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La vertigine di Angelino

(26 Ottobre 2013)

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Quando la strada finisce e davanti c'è il vuoto, le alternative sono tre: tirare fuori le ali e volare, fare un altro passo e cade, oppure tornare indietro. Non è una scelta semplice quella che deve prendere Angelino Alfano. Lui lo sa e cerca di guadagnare tempo. Il conto alla rovescia però sta scadendo, perché Silvio Berlusconi ha deciso di accelerare il processo che porta alla rinascita di Forza Italia.

L'azzeramento delle cariche è già deciso: tutti i poteri della rediviva Fi si concentrano nelle mani del Cavaliere. Una mossa che soddisfa la corrente guidata da Raffaele Fitto, alfiere degli oppositori all'ascesa del vicepremier.

Ieri Alfano ha cercato fino all'ultimo di convincere Berlusconi a prodursi nell'ennesimo ripensamento. Dopo aver fallito, ha disertato la riunione dell'Ufficio di presidenza pidiellino, la stessa che per tutto il giorno aveva cercato di far cancellare, e si è riunito con i suoi per discutere le contromosse. Sembrerebbe un segnale di rottura, la definitiva scissione fra "governativi" e "lealisti", ma Alfano ha voluto interpretarla a suo modo: “Il mio contributo all'unità del nostro movimento politico, che mai ostacolerò per ragioni attinenti i miei ruoli personali – ha scritto –, è di non partecipare, come faranno altri, all'Ufficio di presidenza che deve proporre decisioni che il Consiglio nazionale dovrà assumere. Il tempo che ci separa dal Consiglio nazionale consentirà a Berlusconi di lavorare per ottenere l'unità”.

Insomma, la sua assenza alla riunione sarebbe stata un "contributo all'unità del partito". Sembra davvero un paradosso, ma a ben vedere le parole più significative della nota sono altre: è quel "come faranno altri" a dare la misura della spaccatura che divide i pidiellini. Alla riunione di ieri, ad esempio, non era presente nemmeno il capogruppo al Senato, Renato Schifani, anche lui impegnato a "lavorare per l’unità del partito". Stesso discorso per Giovanardi e Formigoni.

Divisi nei fatti, uniti a parole, tutti concordi nel tenere bassa la voce, almeno per il momento. L'atto finale dello spettacolo andrà inscena proprio in quel "Consiglio nazionale" evocato da Alfano, che potrebbe svolgersi l'8 dicembre (lo stesso giorno delle primarie del Pd). In quell'occasione il Pdl si riunirà in massa e si potrà fare la conta per stabilire il vincitore.

In verità la scissione sembra inevitabile, avendo Alfano detto e ripetuto che non intende far parte di una nuova formazione fatta di "estremisti" ostili al governo Letta. Ma dalla teoria alla pratica il passo non è breve. I "governativi" sono a un bivio decisivo. Dopo la ricostituzione di Forza Italia, potrebbero scegliere di formare gruppi parlamentari autonomi per dare stabilità all'Esecutivo e conservare la poltrona.

I numeri al Senato dovrebbero bastare (alla Camera non serve fare i conti: grazie al Porcellum il Pd ha già la maggioranza assoluta). A inizio ottobre, infatti, quando Berlusconi sembrava sul punto di votare contro la fiducia al Governo – proposito poi abortito con un ripensamento dell’ultimo minuto –, il Premier aveva chiarito che l’eventuale strappo del Cavaliere non avrebbe comunque portato alla caduta del Governo.

Tuttavia, se gli alfaniani decideranno di rompere, lo faranno nella consapevolezza che c’è una scadenza elettorale molto vicina, ovvero le europee, in cui dovranno dimostrare di avere non solo un’identità politica (finora non pervenuta), ma anche un dignitoso seguito popolare. Avranno la responsabilità di creare una destra capace di esistere e sopravvivere fuori dall'orbita berlusconiana: una destra davvero "moderata", in grado di proporsi come alternativa agli “estremisti”di Forza Italia e agli ex fascisti già confluiti in Fratelli d’Italia. Una destra degna di reclamare la propria appartenenza al Partito popolare europeo.

Le colombe pidielline hanno spalle abbastanza larghe per sostenere un peso del genere? Probabilmente no, e non è affatto detto che gli convenga. Oltre a tutte le difficoltà politiche, non va dimenticato il versante finanziario: comunque vada a finire, le chiavi della cassaforte resteranno in mano al Capo di sempre. Insomma, l’ombrello berlusconiano non sarà eterno, lo sanno tutti, ma abbandonarlo ora vorrebbe dire lanciarsi nel vuoto.

La scappatoia esiste: Alfano e i suoi potrebbero abbassare la testa, accettare l’azzeramento imposto dall’alto e continuare ad libitum lo scontro interno. Berlusconi gradirebbe questa prospettiva, e per convincere i "governativi" ha assicurato che Forza Italia continuerà a sostenere l'Esecutivo. D'altra parte, nemmeno i suoi margini di manovra sono ampi.

Il Cavaliere è stretto nella morsa dei guai giudiziari: da una parte la condanna definitiva per il caso Mediaset, l'interdizione biennale dai pubblici uffici, l'imminente decadenza dal Senato e la conseguente perdita dell'immunità parlamentare; dall'altra il rinvio a giudizio da parte della Procura di Napoli per il caso De Gregorio, che sostiene di essere stato corrotto con tre milioni di euro per passare dall'Idv al Pdl e far cadere così l'ultimo governo Prodi.

L'intero scenario compromette gravemente le prospettive politiche di Berlusconi. E non solo perché non potrà ricandidarsi. Allo stato attuale, molte domande restano senza risposta: se, dopo la decadenza del Cavaliere, i falchi riuscissero nell'impresa (improbabile) d'imporre il ritorno alle urne, a chi verrà affidato il compito di portare avanti la campagna elettorale? Chi sarà il candidato premier? Non certo Alfano, a meno di clamorose piroette dell'ultimo minuto.

Comunque vada a finire, una riconciliazione convincente del centrodestra non sembra praticabile. La parte governativa del Pdl cova un desidero di ribellione, ma per il momento non è in grado di fare il passo decisivo, né è sicura di volerlo. Berlusconi se n'è accorto, per questo ha deciso di sfilare all'ex delfino la poltrona di segretario. Comunque vada a finire, il Cavaliere conferma l'unico assioma della sua storia politica: chiunque lavori in Parlamento senza avere come unica stella polare gli interessi del Capo, è un nemico del partito. Perché il Capo è il partito, e il partito è il Capo.

Carlo Musilli - Altrenotizie

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