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LA QUESTIONE DEMOCRATICA, PRIORITA’ ITALIANA

(21 Gennaio 2014)

Attraverso queste poche righe s’intende lanciare un avvertimento rivolto, prima di tutto, a quanti sentono di appartenere ancora alla storia e alla realtà di ciò che rimane della sinistra italiana e a quei sinceri democratici che forse non stanno valutando appieno ciò che sta accadendo attorno a noi.
La questione democratica è la priorità italiana assoluta, in questa fase.
Dopo aver molto discettato e discusso negli anni scorsi si sono lasciate passare modificazioni profonde nell’agire politico, i cui nodi vengono oggi al pettine in maniera drammatica: accenno allo svuotamento nella vita dei partiti, alla personalizzazione della politica, ai sistemi elettorali che debbono far sapere “la sera stessa delle elezioni” chi ha vinto, al dileggio della vita del Parlamento e dell’insieme dei consessi elettivi compresi quelli locali, alla governabilità intesa quale bene in sé al fine da consentire – come abbiamo ben visto nello svilupparsi dei temi economico – sociali in questi ultimi anni – a “lor signori” di far apparire il sistema capitalistico come l’unica meta insuperabile, la “fine della storia”, incidendo sulla rappresentanza politica al fine di renderla uniforme ai loro desiderata: per questa via comunisti, socialisti e quant’altro avrebbero dovuto essere cancellati, e loro stessi – gli esponenti di quelle idee e di quella storia – si sono adeguati per timore di non risultare troppo graziosi con il potere costituito si sono prontamente auto cancellati.
La ricostruzione è sommaria ma sicuramente veritiera.
A essa andrebbero aggiunti gli errori di analisi via, via, compiuti su diversi terreni e ,in particolare, al riguardo dello sviluppo della vita democratica del Paese.
Oggi siamo ad un passo dal “redde rationem”.
Il Partito Democratico, sul quale in questa sede non è il caso di esprimere giudizi particolarmente approfonditi, ha scelto di dotarsi di una direzione monocratica attraverso un plebiscito: un plebiscito votato per disperazione anche da quei settori militanti che sempre erano stati convinti che, in fondo, la differenza tra il PCI e il PD fosse semplicemente “tattica”.
Cosa si pensa possa sortire da una carica monocratica realizzata attraverso un plebiscito? Nulla di diverso da qualcosa che assomiglia tremendamente a una dittatura.
Questo si è visto con grande chiarezza l’altro giorno quando i 3 milioni (gonfiati) di voti sono stati buttati, con disprezzo delle opinioni altrui, sul tavolo quasi come se si trattasse degli otto milioni di baionette di antica memoria.
E con chi, il titolare plebiscitato di questa carica monocratica dovrebbe accordarsi subito? Con l’altro titolare di carica monocratica (in questo caso quella di “padrone”) che non ha mai avuto bisogno di plebisciti, perché e sempre passato attraverso l’espressione di “dominio naturale” dell’acclamazione.
Tralasciando, a questo punto, anche la travagliata storia giudiziaria del personaggio che, in casi come questi, interessa molto relativamente.
Un paese stremato da decenni di malgoverno, con la disoccupazione alle stelle, in condizioni economiche di grandi difficoltà, il territorio che si sbriciola, interi settori sociali come i pensionati sulla soglia di sopravvivenza; un paese ubriacato da decenni di cattiva propaganda e dalla propagazione di incredibili modelli consumistici sta per celebrare il rito definitivo del sacrificio della democrazia repubblicana, cancellando l’essenza della Costituzione.
Il modello di legge elettorale uscito dall’accordo Renzi/Berlusconi appare il fatto paradigmatico di questo stato di cose: non soltanto si fa beffe nei punti essenziali della sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato la legge elettorale precedente, ma sancisce l’idea dell’oligarchia di presunti “grandi partiti” (in realtà dei loro capi da plebiscitare o acclamare) soli abilitati a disputarsi non tanto il primato, ma anche la sola presenza legittimata nell’area politica italiana.
Nel frattempo è salita l’onda, quasi naturale, di quella che banalmente è definita come “antipolitica” e sono presenti sulla scena soggetti ormai meramente razzisti, oppure populisti di grana davvero grossa e, di elezione in elezione sale il numero degli astenuti: va detto, con chiarezza, è necessario considerare ancora la percentuale dei votanti come un indice di salute della democrazia e non di adeguamento, come sostiene chi ha contribuito a scrivere questa bozza di legge elettorale, un semplice adeguamento alle più avanzate “democrazie elettorali”.
Di questo passo, di avanzata, in avanzata, ci si troverà oltre la soglia: in una democrazia “limitata”, ai margini dell’autoritarismo bello e buono.
Con l’Europa silente, altro che fiscal compact: si lascia fare in Ungheria perché no, in altra dimensione in Italia.
Cosa può importare all’Europa se per i due partiti maggiori bastano centomila voti per un seggio in Parlamento e per quelli considerati “minori” che ne vogliono due milioni?
Un paese stremato può adeguarsi, come abbiamo già visto nella storia, a questo stato di cose.
Ma soggetti politici conseguenti no.
In Italia è assente ormai una componente decisiva per riuscire a dare una battaglia vera sul tema della democrazia: una componente che si rifaccia per intero alla storia e alla realtà dell’interpretazione sociale dei comunisti e della cultura anticapitalista.
In questo senso la riflessione sui pericoli che corre la democrazia appare davvero, in questa fase, prioritaria anche rispetto a scadenze elettorali che si stanno profilando e al riguardo delle quali si sta agendo, come al solito da qualche tempo a questa parte, nella confusione dello smarrimento di autonomia e di identità.
Se si conviene, invece, come dovrebbe essere della priorità della questione democratica in Italia, allora può apparire più chiara l’ipotesi di un soggetto adeguato alla qualità dello scontro che ci attende.
Riflettere su questo e insieme attrezzarci dovrebbe essere un dovere e un impegno da assolvere subito.

Franco Astengo

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