, furono pubblicate sui quotidiani inglesi come prova dell’entusiasta accoglienza della popolazione. La realtà era ben diversa, focolai di guerriglia resistevano in tutta la città ed il popolo se ne stava ben lontano dalla Città Proibita, sede allora del governo cinese. Alcuni poveracci, pagati con nulla, facevano da comparse ai generali e colonnelli di Inghilterra e Germania.

La misera, ipocrita e falsa borghesia imperialista di quel tempo la ritroviamo oggi in terra d’Africa. Il “socialista Holland” visita Timbuctu e riceve una calorosa accoglienza dalla popolazione, scrivono i pennivendoli della patria francese. Ma i fotografi non hanno di meglio da spedire che poche immagini del presidente all’aeroporto della capitale maliana attorniato da generali del corrotto governo locale con sullo sfondo due bandiere tricolore rette da uno sparuto gruppetto di pelle nera.

L’attuale crisi economica generale del capitalismo è il potente innesco e acceleratore dello scoppio di tutte le questioni e i nodi insoluti che la spartizione imperialista del globo ha generato sia all’interno dei paesi sottomessi sia come rapporto di forza tra le potenze che cercano costantemente di approfittare dell’altrui difficoltà.

Per riassumere la storia del piano di spartizione delle risorse e delle terre africane fra le maggiori potenze europee, all’inizio Inghilterra e Francia, secondo le loro voraci necessità, dobbiamo risalire al 1884/85 quando il cancelliere tedesco Bismarck organizzò la Conferenza di Berlino per il Congo. Lo scopo era evitare scontri militari diretti tra le potenze europee, facendo disegnare i confini delle colonie africane a tavolino, nelle capitali europee, con l’ausilio delle varie “Società Geografiche”. Si stabilì che un territorio africano per essere riconosciuto come colonia doveva essere stabilmente occupato militarmente, e civilmente con imprese e coloni europei. A questa spartizione e mercanteggio dell’Africa parteciparono tutti i più importanti Stati e per ultima si accodò anche l’Italia, occupando l’Eritrea, parte della Somalia, poi la Libia nel 1912, approfittando della crisi dell’Impero Ottomano e della rivolta dei Giovani Turchi guidati da Kemal Ataturk.

Successivi accordi, bi- o trilaterali, risolvevano questioni limitate o l’attribuzione delle colonie delle potenze minori le quali, sovente, non erano in grado di controllarle: oltre allo sfruttamento delle risorse e della forza lavoro africana gli Stati imperialisti ne dovevano garantire la sottomissione.

Le due guerre mondiali hanno passato le colonie africane dalle potenze perdenti alle vincitrici, e fino all’epoca delle rivoluzioni anticoloniali degli anni '60 e '70 quando il controllo militare delle colonie fu sostituito da quello economico e finanziario, cambiando tutto per non cambiare niente.


L’Africa francofona

Oggi l’imperialismo francese, che continua a scrivere sulle sue bandiere “liberté, egalité, fraternité”, si è sentito in dovere di rispondere prontamente alla richiesta del debole “potere legale” del Mali, parte del suo grande ex domino coloniale africano, minacciato e in parte occupato da “terroristi islamici”. Aiuto evidentemente non disinteressato, appoggiato dalla banda di imperialisti che è il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e marginalmente anche dall’Italia.

La storia dell’ormai vecchio imperialismo francese è lunga in terra d’Africa, soprattutto in tutta la fascia che, a sud del Sahara, inizia in occidente dal Senegal fino all’interno nel Ciad. Nell’ultimo decennio tutti i paesi definiti come Africa francofona, la Franciafrica, hanno subìto la penetrazione economica della Cina, che ha approfittato del relativo ritiro del capitale francese, che ha preferito andare ad investirsi in aree a più alto margine di profitto, come l’Asia. La concorrenza cinese si è fatta sempre più pressante con investimenti di ingenti capitali, esportazione di merci a bassissimo costo e di squadre specializzate a comandare i cantieri delle ditte cinesi. Strade e ponti, ferrovie ed infrastrutture varie hanno aperto la strada del “neo” imperialismo cinese in quelle terre che per secoli sono state esclusivo appannaggio delle potenze occidentali ed in molti casi in modo esclusivo della Francia.

È inevitabile per il capitale finanziario tendere ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale. La crisi mondiale che dal 2008 tartassa gli imperialismi occidentali non ha risparmiato i suoi colpi sulla neonata cinese, alla ribalta della “mondializzazione”, ma è l’unica che ancora può parlare di garanzie di finanziamento. La Cina “comunista”, entrata a far parte a pieno titolo dei predoni imperialisti, per la sua penetrazione si ammanta dello stile “cooperativo” e cerca di dissimulare la sua vampiresca aggressività con accordi e trattati economici che comprendono iniziali regalie e fanno prospettare ai poteri locali maggiore indipendenza di quella offerta dai vecchi titolari degli imperi.


Brame imperiali sul Mali

Le artificiali frontiere del post-colonialismo hanno ritagliato per il Mali, uno dei paesi più poveri al mondo, uno strano territorio a forma di clessidra, con un Nord desertico e popolato prevalentemente da popolazioni nomadi di varie etnie ed un Sud più fertile, bagnato dal grande fiume Niger.

Con il governo del Mali la Cina ha firmato, questo accadeva nel primo semestre del 2012, tre diversi accordi per circa 740 miliardi di yuan (circa 65 miliardi di euro). Il primo accordo sono circa 70 miliardi di yuan “in regalo”; il secondo 5 miliardi in prestito “per migliorare le condizioni della popolazione”, il governo locale dovrà individuare come e quando. Il terzo accordo prevede un finanziamento per circa 620 miliardi di yuan, il grosso dell’operazione, che permetteranno alla Cina di partecipare, insieme ad altri partner (leggi Francia, ecc.) alla costruzione del bacino idroelettrico di Taoussa, sul Niger, vicino a Gao, nella parte settentrionale del paese.

Intanto il governo maliano già dal 2009 aveva dato in concessione per 50 anni la zona chiamata Office du Mali in grandi appezzamenti “free of charge”, e a costi stracciati per l’acqua del Niger ed esproprio per tutti quei contadini che lì lavorano e campano (ci sono state rivolte con arresti di uomini e donne). Tutti i predoni delle nazioni imperialiste si sono appropriati dello sfruttamento intensivo di più di 500.000 ettari di fertili terre in concessione gratuita. In primis la Cina, con la partecipazione diretta di una sua multinazionale governativa, prendendo in affitto anche terre in concessione ad una società libica ed accaparrandosi così più di un quarto delle terre. Poche zolle son rimaste per le società maliane e i vicini poveri come il Burkina.

Anche Francia, Canada, Usa, Inghilterra, Paesi Arabi, Sud Africa partecipano all’affare. La zona produce attualmente più della metà del fabbisogno nazionale e con la modernizzazione dell’agricoltura, come diceva il presidente Traoré, potremo sfamare tutti. L’inganno democratico dello sviluppo progressivo dell’economia non risparmia nessuno, se non le masse affamate nel loro gesto di ribellione ad una politica di promesse non mantenute e ad una realtà sempre più brutale.

Il progetto dell’Office du Mali è una tragedia per la regione da tutti i punti di vista, idrogeologico, economico, sociale. Produzione di bio-gas, ricerca del petrolio, colture di riso intensive ad alta produttività, il tutto destinato all’esportazione.

Ma, nonostante il drastico ridimensionamento della presenza imperiale francese in Africa negli ultimi venti anni, la Francia mantiene ancora nelle sue ex colonie alcune importanti basi militari a protezione dei suoi ancora grandi interessi finanziari nei vari settori del turismo, della produzione agricola e della manifattura, ma soprattutto nel campo della “cooperazione militare”, cioè vendita di armamenti e formazione degli eserciti.

Più importanti in assoluto sono le miniere di uranio ad Airlit in Niger, non molto distanti dal confine col Mali, dal quale si temeva uno sconfinamento dei “terroristi”, con la perdita del controllo di quella fonte necessaria alla potenza nucleare francese. Il nuovo colosso multinazionale Areva, fondato nel 2001 con 61 mila dipendenti e controllato al 90% da capitali francesi, ha ereditato da precedenti società francesi la concessione, vecchia di oltre 40 anni, di quelle ricche miniere a cielo aperto, con bassi costi di estrazione. La rendita pagata al Niger è proporzionata ai vecchi rapporti di sfruttamento coloniale: a fronte di un fatturato nel 2006 di 10,86 miliardi di euro, la Areva paga di rendita annua solo 100 milioni. La crisi del Mali ha quindi dato l’occasione al presidente nigerino M. Issoufou di ridiscutere con la Francia gli accordi minerari.


L’intervento francese

L’imperialismo francese, che vorrebbe considerare ancora l’Africa “già-francofona” il “cortile di casa”, ha attuato con l’Operazione Serval nel Mali un intervento preventivo, che doveva essere immediato e risolutivo, come in prima battuta sembrava essere. Ora i maliani possono continuare a crepare di fame protetti dalle armi francesi, ma dove sono finiti i “terroristi”, quanti sono e in quali organizzazioni sono inquadrati? In realtà, con il “trionfale” arrivo a Timbuctu lo scorso 2 febbraio del presidente Hollande per confermare e celebrare la vittoria sui “ribelli e i terroristi”, sconfitti e ricacciati oltre i confini del deserto a nord, è terminata solo la prima fase di questo ennesimo fronte di guerre locali che divampano con maggior frequenza un po’ ovunque sul pianeta. La prima fase della Operazione è stata dichiarata chiusa con troppa fretta, solo una settimana dopo i gruppi islamisti hanno ripreso il controllo di alcuni centri abitati nel Nord, il che impegnerà il contingente francese e suoi collaboratori ad una permanenza prolungata.

Quello che potrebbe essere in connessione con la più ampia e importante crisi nel Nord Africa, esaltata dai fatti libici appena accaduti, e col coinvolgimento di altre potenze imperialiste, si è per il momento apparentemente ridimensionato ad una intensa operazione militare solo francese contro gruppi armati locali.

Il desertico Nord del Mali approssimativamente dal 2007 è diventato una indisturbata base dell’Aqmi, Al-Qaida nel Magreb islamico, che dove è forte instaura un regime fondamentalista islamico molto radicale. Si autofinanzia anche con il sequestro di persone, più di 80 in Mauritania, tra incauti turisti, cooperanti, ecc.

Sembra sia intervenuto l’emiro del Qatar che tanto fece in Libia contro Gheddafi per le sue mire sul gas libico. Raccontano che «alcuni mesi fa convogli umanitari, tra cui quello del Qatar, ufficialmente destinati alla popolazione civile, in realtà trasportavano armi e munizioni e finivano nelle mani del Mujao e di Ansar Dine». I gruppi islamici avrebbero ricevuto finanziamenti oltre che dal Qatar anche dall’Arabia Saudita.

Con la caduta del regime libico, dove avevano sostenuto Gheddafi, anche guerrieri tuareg sono rientrati nel Nord del Mali portando con loro una maggiore esperienza militare e una buona scorta di armi moderne prese dai depositi libici. Parte di questi hanno fondato un secondo gruppo militare “estremista”, il Mnla, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Alzawad, l’area desertica del Nord del Mali con lo scopo di ottenere manu militari una maggiore autonomia della regione.

Il governo maliano ha cercato di opporsi a questo movimento inviando alcuni reparti dell’esercito, male armati e poco motivati, che hanno subìto una serie di sconfitte. Questo ha provocato una rivolta da parte degli stessi militari che con un colpo di Stato nell’aprile 2012 hanno deposto il loro presidente ed insediata un’altra giunta militare. Da parte sua il 6 aprile il Mnla ha dichiarato l’indipendenza dell’Azawad.

Nel Nord intanto si è insediato anche un terzo gruppo, formato anche questo da tuareg, lo Ansar Dine (Difesa dell’Islam), ed è iniziata la lotta per il controllo del territorio fra i gruppi ribelli. Lo Ansar Dine, probabilmente sostenuto dall’Aqmi, dopo uno scontro con il Mnla ha assunto il controllo dell’Alzawad e ha imposto la Sharia, un regime basato sull’applicazione integrale della legge coranica. I soliti intellettuali si sono indignati per la distruzione dei mausolei sufi di Timbuctu e dei pochi ma rari manoscritti colà custoditi.

Questi gruppi, imbaldanziti dalle vittorie, il 10 gennaio hanno passato il confine a sud e occupato Konna, una cittadina importante sulla strada per la capitale Bamako. Il giorno seguente è partita la richiesta di aiuto del debole governo maliano alla Francia. Parigi, col pretesto di difendere la democrazia nel Mali, è intervenuta immediatamente con decisione, riprendendo il controllo su tutto il paese in quattro settimane.

Ancora una volta è mancata l’azione dell’Europa, che non ha una politica di aggressione imperialista comune: è toccato alla Francia e al suo governo “socialista” di mostrare i muscoli e accollarsi onori ed oneri dell’intervento.

A supporto alle truppe francesi sono arrivate quelle dell’Ecowas, Comunità economica fra Stati dell’Africa occidentale, e altri africani, più per un controllo del territorio che per interventi militari diretti, poche centinaia di militari del Ciad e della Nigeria, rispetto ai promessi 5.000. Gli eserciti degli altri Stati controllano le frontiere. Si può presumere che anche le truppe francesi di stanza in Costa d’Avorio non si siano potute allontanare più di tanto.

La Francia ha affidato il compito di inseguire gli “estremisti islamici” in fuga agli “irregolari” del Mnla, i quali hanno accettato chiedendo in cambio di negoziare con Bamako uno statuto giuridico per l’Azawad. Aerei del Qatar sarebbero atterrati nel Nord per salvare i capi dei gruppi islamisti; il Qatar non ha smentito né commentato la notizia.

Le perdite inflitte ai “terroristi” sono indicate in modo vago, non conoscendo nemmeno la reale consistenza di quei gruppi, forse forti di 4 mila armati. Si sono ora dispersi nelle immense distese del Sahara, che ben conoscono, probabilmente in una fase di riorganizzazione, magari con altre formazioni, aspettando un altro momento propizio, com’è stata tutta la storia delle guerre coloniali contro i gruppi che non si sono sottomessi o integrati sotto il potere coloniale. In questo caso però dobbiamo considerare che questi gruppi di armati non rivendicano un loro spazio, un territorio dove impiantarsi. Come in Libia ed in Siria anche nel Mali la improbabile sigla di Al Qaida, questa pretesa onnipresente organizzazione internazionale dell’islamismo radicale, come viene presentata dalla propaganda dell’imperialismo, nasconde lo scontro sempre più aspro tra gli Stati per il controllo di territori e risorse, per non lasciare nessun vuoto nel loro controllo delle varie regioni del globo.


In Costa d’Avorio

È il caso anche della Costa d’Avorio. La data ufficiale dell’indipendenza coloniale dalla Francia è del 1960, ma è rimasta sottoposta alla piena dominazione francese fino al colpo di Stato del 1999 quando Gbagbo, il primo ministro del governo ivoriano insediatosi al potere, dichiarò: «Non siamo più una colonia francese e chiediamo alla Francia di porre fine alle sue aspirazioni imperialiste nei confronti della Costa d’Avorio».

La Costa d’Avorio è ricca di risorse naturali come il greggio, il gas naturale, diamanti, oro, bauxite, rame, e di risorse agricole, caffè, cocco, riso, banane, cotone, ecc., oltre ad essere il primo produttore mondiale di cacao. Inoltre Abidjan, capitale di fatto del paese, possiede uno dei più grandi porti africani della costa occidentale e che negli ultimi anni ha aumentato di circa il 9% il traffico merci in generale e più del 50% quello verso il Mali, il Burkina Faso e il Niger.

Il presidente Laurent Gbagbo, dopo la vittoria elettorale, ha inaugurato con l’anno 2000 una nuova politica della nazione, la réfoundation, che dovrebbe andare nella direzione dell’apertura del ricco mercato ivoriana a nuovi e più vantaggiosi partner economici, le multinazionali cinesi, giapponesi e americane, limitando l’intervento francese.

Nel 2002 scoppia una rivolta, all’inizio per iniziativa del generale Guéi, nella competizione elettorale avversario sconfitto di Gbagbo e Ouattara; poi, vista la estrema debolezza della sedizione, tutto passa nelle mani dell’esercito francese per tramite anche di truppe mercenarie arrivate dal Burkina, dalla Liberia e dalla Sierra Leone, attrezzate ed armate dall’esercito francese. Da una parte e dall’altra vengono commesse atrocità ai danni della popolazione, soprattutto in quei villaggi dove era stata espropriata la terra per consentire all’imperialismo il suo libero e dissennato sfruttamento.

È Alassane Ouattara ad insediarsi al governo nazionale dopo l’estromissione volontaria di Gbagbo, che proprio in questi giorni viene giudicato al tribunale dell’Aia per crimini contro la popolazione. Ma i crimini contro la popolazione non sono certo cessati, anzi infuria quotidianamente l’accanimento ed il furto delle terre, e gli scontri fra bande rivali. Solo un paio di anni fa sono stati i caschi blu dell’Onu, insieme all’esercito francese, a difendere le esportazioni di cacao dall’assalto di gruppi anti-Ouattara.

Ouattara vola adesso in Israele a batter cassa, visto che l’amata Francia, che comunque ha garantito a lui ed ai suoi l’impunità, non ha fondi da elargire.

I due leader ivoriani amici-nemici, nella migliore tradizione della borghesia mondiale, rappresentano di volta in volta il futuro ed il presente della sottomissione imperialistica borghese del proletariato e del contadiname locale. Gbagbo, socialista, sindacalista, alleato di Ouattara fino al '99, e Ouattara, repubblicano di scuola europea. Cosicché l’opposizione dei gruppi ribelli che si rifanno a Gbagbo si colorano delle illusioni democratiche di lesa democrazia ed inneggiano ad un fronte popolare anti francese; gli altri, quelli attualmente al potere, difendono la démocratie; adesso con il “socialista” Holland, tutto è più semplice e più complicato.

Le giustificazioni sovrastrutturali, nelle metropoli come nelle colonie, dell’imperialismo e dell’antimperialismo democratico sono sempre più delle armi spuntate in mano a dei loschi figuri senza più alcuna vitalità storica né alcun seguito nelle classi oppresse.

"Il Partito Comunista" n° 358 - marzo-aprile 2013

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