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LE CONTRADDIZIONI DELLA RICOSTRUZIONE POST – BELLICA
APPUNTI PER UNA STORIA

(21 Dicembre 2013)

Il presidente della Confindustria Squinzi ha paragonato i disastri verificatisi nel corso di questi ultimi sei anni al riguardo delle condizioni economiche e sociali dell’Italia alla situazione immediatamente successiva alla fine del secondo conflitto mondiale.
Un’osservazione di sicuro interesse, che merita di essere approfondita anche attraverso un tentativo, sicuramente parziale, delle vicende che, negli anni tra il 1945 e il 1955, portarono il Paese a ricostruire l’economia e il tessuto sociale.
Un percorso irto di contraddizioni e non certo quella “cavalcata” verso il progresso che, molto frequentemente, oggi viene presentata alla nostra labile memoria collettiva.
Dunque: andando per ordine.
Alla fine della guerra l’Italia si trovò di fronte ai seguenti maggiori problemi: in primo luogo vi era la grave situazione economica; in secondo luogo vi era l’eredità della divisione politica e militare del paese durante il periodo della Resistenza.
L’Italia del Nord aveva sviluppato al massimo il movimento di lotta contro il nazifascismo e si trovava complessivamente, nel valutare le esigenze di rinnovamento del Paese, su posizioni più radicali e progressiste che non l’Italia del Sud: quest’ultima, invece, dove la mancanza di lotta armata e la presenza della monarchia e del governo avevano assicurato la “continuità” delle strutture dello Stato, era rimasta chiusa in orizzonti più conservatori e moderati.
Infine, esistevano le forze armate alleate, con un loro peso assai rilevante in quanto esse non soltanto rappresentavano l’unico organismo in grado di provvedere ai primi necessari aiuti a una popolazione in miseria, ma sorvegliavano accuratamente gli sviluppi politici della situazione italiana, con non nascoste inclinazioni per le forze più moderate e una netta ostilità verso i partiti della sinistra.
L’influenza dell’Amministrazione Militare alleata divenne immediatamente un elemento imprescindibile per le forze politiche, tanto più che le truppe anglo – americane diventarono subito una garanzia per i partiti di Destra e di Centro.
Dal punto di vista economico l’Italia del 1945 si trovava in condizioni che, pur essendo di gran lunga migliori di quelle di molti altri Paesi europei (ad esempio la Germania e la Polonia) erano di per se stesse quanto mai pesanti.
Le distruzioni belliche avevano portato alla perdita di circa il 20% del patrimonio nazionale.
L’industria si era nella maggior parte salvata, poiché i danni bellici si aggiravano intorno all’8% degli impianti; ma le capacità produttive complessive, scese nel 1945 al 29% rispetto al 1938, erano gravemente compromesse, sia dalla mancanza di materie prime, sia dall’invecchiamento tecnologico, dovuto al logoramento subito durante la guerra senza un adeguato rinnovamento.
L’agricoltura nel 1945 ebbe un calo produttivo assai pesante, dovuto sia alla rovina delle coltivazioni e dei terreni nelle zone di guerra, sia all’impoverimento del suolo, rimasto senza sufficiente concimazione.
Il raccolto del grano che nel 1938 era stato di 81.838 milioni di quintali, scese nel 1945 a 41.766 milioni.
Il patrimonio zootecnico aveva subito una gravissima diminuzione.
Complessivamente la produzione agricolo – zootecnica era, sempre rispetto al 1938, diminuita del 63,3%.
In conseguenza l’agricoltura nazionale non si trovava assolutamente in grado di assicurare un’alimentazione neppur lontanamente adeguata alle esigenze della popolazione: la media di calorie per abitante disponibile nel 1938 era di 2.723, nel 1947 appena di 1737.
In questa situazione risultarono d’importanza fondamentale gli aiuti forniti dagli alleati, con evidenti conseguenze politiche.
Gravissimi danni avevano subito i trasporti.
Anche nel settore dell’edilizia, con la messa fuori uso di oltre il 10% del totale dei fabbricati, la situazione si presentava abbastanza grave, specie nelle maggiori città.
Di fronte a questa realtà lo Stato e i privati non erano in grado di avviare una seria ripresa produttiva per mancanza di capitali, senza un aiuto notevole da parte degli Alleati.
I prezzi intanto erano saliti nel 1945 rispetto al 1939, di 18,4 volte.
I disoccupati e i sottoccupati ammontavano a un numero assai rilevante e costituivano un grosso e difficile problema politico e sociale.
Nel 1946 i disoccupati censiti risultarono 1.654.872 e il salario medio era circa la metà di quello del 1938.
Con un apparato produttivo in forte crisi, con un’agricoltura e una zootecnia impoverite, con un sistema dei trasporti notevolmente danneggiato nel 1945 lo Stato italiano si trovava, dunque, di fronte ad enormi problemi.
Le industrie, come si è visto, difettavano di capitali da investire in materie prime, e lo Stato, fiancheggiato da un apparato fiscale che favoriva vistosamente le evasioni delle classi più abbienti, era in grave deficit, mentre s’imponevano ingenti spese per la ricostruzione.
In questa situazione si presentavano due alternative possibili: che lo Stato assumesse nelle proprie mani il controllo della ricostruzione oppure che questa venisse affidata sostanzialmente all’iniziativa privata.
Alcuni importanti elementi a sostegno della prima eventualità esistevano.
Anzitutto era disponibili gli strumenti di controllo che il fascismo aveva messo in atto per le esigenze dell’economia corporativa e dell’economia di guerra.
Questi controlli, svincolati dalle esigenze dell’economia corporativa, potevano essere utilizzati secondo nuove esigenze programmatiche.
In secondo luogo esisteva la base pubblica sia nel campo della finanza sia dell’industria: anche in questo caso si trattava dell’eredità della politica d’intervento attuata dal fascismo negli anni’30.
Si tenga presente che lo Stato deteneva nel 1945 il possesso di circa il 90% delle banche e una quota notevole dell’industria, specialmente di quella pesante.
La legge bancaria del 1936 rendeva inoltre possibile allo Stato di operare una selezione del credito secondo finalità specifiche.
Purtuttavia prevalse la seconda opzione: quella liberista.
A questa prevalenza concorsero tutta una serie di fattori.
La maggior parte degli industriali temevano che, in un clima politico quello quale del dopoguerra, con le Sinistre inserite nella sfera di governo, una politica “statalista” potesse acquistare, almeno in prospettiva, una valenza di tipo collettivista.
Per questo motivo molti di essi erano addirittura favorevoli allo smantellamento dell’IRI e in genere dell’industria pubblica.
Avversi allo “statalismo” erano anche i maggiori economisti italiani, per lo più liberali, come Einaudi, Corbino, Del Vecchio che era fautori di un completo liberismo privatistico, nel quale vedevano il presupposto per una drastica “defascistizzazione” dell’economia.
Furono proprio questi gli uomini che si trovarono a dirigere la politica economica dell’Italia nel periodo della ricostruzione.
Essi erano animati dalla convinzione che per combattere il monopolismo e il parassitismo di tante parte dell’industria italiana fosse necessario affidare la ripresa all’iniziativa privata, considerata quale mezzo migliore per conseguire il massimo utile con i costi minori.
Accanto alla più ampia libertà per l’iniziativa privata, essi miravano alla contrazione della spesa pubblica, considerata la fonte principale dell’inflazione.
Il cambio della moneta, che con i controlli a essa legati avrebbe consentito di verificare gli extraprofitti dei “pescecani” di guerra e sottoporli ad adeguata tassazione, fu combattuta con successo dai liberisti favorevoli per contro al minimo di tasse sul capitale e alla sicurezza dei profitti.
Nella proposta avanzata dalle Sinistre di trasformare il cambio della moneta in mezzo per una tassazione progressiva e per l’attuazione di un prestito forzoso a favore dello Stato, così da allargare le entrate in vista delle finalità della ricostruzione, i liberisti videro la minaccia di un tentativo “dirigista” punitivo contro le classi più abbienti.
La sola minaccia del cambio favorì la fuga di capitali all’estero, classica risposta dei capitalisti in caso di emergenza.
Per dare a questi sicurezza, nel corso del 1946 ogni riforma fiscale efficace venne lasciata cadere.
La Dc si dimostrò, attraverso i ministri Bertone e Campilli, coerente esecutrice di questa linea.
In ogni caso tra il 1945 – 46 la ripresa economica e produttiva non si realizzò.
Nella primavera del 1946 l’inflazione si accelerò pericolosamente, colpendo duramente i lavoratori a reddito fisso, classi piccolo – borghesi impiegatizie comprese.
Nel 1946 se un operaio non specializzato vedeva la propria capacità d’acquisto ridotta rispetto al 1938 del 40-50% e uno specializzato del 50-60%, gli impiegati del settore privato e pubblico risultarono ancora più colpiti con una riduzione rispettivamente del 55-65% e del 65-70%.
L’inverno 1946- 47 risultò molto negativo, tanto più che gli inizi di ripresa produttiva vennero gravemente ostacolati da una forte carenza di combustibili, dovuta ad una crisi nella produzione di carbone in Gran Bretagna, principale fornitrice dell’Italia.
Una svolta fu introdotta con la politica economica di Luigi Einaudi, ministro del Bilancio, attraverso la svalutazione della lira nell’agosto del 1947.
La svalutazione ebbe voluto perché in tal modo si sarebbe favorita la riduzione delle importazioni, il rientro di capitali e il rilancio delle esportazioni.
Al fine di promuovere l’immissione nella produzione delle scorte, accaparrate dagli industriali sotto lo stimolo dell’inflazione per poi immetterle sul mercato in una fase di ulteriore aumento dei prezzi, fu attuata una severa politica di restrizione dei crediti all’industria e al commercio, secondo una linea di tipo deflazionistico.
I risultati allora arrivarono, nel senso auspicato dai promotori di quella linea di politica economica.
Con la restrizione del credito le scorte vennero gettate sul mercato contribuendo a frenare la crescita dei prezzi, e quindi anche la corsa al rialzo dei salari.
I prezzi all’ingrosso e al minuto scesero notevolmente.
Intanto la svalutazione promosse il ritorno di capitali, in quanto appunto permetteva di lucrare nel rientro che a sua volta consentì investimenti e ripresa delle esportazioni.
La svolta einaudiana si pose, però, di pari passo con un attacco generalizzato ai livelli di occupazione, che nel 1948 era ancora assai basso con ben 2.124.474 disoccupati su una popolazione di 46 milioni.
Alla fine del 1948 la produzione industriale aveva raggiunto l’89% di quella del 1938 e quella agricola dell’84%.
La politica congiunta di svalutazione e deflazione ebbe un importante effetto sulla struttura delle imprese italiane, favorendone la concentrazione.
Risultò comunque molto significativo, all’interno di quel quadro, il fatto che l’IRI avesse superato la tempesta antistatalista e avesse ripreso ad operare ottenendo nel 1948 notevoli finanziamenti che dovevano costituire la base per un prossimo rilancio dell’industria pubblica.
In conclusione di questa parte della nostra ricostruzione si può affermare che la politica liberista di Einaudi aveva ottenuto rilevanti risultati rispetto all’obiettivo di rilanciare l’iniziativa privata e di contrastare una politica di programmazione, ma non ne ebbe alcuno per quanto riguardava il carattere monopolistico delle concentrazioni finanziarie ed industriali.
L’atteggiamento delle Sinistre di fronte ai problemi della ricostruzione fu improntato in generale ad uno spirito di “solidarietà nazionale” e quindi di collaborazione “condizionata” con le forze imprenditoriali.
Una simile impostazione era legata organicamente alla scelta iniziale di assumere posti di responsabilità nei governi di coalizione e ad una linea politica che non puntava su di un’alternativa extraparlamentare e rivoluzionaria e quindi sull’espropriazione.
Pur con differenze interne socialisti e comunisti si attennero ad una politica di collaborazione tra forze del lavoro e capitalisti, frenando nei momenti più acuti lo “spontaneismo anticapitalistico” del proletariato e dei contadini meridionali in lotta per la terra.
Specialmente i comunisti premevano perché la ricostruzione avvenisse lasciando spazio all’iniziativa privata, giudicata non sostituibile in quella fase.
Quello che i comunisti chiedevano come contropartita era che l’iniziativa privata si svolgesse in modo non incontrollato, anzi per un verso sotto il controllo del governo, dal quale non prevedevano di essere estromessi, e per l’altro dei sindacati e degli organismi di base come i consigli di gestione.
Una simile linea aveva quale presupposto un orientamento teorico generale che portava i comunisti a ritenere che il capitalismo italiano, con le sue tare storiche, non fosse in grado di assumere autonomamente il controllo del processo produttivo e si trovasse pertanto nella condizione di dover accettare il controllo delle grandi organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra, le quali avrebbero, a livello di rapporti di produzione, realizzato la stessa formula del governo.
Il fatto che i comunisti lasciassero campo libero all’iniziativa privata portò i capitalisti, nella fase iniziale e di loro maggiore debolezza, ad accettare tatticamente il rapporto che i comunisti chiedevano; dopo di che, riassunte le redini delle aziende, passarono ad un’offensiva generalizzata contro le Sinistre e le loro richieste di controllo; vanamente, a quel punto, il PCI chiese un inizio di programmazione economica, che pure in un primo tempo aveva respinto come non attuabile per mancanza di strumenti.
In sostanza, all’estromissione nel 1947 delle Sinistre dal governo si accompagnò quella dai luoghi di lavoro.
La Confederazione Generale Italiana del Lavoro, dal canto suo, aveva visto nel 1945 aumentare rapidamente la propria influenza fra le masse lavoratrici.
Essa si trovò condizionata da tre fattori principali: la linea politica dei partiti di sinistra, coinvolti fino al 1947 nella sfera di governo; la riorganizzazione della Confindustria, impegnata nel ridare al più presto agli imprenditori la piena autorità nelle aziende; la spinta spontanea di larghi strati del proletariato e dei contadini meridionali a modificare i tradizionali rapporti di potere tra le classi sociali.
In sostanza la CGIL si trovò a dover restare su posizioni difensive, senza poter contrastare il recupero di potere delle classi dirigenti.
In primo luogo il sindacato non riuscì ad opporsi allo sblocco dei licenziamenti, il quale nel gennaio del 1946 diventò totale anche se con scaglionamenti.
Ciò rispondeva alle richieste degli industriali di ridimensionare l’occupazione in funzione delle dimensioni dell’apparato produttivo.
Del pari il sindacato accettò la richiesta confindustriale di fondare i rapporti fra capitale e lavoro sulla base di accordi centrali e nazionali, che se previdero un’importante conquista come quella della scala mobile, sancirono anche una struttura differenziata delle retribuzioni in base a tabelle nazionali per categorie e il cottimo, voluti al fine di stimolare la produttività legandola al salario e stabilire così un controllo sulla mano d’opera attraverso gli avanzamenti.
Nell’ottobre del 1946 fu accettata una tregua salariale che durò un anno, venendo così incontro alle richieste del padronato, in nome delle esigenze dalla ricostruzione.
Una situazione assai critica per la CGIL si delineò quando, in presenza di un forte processo inflattivo con la conseguente erosione dei salari si creò anche una situazione di diffusi licenziamenti a partire dagli ultimi mesi del 1947,
Le reazioni che diedero origine a forti agitazioni da parte degli strati popolari più colpiti furono, in sostanza, “frenate” dal sindacato, che si trovava in un’obiettiva posizione di debolezza e nell’impossibilità di dare alle proteste della base uno sbocco diverso da quello legato alle prospettive di una futura ripresa economica in grado di aumentare le disponibilità di lavoro.
Ben presto la scissione nelle file del sindacato, nel quadro di un’offensiva moderata generalizzata, doveva creare ulteriori difficoltà e un indebolimento del movimento operaio, coinvolto anche a livello sindacale dalla sconfitta storica nelle elezioni dell’aprile 1948.
Così il 1948 fu un anno chiave nella situazione del dopoguerra.
Il divorzio tra il testo costituzionale, entrato in vigore nel gennaio di quell’anno, notevolmente avanzato sul piano sociale (sia pur con un articolato non casualmente generico) e la politica di ricostruzione svoltasi dopo il 1945 sotto il segno dominante di un accentuato e progressivamente avanzante moderatismo, caratterizzava in modo essenziale il tipo di nascita e di consolidamento della Repubblica Italiana.
La vittoria schiacciante della DC nelle elezioni del 1948 e gli importanti aiuti statunitensi dati al Paese in base al piano Marshall costituirono la premessa perché l’ulteriore sviluppo politico e economico italiano avvenisse in un quadro d’isolamento sia dei partiti della Sinistra, sia della CGIL.
De Gasperi, dopo che come si è già fatto rilevare nel periodo 1945-48 era stato bloccato ogni rinnovamento politico – sociale sentiva nondimeno la necessità di un rinnovamento, sia pure parziale.
A fronte di forti agitazioni sociali affrontate con la repressione poliziesca che ebbe le sue punte più drammatiche al Sud con le uccisioni di braccianti a Melissa e a Montescaglioso e al Nord a Modena, con l’assassinio di 5 operai davanti alla fonderie Orsi Mangelli nel 1950, fu tentato dal governo centrista una sorta di “riformismo dall’alto” che diede risultati, a partire dalla riforma agraria approvata nel 1950, modesti e insoddisfacenti.
I risultati complessivi del quinquennio 1948-53 apparvero positivi sotto l’aspetto quantitativo, ma se si verificano dal punto di vista sociale gli squilibri non erano stati in alcun modo affrontati e attenuati.
La politica liberista del governo aveva dunque fatto pagare costi salatissimi sia al proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato del Mezzogiorno.
Agli elevati profitti stavano di fronte salari bassi e pesantissime condizioni di lavoro: condizioni miserrime per milioni di persona a cui si accompagnava una fortissima emigrazione verso i Paesi europei e le Americhe.
La ricostruzione poteva considerarsi ultimata nel 1954, quando la produzione industriale aveva superato ormai dell’81% la produzione del 1938, ma le condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle esportazioni.
Toccò all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia sul terreno dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella siderurgia, nella chimica e nell’industria petrolifera, con la vicenda legata all’ENI di Mattei fino alla sua misteriosa scomparsa.
Ma se aumentò complessivamente la produttività e con essa i profitti, i salari rimasero comunque indietro e scarsi furono i progressi dell’occupazione: nel 1955 risultavano ancora ben 2.161.000 disoccupati.
In una fase di sviluppo caratterizzata da alti profitti e da bassi salari, il padronato portò avanti (come mise in luce perfino un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche svolta nel 1957) una dura politica di attacco ai sindacati.
Sotto il governo Scelba, in un clima di “guerra fredda” interna molto acceso e dopo che l’ambasciatrice statunitense in Italia, Clara Boothe Luce, ebbe dichiarato che gli USA non avrebbero più dato commesse alle industrie dove nelle elezioni per le Commissioni Interne la CGIL avesse avuto più del 50%, si sviluppò in pieno l’azione padronale.
Sotto il peso del ricatto alla FIAT, la CGIL subì nell’aprile del 1955 un tracollo passando dal 60 al 38%.
Era soltanto il caso più clamoroso fra molti altri, determinati da una generale strategia antisindacale condotta dagli imprenditori con l’appoggio del governo centrista DC-PRI-PSDI-PLI.
Insomma: la ricostruzione era conclusa e ci si avviava verso il “miracolo economico” in un clima di duro attacco alla CGIL, in condizioni di bassi salari e di alta disoccupazione.
Appariva chiaro, allora come adesso, quali soggetti sociali erano stati chiamati a pagare gli altissimi costi della ricostruzione del Paese stremato dalla guerra fascista.
(per le statistiche e i riferimenti cronologici sono stati consultati: “Storia dell’età contemporanea” di Massimo L. Salvadori, Loescher editore 1976, e Storia della Prima Repubblica di Aurelio Lepre, Il Mulino 1993).

Franco Astengo

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