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NON E’ FINITO IL VENTENNIO BERLUSCONIANO PERCHE’ IN QUESTI ANNI E’ STATA DISTRUTTA LA CULTURA POLITICA

(27 Novembre 2013)

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La decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di Senatore della Repubblica non coincide con la fine del cosiddetto “ventennio berlusconiano” come molti stanno incautamente dichiarando in queste ore: prima di tutto perché. se ci riferiamo al cattivo governo di questo Paese c’ò da ricordare sempre come, in questi vent’anni, abbiamo governato tutti e per periodi piuttosto lunghi, dal nero più nero Alemanno al demoproletario Ferrero, in secondo luogo perché il tema dominante di questo ventennio è stato quello della progressiva distruzione, in questo Paese, della cultura politica e di una stupida ricerca di una presunta “modernità comunque” che ha tragicamente rovinato un minimo di rapporto sociale che le istituzioni ed i soggetti politici pur avevano conservato dopo la temperie della Tangentopoli anni’90.
Una “modernità” imperniata sull’idea, già corrente fin dagli anni’80 del secolo scorso della “privatizzazione della politica”.
Si verificò allora un duplice passaggio: quello dal primato della politica a quello dell’economia, sulla spinta della ventata iperliberista definita del “reaganian-tachterismo” e quello della prevalenza del concetto di governabilità su quello di rappresentanza.
S’impose, fin da allora, all’interno del sistema politico italiano l’idea di una modifica profonda nel senso compiuto della Costituzione Repubblicana, laddove questa indica il Parlamento quale centro della vita istituzionale del Paese.
Lo spostamento dal Parlamento al Governo e la forte tensione verso il personalismo che fu prodotta dalla spinta verso questo cambiamento provocarono i primi segnali non solo di smottamento del quadro politico, ma dell’abbandono delle idee – forza che la cultura politica europea aveva espresso e che si erano riverberati sull’agire politico e istituzionale nel nostro Paese.
L’Italia, in più, faceva segnare la presenza di particolarità specifiche che la rendevano “caso” particolare nella stessa Europa Occidentale: la presenza di forti partiti di massa che garantivano un altissimo tasso di partecipazione elettorale, che poteva essere considerato fattore di saldezza e credibilità per l’intero sistema politico.
Il passaggio al primato della governabilità, la conseguente opzione consociativa che pure deve essere ricordata, la scelta apparentemente “efficientista” di avallare il passaggio del primato dell’economia sulla politica attraverso la stipula dei trattati europei, in particolare Maastricht, che suffragavano la centralità dell’Europa delle banche e del supercapitalismo su di un’Europa costituzionale e dei popoli.
E’ stato questo il varco dal quale è passato il meccanismo di una vera e propria distruzione del sistema politico, ben oltre il tema specifico di Tangentopoli e di quello della caduta del muro di Berlino: era forse impossibile deviare il corso degli eventi ma è certo che da parte di quelle che erano stato le grandi culture politiche del Paese, quella cattolico – democratica e quella radical – progressista imperniata sul PCI non vi fu reazione, ed anzi vi fu fuga dalle proprie tradizioni e dalle responsabilità storiche a cui avrebbero dovuto assolvere, in quel momento particolarmente difficile.
Il mutamento del sistema elettorale, avvenuto a colpi di referendum, può essere considerato ancora, a distanza di tanti anni, l’evento paradigmatico di quel cambiamento di scenario con il passaggio definitivo al pratico annullamento della ricerca di un radicamento di massa da parte dei partiti e l’esaltazione del personalismo, principiando dal basso con l’elezione diretta dei Sindaci e i collegi uninominali.
Sono poi seguite, sul piano della dinamica istituzionale, vere e proprie aberrazioni, mentre a partire dal dibattito in Commissione Bicamerale per le riforme del 1997 per arrivare al ruolo del Presidente della Repubblica come interpretato in questi anni da Giorgio Napolitano, il sistema riceveva una vera e propria torsione in senso autoritario e di limitazione dell’agibilità democratica.
Tutto è stato travolto sotto quest’aspetto: la funzione dei partiti come corpi intermedi e di promozione dell’acculturazione politica (restando loro, però, due fortissime armi: il potere di spesa e il potere di nomina), il ruolo dei sindacati, il pesantissimo processo di sostanziale allineamento al sistema dei mezzi di comunicazione di massa che si trovavano, tra l’altro, e si trovano in una fase di fortissimo mutamento tecnologico.
Silvio Berlusconi è comparso sulla scena in questa fase ed il carico di corruzione morale e politica che la sua presenza e la relativa forma politica da lui ispirata ha completamente egemonizzato la scena politica, portando gli altri attori presenti nell’arena a muoversi nel suo solco, al di là della competizione per il potere.
E’ per questi motivi, senza riferire il dettaglio che tutti hanno presente benissimo, che il cosiddetto (ingiustamente) ventennio berlusconiano non è finito: anzi è vivo più che mai considerato che il suo principale – apparente – contraltare, il PD, si appresta a votare come leader un soggetto completamente impregnato in quel tipo di cultura che fin qui si è cercato di descrivere.
Gli effetti sono stati devastanti: prima di tutto sotto l’aspetto dell’assoluta subalternità dimostrata dall’intero quadro politico al liberismo sfrenato che ha varcato gli argini della decenza nella feroce gestione capitalistica della crisi finanziaria in atto dal 2008; allo smarrimento da parte dei cittadini di fronte al crescere di colossali ingiustizie, della crescita esponenziale di incomprensibili privilegi per pochi, del palesarsi di inaudite differenziazioni sociali.
E’ così mancata complessivamente non solo la volontà di ribellarsi a questo stato di cose: privilegio ormai limitato a poche frange sociali, magari attestate su rivendicazioni settoriali o localistiche, pur importanti e nobili.
E’ mancata la coscienza civile e la volontà di “prendere parte”.
Una situazione che minaccia di protrarsi nel tempo, se non si cercherà di introdurre anticorpi sociali e politici per combattere questa grave malattia.
La sinistra, nelle sue espressioni moderate e radicali, ha completamente abdicato al proprio ruolo, acconciandosi sostanzialmente a questo stato di cose, esaltando personalizzazione e governabilità, smarrendo il senso della teoria e della pratica politica, pagando un prezzo altissimo all’incauto scioglimento del PCI avvenuto, è bene ricordarlo, al di fuori di qualsiasi indirizzo concreto di prospettiva politica ma soltanto allo scopo di “sbloccare il sistema”: proprio quello che volevano gli avversari.
La sinistra deve ripartire: si comprende benissimo come quest’affermazione appaia del tutto volontaristica.
Ma è necessario muoversi: tutte le soggettività politiche esistenti non appaiono all’altezza del compito.
Servirebbe recuperare l’intreccio tra teoria e prassi, partendo dal riunificare opposizione politica e opposizione sociale all’interno di un nuovo progetto che tenga conto del peso delle antiche contraddizioni, in primis di quella di classe, e delle nuove contraddizioni da intrecciarsi attorno ad un solo preciso obiettivo: recuperare il concetto di rappresentatività politica, quel concetto che è stato distrutto nel corso di questi anni.

Ci troviamo al centro della temperie di una delle situazioni più drammatiche affrontate, a livello globale, dalla classe subalterna: gli epigoni del capitalismo dell’oggi stanno gestendo il ciclo con una ferocia senza pari rispetto anche a loro lontani predecessori, impoverendo le masse, restringendo i margini di agibilità della stessa democrazia liberale, agitando gli eterni spettri della guerra, della fame e della paura.

Per la prima volta, a memoria di diverse generazioni (e forse anche rileggendo la storia di secoli) si verifica un vero e proprio arretramento nella qualità della vita culturale, politica, economica e sociale: un fenomeno che si può ben definire di vera e propria regressione.
A fronte di questo stato di cose la sinistra italiana (per quel che valgono, ovviamente, le vicende politiche di un paese come l’Italia: che pure, però, rivestono la loro importanza ben oltre lo stato reale delle condizioni materiali e politiche del suo proletariato) è praticamente sparita, nella sua capacità d’incidenza anche a livello istituzionale e non semplicemente sociale, di mobilitazione dal basso, di aggregazione culturale e politica.
Si cerca, allora, di indicare di seguito una semplice scaletta di lavoro sulla base della quale sviluppare un dibattito, il più possibile allargato nella sua prospettiva di partecipazione, per la (ri)costruzione di una sinistra di classe, anticapitalista al riguardo della quale deve essere cercata ispirazione nell’opera del più grande pensatore marxista che ha avuto il nostro Paese. Antonio Gramsci.
Gli assunti di fondo sulla base dei quali va sviluppata questa discussione sono, essenzialmente, tre:
1) L’affermazione dell’attualità del conflitto, sociale e politico;
2) L’idea della politica intesa come lotta per il “potere” e non semplicemente per il “governo”, o peggio alla riduzione di questo alla mera “governabilità”;
3) L’obiettivo della formazione di un “intellettuale collettivo”.
I punti sui quali sviluppare la riflessione, promuovere lo studio, costruire il confronto per poi pervenire, in tempi rapidi a elaborare delle proposte concrete sulla base delle quali rivoluzionare davvero l’agire politico della sinistra italiana, nel contesto mondiale ed europeo, possono allora essere così riassunti (a semplice livello di titolo):
Attorno al tema dell’unità tra teoria e prassi, ineccepibile fondamento filosofico dell’intero impianto, occorre rivisitare con chiarezza ciò che è mutato, nel corso degli ultimi anni. Anche e soprattutto per via di una tumultuosa trasformazione tecnologica, nel rapporto tra struttura e sovrastruttura: si tratta di una revisione indispensabile al fine di comprendere al meglio qualità e dislocazione sociale delle “fratture” sulle quali operare in modo che i soggetti politici possano misurare i loro programmi e le loro azioni attorno all’attualità di contraddizioni realmente operanti nella società.
Deve essere sviluppata un’analisi mirata a comprendere la realtà della fase: ci si trova, almeno questa è l’opinione contenuta in questa nota, in una fase di fortissima – ed anche inedita per qualità e intensità – “rivoluzione passiva” all’interno della quale è possibile condurre soltanto una “guerra di posizione” la cui durata non è, ovviamente, ipotizzabile a questo punto ma che sicuramente non traguarderà semplicemente il “breve periodo”.
All’interno di questa fase di “rivoluzione passiva” si dovranno sviluppare due elementi di fondamentale importanza: la ricostruzione, sul piano teorico, di un “senso comune” opposto a quello dominante a partire dalla contraddizione di classe sviluppandone gli elementi fondativi sul terreno culturale e sociale (verrebbe quasi da usare l’antico termine di “controcultura” intendendo il termine cultura nel senso della “kultur” nell’interezza del significato di questo termine che si trova nella lingua di Hegel, Kant e Marx); la messa in opera di un’adeguata soggettività politica che dovrà essere chiamata a sviluppare la sua iniziativa sul terreno dell’opposizione, ponendosi l’obiettivo di recuperare anche una presenza istituzionale che si ritiene comunque necessaria.
Sarà sulla base dei modelli che saranno scelti attraverso un forte dibattito di massa per decidere la forma da far assumere, nell’oggi, a questa soggettività, che si potranno costruire nel tempo le condizioni culturali e politiche adatte all’affermazione, a tutti i livelli, di una nuova, adeguata, élite dirigente.
Élite dirigente della quale è necessario, indispensabile ed urgente procedere alla formazione partendo dalle tante avanguardie sparse in una pluralità di situazioni e attualmente prive di riferimento politico nelle fabbriche, nelle Università, nei nuovi movimenti sociali e che deve essere unificata all’interno di un’organica visione del ruolo intellettuale e politico.
Élite dirigente dalla quale far partire quella lotta per l'egemonia che deve rappresentare il vero obiettivo del nostro agire culturale, sociale, politico.
Temi difficili, tutti questi appena elencati, al riguardo dei quali va sviluppata un’opera di riconoscimento intellettuale e di proposta di azione politica: nel segno, proprio, dell’intreccio necessario tra teoria e prassi.

Franco Astengo

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