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Il rigetto

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(24 Maggio 2012) Enzo Apicella

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OPPORSI AL RITORNO ALLO STATO LIBERALE BORGHESE, ESALTARE I PRINCIPI FONDATIVI DELLA REPUBBLICA

LA COSTITUZIONE E LA TRASFORMAZIONE DELLO STATO

(26 Dicembre 2013)

QUESTO INTERVENTO SI INSERISCE, COME QUELLI PRECEDENTI RIGUARDANTI LA RICOSTRUZIONE NEGLI ANNI DEL DOPOGUERRA E LA SCELTA DEL SISTEMA ELETTORALE PROPORZIONALE COMPIUTA DALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE, NEL QUADRO DI UNA INIZIATIVA POLITICA DI GRANDISSIMA ATTUALITA’ ATTRAVERSO LA QUALE SI INTENDE COSTRUIRE UNA FORTE OPPOSIZIONE AL DILAGANTE PRINCIPIO DELLA COSIDETTA “ROTTAMAZIONE”, RECLAMANDO INVECE DI RITORNARE AI VALORI FONDATIVI DELLA REPUBBLICA NATA DALLA RESISTENZA

La Costituzione democratica e la trasformazione dello Stato

La Costituzione Repubblicana è stata scritta, com’è noto, mentre andava rompendosi la solidarietà antifascista e i conflitti crescevano d’intensità su tutti i terreni, schierando le forze politiche e sociali in due campi contrapposti sul piano nazionale e internazionale.

In quel frangente storico dai tratti davvero drammatici, all’indomani di una delle più grandi tragedie della storia, le forze politiche rappresentative della società italiana presenti nell’Assemblea Costituente scelsero la strada di ricercare un intento comune definendo l’obiettivo del rinnovamento dello Stato, in linea con l’esito elettorale del 2 giugno 1946, allorché cittadine (ammesse per la prima volta al voto) e cittadini avevano scelto la Repubblica.

Il dato di novità più importante, registratosi subito all’avvio del lavoro nuovo consesso ed espressosi anche nella composizione stessa della Commissione dei 75 incaricati di redigere materialmente il nuovo testo costituzionale che avrebbe sostituito lo Statuto Albertino, fu rappresentato dal ruolo dei partiti che si presentavano subito come protagonisti di una scena politica profondamente trasformata rispetto al passato.

Nella dialettica tra continuità e mutamento che ha segnato gli anni della formazione dell’Italia Democratica, la Costituzione repubblicana ha rappresentato un elemento essenziale attorno al quale si raccolsero gli altri due momenti fondanti del nuovo periodo della storia italiana: la lotta di resistenza antifascista e la battaglia per la repubblica.

La Carta Costituzionale, è bene precisarlo subito, è stata anzitutto il risultato politico dell’intesa tra i tre grandi partiti di massa, la DC, il Pci e il Psi, che su questo terreno riuscirono a intendersi meglio e procedere in un accordo ben maggiore di quanto non fosse riuscito loro a livello di governo e di confronto politico e ideologico.

Il punto d’incontro fu rappresentato, ed è bene rilevarlo proprio in quest’occasione, dalla concordanza sui principi fondamentali dello Stato repubblicano, ben più articolati e innovativi di quelli posti a fondamento dello Stato liberale.

Lo stato liberale era espressione di una società semplice, non ancora distinta per interessi e partiti organizzati, rappresentata da un ceto politico omogeneo di estrazione largamente proprietaria – borghese: ecco, al di là del proprietario – borghese, ma sotto l’aspetto di un “ceto politico omogeneo” questo è il punto di arretramento al quale intendono portarci adesso i fautori della personalizzazione (primarie e collegi uninominali, presidenzialismo) e della governabilità, cosi ben espressa dalla triade post-ideologica ma intimamente governista Letta-Renzi-Alfano.

Torniamo però al modello di Costituzione scaturita dall’accordo tra i partiti di massa, nell’intento di superare – appunto – la concezione dello Stato liberale, inteso come Stato di diritto e, quindi nella sostanza, come “Stato – amministrativo”, nell’avversione verso il principio politico di segno democratico della sovranità popolare (anche in questo le analogie con l’oggi sono fin troppo evidenti, con le elezioni intese soltanto per far sapere “la sera stessa, chi avrà il compito di governare” senza nessun rispetto – appunto – per la dialettica democratica).

Nella Costituzione repubblicana del ’48 si era affermata, invece, la funzione centrale dei partiti politici, come strumento per l’esercizio della sovranità del popolo, e non più solo dello Stato come amministratore.

La centralità costituzionale dei partiti ha significato, in sostanza, la scelta della Repubblica parlamentare, la centralità dei consessi elettivi, la limitazione del ruolo del governo, il rifiuto del presidenzialismo: tutti elementi che debbono essere ancora difesi oggi dai sinceri democratici avverso una sorta di Costituzione materiale che, a partire dalla modifica della legge elettorale in senso maggioritario avvenuta nel 1993 e l’esasperazione del concetto di personalizzazione della politica è venuta, via, via affermandosi portando con sé, oggi come oggi, il negativo approccio verso una trasformazione nel senso di una sostanziale riduzione nei margini di agibilità democratica, in nome del primato del liberismo economico, del taglio di un presunto eccesso di domanda sociale, di sostanziale riduzione nel rapporto tra politica e società , di affermazione di una “autonomia del politico” fondata su di una separatezza basata su veri e propri privilegi di casta.

Al momento della costruzione della Costituzione Repubblicana si verificò il passaggio dallo Stato liberale – borghese (quello cui oggi si tende a voler definitivamente tornare), che non interveniva nella direzione dell’economia e nella regolazione della società e stentava a riconoscere l’organizzazione dei partiti, allo Stato pluriclasse, allo Stato sociale che trovava un momento di realizzazione per quanto parziale proprio nella tutela costituzionale assicurata ai diritti politici e sociali dei cittadini, visti come persone dotate di autonomia di fronte allo Stato e unite da vincoli di socialità e solidarietà.

Il personalismo cristiano, tratto soprattutto da Mounier, informava del resto largamente i costituenti democristiani e si era incontrato, pur tra qualche incomprensione, con le posizioni dei partiti di sinistra tese all’affermazione e alla garanzia dei diritti sociali, che ruotavano intorno all’affermazione fondamentale sancita poi dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione.

Su questo terreno dei principi fondamentali, del riconoscimento costituzionale dei diritti sociali, della funzione centrale dei partiti nella democrazia repubblicana si era determinata un sostanziale convergenza tra i politici più autorevoli dei partiti di massa da Dossetti a Togliatti, da Basso a Tupini, da Terracini a Piccioni.

Questa intesa realizzata nei lavori della Costituente era risultata sempre più difficile a esprimersi nel governo del Paese.

Le espressioni del solidarismo, nelle diverse accezioni cristiana e marxista, rappresentarono il cemento più forte che contribuì a saldare l’intesa costituzionale fra i maggiori partiti e ne rappresentò la base comune per l’inserimento nel testo della Carta fondamentale delle norme a carattere programmatico e dei diritti sociali.

Ma l’accordo tra i partiti di massa, realizzato appunto sui principi fondamentali e sulla centralità dei partiti nel nuovo sistema democratico, si rivelò molto più faticoso da conseguire quando si trattò di definire le forme di organizzazione dello Stato.

Calamandrei scrisse : “ il problema dell’organizzazione dei poteri è quello delle forze che governano i meccanismi del potere non sono due problemi distinti: sono tutt’uno e solo un approccio che li affronti assieme appare storicamente corretto e utile”.

Questo approccio “corretto e utile” si affermò solo parzialmente e fu alla base dei ritardi, dei difetti, della sostanziale incompletezza nell’applicazione del dettato costituzionale, nel corso degli anni di tutto il dopoguerra fino alla crisi della “infinita transizione” di fine secolo che si protrae ancora oggi e che si minaccia di risolvere con una “rottamazione” che nient’altro significherebbe se non un vero e proprio ritorno all’indietro, a rapporti politici e sociali di stampo ottocentesco, sia pure mascherati dalle esigenze dell’apparire imposte da novità tecnologiche incentrate quasi esclusivamente sull’indirizzo del formare una “società dell’immagine”.

La discussione alla Costituente sul tema dell’organizzazione dello Stato era stata avviata nel Marzo del 1947, quando al governo c’era ancora la coalizione tripartitica, e si concluse alla fine di quell’anno quando appariva definito, dopo il Piano Marshall e il Cominform, un sistema mondiale di tipo bipolare.

La Costituzione Italiana, promulgata il 1 Gennaio 1948, vide la lice quando era già profondamente mutato il quadro politico e sociale su cui era stata fondata.

Si verificò così il fenomeno cui si è già accennato poc’anzi: lo Stato nuovo, che doveva nascere dall’attuazione di quell’innovativo dettato costituzionale, fu bloccato dal prevalere dello scontro politico e sociale tra le forze che si erano unite nel progetto di costruire una democrazia sociale avanzata dentro un’adeguata cornice istituzionale, che avrebbe dovuto segnare una rottura con il precedente ordinamento statale.

Così non avvenne, se non parzialmente e rimase la necessità di realizzare una effettiva corrispondenza tra le forme istituzionali del potere e forze e rapporti sociali: corrispondenza dalla quale realizzare un effettivo indirizzo politico.

Da quel varco sono passati, nel corso di questa lunga crisi politica e morale, i fautori della cosiddetta “Costituzione materiale” i cui termini negativi sono già stati ampiamente descritti e che oggi deve essere seccamente respinta.

Dobbiamo riprendere, quale insegna di una battaglia democratica, quanto i partiti della sinistra espressero in quella fase : l’idea, cioè, di una repubblica fondata sulle Camere intese come suprema espressione della volontà popolare e non certo su di un governo espressione di “lobbies” più o meno occulte.

Battiamoci per la Repubblica del “Parlamento come specchio del Paese” e non per la torbida “Rinascita democratica” della P2 di Licio Gelli.

Franco Astengo

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