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TRA MEMORIA E OBLIO: COSA MANCA DEL NOSTRO’900 NEL RICORDO COSTRUITO DALL’IMMAGINARIO DOMINANTE

(5 Gennaio 2014)

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Marcello Flores

La “ Lettura” inserto del Corriere della Sera, nel suo numero del 5 Gennaio 2013, pubblica un articolo scritto da Marcello Flores sulla "Storia che non passa", nel quale si affronta con grande impegno il tema dell’uso della memoria a fini politici.
Nell’articolo Flores sostiene come si tratti di una” tentazione pericolosa che insidia anche le democrazie”. L'argomento di fondo (e i testi citati e indicati per la lettura lo confermano) riguarda le grandi tragedie della storia, con riferimento soprattutto al "raccontare la guerra".
Si parte dalla citazione del gesto compiuto lo scorso 26 Dicembre dal primo ministro giapponese Abe, recandosi al tempio di Yakasukuni, dedicato alle anime dei caduti al servizio dell’imperatore, compresi centinaia di criminali di guerra.
Un gesto dal chiaro significato politico: Abe, infatti, intende compiere una profonda revisione della Costituzione giapponese, la cosiddetta “Costituzione della Pace” voluta (o imposta) dagli americani e considerata un’umiliazione da parte di molti giapponesi.
Lo scopo di questa revisione è quello di poter procedere al riarmo del Giappone: tutto questo si verifica nel mezzo di una crisi con la Cina per la questione delle isole Senkaku (Dyacon per i cinesi), con molti analisti che ritengono possibile, considerato il riemergere della Russia come superpotenza imperiale, una guerra tra Cina, considerata potenza “periferica” e il Giappone.
E , assolutamente, non si tratta di “fantageopolitica”.
Si tratta soltanto di un esempio presente nell’articolo di Flores, il cui contenuto però suggerisce sicuramente lo sviluppo di un tema: non soltanto l’uso della memoria a fini politici, ma anche la cancellazione della stessa riguarda egualmente lo stesso piano degli obiettivi politici.
Ciò è accaduto al riguardo del nostro'900, quello della sinistra politica che ha rappresentato il frutto più importante nella storia del movimento operaio dall’epoca della rivoluzione industriale in avanti, la scomparsa delle grandi tematiche che quel movimento aveva sollevato, l'azzeramento di radici e identità di cui stiamo soffrendo nel deserto culturale dentro al quale ci troviamo e dai cui confini rischiamo di non poter uscire per un lungo periodo.
Inquadrato il tema generale considerandolo oggetto di un possibile e auspicabile sviluppo del dibattito, in quest’occasione si segnalano di seguito soltanto alcuni accenni.
Lo smarrimento della memoria di quella parte del ‘900 legata, appunto, alla storia del movimento operaio internazionale ha completamente sepolto il dilemma “comunismo e democrazia” che pure i movimenti del ’68 avevano riproposto con grande forza.
Così come sono trattate quasi come “preistoria” alcune convulsioni mondiali verificatesi nello stesso periodo, prima fra tutte il precipitoso ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam e le conseguenze che questo fatto ebbe sulla politica statunitense.
Conseguenze che non limitarono il ruolo di superpotenza degli USA: anzi, proprio alla vigilia del ritiro da Saigon, furono gli USA a mettere fine alla breve esperienza socialista cilena soltanto perché questa aveva osato affacciarsi nel subcontinente di loro dominio.
Ciò avveniva mentre stavano venendo meno, invece, gli ultimi fascismi europei in Portogallo, Spagna, Grecia.
Fascismi europei dei quali non deve essere smarrito il ricordo, proprio oggi quando – pur nell’ambito dell’Europa a 27 – ci sono segnali pericolosi di ripresa in quel senso come in Ungheria e comunque si sollevano rischi di sviluppi di tipo autoritario anche in altre situaizoni.
Tornando però al tema della memoria smarrita di quella fase del ‘900 come ricorda Rossana Rossanda nel suo ultimo lavoro “Quando si pensava in grande” furono quei fatti appena citati ,dal Vietnam al Cile, a cambiare i piani travolgendo – alla fine – il movimento del’68 .
Fatti che finirono con l’ allungare la propria ombra fino alla chiusura della fase aperta dal lungo percorso del movimento prima democratico e poi operaio, non solo comunista ma anche socialdemocratico, e che era andato sviluppandosi in Europa dai moti del 1848 alla rivoluzione del 1917.
Si dovrà arrivare, però, alla fine del secolo e alla cancellazione dei “socialismi reali” perché si apparso evidente come soltanto con la “caduta del muro” (semplificando la fase con una definizione giornalistica) concludesse il tentativo occidentale di far fronte al 1917, offuscando prima la linea rooseveltiana del “new deal” che era seguita alla grande crisi del ’29 e poi obliando anche la linea keynesiana, affacciatasi nell’incombere della seconda guerra mondiale.
E’ stato l’indirizzo di Keynes ad aver informato gran parte dell’Europa del dopoguerra e alcune grandi istituzioni internazionali.
Un indirizzo sempre mal sopportato “da destra”:Una destra che proprio alla fine degli anni’70 riuscì a riproporre con grande forza quella proposta liberista, che appariva ormai tramontata.
Furono le vittorie di Margaret Tachter in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA a rappresentare il trampolino di lancio per la proposta neo-liberista, scagliandola contro il campo del “socialismo reale” definito come il grande nemico, dell’impero del male.
In sostanza il declino del’900 ha corrisposto a un salto all’indietro, verso una "risorgenza" del liberalismo di Von Hayek.
Rimase per aria un grande interrogativo, sul quale, come tra quello del rapporto tra comunismo e democrazia, è sceso completamente il buio dell’assenza di ricordo: che cosa avevano in comune, pur arrivando, a scelte diverse, le idee di Karl Marx e quelle di John Maynard Keynes per essere così aspramente combattute?
E’ ancora possibile rispondere sinteticamente a questo grande interrogativo: il punto comune tra Marx e Lord Keynes era rappresentato dal comune riconoscimento dell’esistenza di una divergenza fondamentale di interessi tra capitale e lavoro.
L’irriducibilità, insomma, della classica “contraddizione principale”. Ed è stato questo punto che si è voluto nascondere come se si trattasse di polvere sotto il tappeto della storia.
Marx derivava, dall’irriducibilità di quella contraddizione, l’esigenza rivoluzionaria e Lenin l’aveva realizzata, unitamente ad altre motivazioni (“pace” e “terra”) nel corso della Prima Guerra Mondiale.
Invece, dopo la Seconda Guerra mondiale, e certo anche in conseguenza della forza acquisita dall’URSS, Keynes aveva proposto un compromesso tra le due parti sociali con una mediazione assegnata allo Stato.
Su queste basi riprese a svilupparsi la vecchia socialdemocrazia, dopo la tragedia degli anni’30, la sconfitta di Spagna, la caduta dei Fronti Popolari.
L’intera temperie storica fin qui riscostruita in maniera incompleta e sommaria è stata avvolta nella nebbia della dimenticanza: tutto l’Occidente sembra ormai essersi arreso al risorto liberismo, alla proclamazione della deregulation dei capitali, all’affermazione del mercato quale unico arbitro, necessario e autosufficiente, escludendo che la volontà politica possa intervenire anche semplicemente per correggerlo.
A questo indirizzo di fondo che abbiamo definito “neo” o “iper” liberismo si è sommato lo straordinario sviluppo della tecnologia che ha finito, proprio per volontà politica dei settori dominanti, per favorire come mai prima i movimenti mondiali della proprietà e le operazioni finanziarie.
In questa evenienza si scopre un limite di Marx che aveva creduto in declino il processo di finanziarizzazione dell’economia in rapporto allo sviluppo della produzione.
Comunque, sia stato come sia stato, il capitalismo ha lanciato una sfida enorme al sistema mondiale e per vincerla ha provveduto anche a un “uso politico” non della memoria, ma della cancellazione della memoria.
Da quel momento, è bene ricordarlo in chiusura, è mutato anche lo stesso lessico politico.
Il termine “riforme” che era stato il simbolo di un mutamento graduale del sistema, non rivoluzionario ma almeno in senso anticapitalista, è divenuto all’opposto sinonimo di riduzione delle conquiste del lavoro, mentre la loro difesa è stata bollata come “conservazione”.
Questo mutamento di linguaggio ha avuto la sua fase di acquisizione comune in precedenza alla caduta del Muro di Berlino, dalla cui precipitosa introiezione (come nel caso della liquidazione del PCI, per restare al “caso italiano”) deriva la crepa fondamentale della sinistra europea.
Non è il caso di ricostruire tutti i passaggi che pure meriterebbero di essere approfonditi in particolare al riguardo della costruzione dell’attuale Unione Europea.
E’ possibile però affermare che da quei fatti e dall’oblio della memoria sui quali i loro protagonisti hanno fondato la loro teoria e la loro pratica politica deriva oggi la logica delle cosiddette “larghe intese” dominanti in Germania come in Italia ma ben presenti nello spirito e nella lettera della stessa sinistra di governo in Francia e nel blairismo britannico, mentre la sinistra abbarbicata all’idea di una continuità o di una rifondazione di storia e identità del movimento operaio non riusciva a uscire dalla subalternità all’esistente accoppiando addirittura, come in Italia, movimentismo e governismo (in questo non aver fatto i conti con il passato e avendo paura di recupero le proprie radici ha contato moltissimo).
In sostanza, assieme al comunismo dei “socialismi reali” si esauriva, a cavallo dei frangenti storici di fine secolo ‘900, anche il compromesso socialdemocratico nei cui confini, è bene ricordare anche questo, si erano mossi in relazione agli accordi di Yalta i partiti comunisti italiano e francese, sia pure esprimendo (in una dimensione comunque diversa fra loro) una coscienza di classe ben più accesa di quella espressa dalle forze dichiaratamente socialdemocratiche, nel Partito Socialista Francese, nell’SPD e nello stesso Labour, almeno fino ai primi anni del nuovo secolo.
Si può dunque affermare che, con il volgere del secolo che Hobsbawan ha definito “breve” di sinistra, anche della più moderata non è rimasto quasi nulla.
In questa scomparsa la perdita della memoria ha avuto un’importanza fondamentale.
Forse una ripresa potrebbe partire proprio da lì: da questa considerazione dell’uso politico della cancellazione del ricordo di ciò che è stato, insieme di tragico e di grande.

Franco Astengo

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