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NON C’E’ MOLTO DI MODERNO IN GIRO: LA RAPPRESENTANZA POLITICA DELLA CLASSE

(24 Marzo 2013)

La “modernità” gran tema di tutti i tempi: se gli analisti politici osservassero, però, più attentamente la merce esposta al mercatino della politica italiana e, magari, si dotassero di un maggior grado di autonomia intellettuale si accorgerebbero, forse, che di “modernità” c’è ben poco.
A parte quella del mutare delle relazioni personali e pubbliche imposta, oggettivamente per via del progredire tecnologico, dall’uso (in fette rilevanti, ma non ancora totali della popolazione) dei nuovi mezzi di comunicazione.
Guardiamoci intorno: tra l’atavico trasformismo italiota del PD (erede del “ruolo nazionale” del partito di togliattiana memoria?), la logica da “padrone delle ferriere” del centro raccolto attorno a Monti, al ritorno al notabilato, con venature autoritarie di stampo medievale, che sta nelle proposte politiche del M5S, di “moderno” insomma se ne scorge poco: anzi il profumo è quello dell’antico.
Un esempio (a livello culturale molto più elevato, rispetto a quelli già citati) ci viene dal numero attualmente in libreria dell’almanacco di economia di Micromega, intitolato (un caso davvero di onestà intellettuale): “Il ritorno dell’eguaglianza”.
I diversi interventi sono percorsi da un filo (rosso/rosa?) comune sia nell’esposizione di cause ed effetti della crisi, sia la riguardo delle soluzioni possibili : mi sono così permesso di riassumere, anche allo scopo di riuscire, in conclusione, ad avanzare un’ipotesi diversa e alternativa rispetto a quella prospettata da molti autori.
Vado per ordine, quindi, principiando dall’analisi delle cause e degli effetti della crisi.
Nel corso dei due decenni precedenti l’inizio della crisi economica mondiale, il divario tra ricchi e poveri è cresciuto in molti paesi del G7.
Dalla fine degli anni80 alla metà degli anni’90 del XX secolo, l’aumento della disparità di reddito è stato particolarmente accentuato nel Regno Unito, negli USA e in Canada.
Il livello di diseguaglianza in Italia in Italia è salito nei primi anni’90e, da allora, è rimasto a un livello particolarmente elevato, nonostante un leggero calo verificatosi sul finire del primo decennio del secolo.
Tuttavia, proprio in quegli anni si evidenzia un divario crescente tra ricchi e poveri anche, per la prima volta, in paesi tradizionalmente caratterizzati da bassa diseguaglianza come la Francia, la Germania, il Giappone.
Nei paesi emergenti la crescita economica ha giocato un ruolo decisivo nella riduzione della povertà ma, al tempo stesso, la distribuzione del reddito è diventata sempre più concentrata.
Tra i BRICS solo il Brasile è riuscito a ridurre sostanzialmente la disparità di reddito, anche se risulta ancora molto elevata rispetto agli standard mondiali, mentre, nello stesso tempo, le diseguaglianze in Russia, Cina, India e Sudafrica si sono accentuate.
Tra i saggi contenuti nel citato numero di “Micromega” (ed in particolare in quello firmato in collaborazione da Stilgitz e Gallegati) emerge una ipotesi: la diseguaglianza un può essere solo il risultato prodotto da astratte forze di mercato, ma il frutto di politiche governative che formano e dirigono le forze della tecnologia e dei mercati, nonché, in senso più ampio della società nel suo complesso.
Vi è in questo, fanno notare i due autori appena citati, una nota che, allo stesso tempo, è di speranza e di disperazione: di speranza perché significa che questa disuguaglianza non è inevitabile, e modificando le misure politiche siamo in grado di ottenere una società più egualitaria ed efficiente; di disperazione, perché i processi politici sottostanti sono tremendamente difficili da cambiare.
In una sorta di circolo vizioso, viene fatto notare, una maggiore disuguaglianza ha portato a minore eguaglianza di opportunità e quindi a una maggiore disuguaglianza.
Spostare denaro sugli individui ad alto reddito, che percentualmente consumano una minore porzione dei propri guadagni di quanto non facciano i “poveri”, riduce il consumo e il moltiplicatore.
Il risultato: fino a quando non succederà qualcosa, come ad esempio un aumento degli investimenti o delle esportazioni, la domanda complessiva sarà inferiore a quella che l’economia sarebbe capace di soddisfare, il che significa che aumenterà la disoccupazione.
Negli anni’90 quel “qualcosa” è stata la bolla tecnologica, nella prima decade del XXI secolo c’è stata la bolla immobiliare.
Ora l’unica soluzione è ricorrere a una politica redistributiva e alla spesa pubblica.
La tendenza alla crescita della diseguaglianza va fatta risalire a due elementi: la globalizzazione dell’economia mondiale e i cambiamenti in direzione ultraliberista avviati dalla Tachter in Gran Bretagna e da Reagan negli Stati Uniti, che hanno concorso a determinare una perdita di potere contrattuale dei lavoratori nei paesi più sviluppati.
Deve essere ricordato anche che la pressione al ribasso non ha riguardato soltanto i salari, ma anche le condizioni di sicurezza del lavoro, e i vincoli ambientali.
Intanto è sparito dal dibattito politico il tema delle classi sociali, mentre in realtà l’andamento della distribuzione del reddito ha configurato la crescita della contrapposizione tra una classe di super – ricchi e una classe di poveri, con un conflitto che negli ultimi decenni ha favorito i primi.
Queste tesi, oggettivamente presentate, finiscono con il richiamare la tesi marxiana secondo la quale nel corso del tempo il capitalismo avrebbe assistito, da un lato, a una crescita quantitativa di un proletariato condannato però a un continuo impoverimento relativo se non assoluto e, dall’altro, a una concentrazione in sempre meno mani della ricchezza del potere: con la conseguenza che lo squilibrio tra una classe sempre più numerosa e sempre più povera e una classe sempre più ricca avrebbe alla fine portato a un capovolgimento rivoluzionario della situazione.
Ciò, in effetti non sta avvenendo, almeno qui dalla parte del “capitalismo maturo”.
Quale soluzione, allora, si adombra leggendo i saggi del testo fin qui citato (in particolare in quello di Alessandro Roncaglia) ?
A proposito di modernità (ma in questo caso da parte mia non c’è alcun richiamo polemico) viene recuperato il famoso saggio di Paolo Sylos Labini “Saggio sulle classi sociali” (1974) laddove si ritiene tornato d’attualità un concetto: quello dell’ampiezza della massa posta sotto il morso della crisi e la conseguente diversificazione di interessi e di orientamenti culturali e politici al suo interno.
La conseguenza dovrebbe essere quella, per Sylos Labini allora e per “Micromega” adesso (mi arrogo una semplificazione che spero mi verrà perdonata) la costruzione di uno schieramento progressista che dovrebbe articolarsi nell’alleanza tra classi meno abbienti e strati importanti dei ceti medi impoveriti.
Accettata l’analisi riguardante la crescita della disuguaglianza e l’effetto immediato della ricollocazione di classe ritengo però che, prima di parlare di costruzione di uno schieramento progressista esista in Italia il tema, urgente e indifferibile, della rappresentanza politica.
Senza alcuna pretesa di esaustività del discorso mi pare evidente come, da un lato, le classi impoverite dalla crisi e ridotte in una condizione di sfruttamento da vero e proprio “ritorno all’indietro”, siano completamente prive di un’adeguata rappresentanza sul piano politico.
Manca, in questo senso, un’adeguata soggettività politica capace di aggregare il vasto campo contraddistinto da un’evidente dimensione di “classe”, prioritaria rispetto ad altri elementi della dinamica sociale, culturale, politica; leggere i dati della realtà; proporre soluzioni anche parziali, ma sempre avendo davanti, quale vero e proprio elemento di riferimento comune, la prospettiva del superamento del capitalismo.
Una forza che si colleghi alla grande tradizione dei comunisti e della sinistra in Italia, rimasta in sospeso da più di vent’anni, e si ponga sul terreno (già indicato tante volte) dell’autonomia, dell’alternativa (insieme politica e di sistema), dell’opposizione (anche in questo caso rispetto al quadro politico esistente e, contestualmente, al sistema).
Raggiunti questi tre livelli si potrà pensare al recupero di un necessario ruolo istituzionale .
La sinistra d’alternativa non è rientrata in Parlamento: tra l’altro SeL appare completamente scomparsa anche soltanto da un punto di vista di una minima rappresentanza di dialettica politica all’interno del centrosinistra.
Ci aspetta un lavoro di lunga lena, e dobbiamo ancora compiere il primo passo.

Franco Astengo

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