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UN ABBOZZO DI RICOSTRUZIONE STORICA: MIRACOLO ECONOMICO ANNI’60 E LIMITI STRUTTURALI DELL’ECONOMIA ITALIANA

(11 Aprile 2014)

Nel corso degli anni, a partire dalla seconda metà del ‘900, si sono verificati veri e propri spostamenti d’asse sul piano globale al riguardo dei riferimenti relativi all’economia, alla produzione industriale, alla distribuzione del reddito, alla diffusione del welfare state e della democrazia.
In questo quadro però l’economia italiana ha mantenuto evidenti limiti strutturali sui quali vale la pena indagare anche dal punto di vista della ricostruzione storica.
Limiti già apparsi evidenti fin dalla fase della seconda ricostruzione post-bellica, preparatoria a quel “miracolo economico” che il nostro Paese visse a cavallo tra la fine degli anni’50 e, i primissimi anni del decennio successivo, in coincidenza anche con fenomeni politici di grande rilevanza sia sul piano internazionale, sia sul piano interno: dal cosiddetto “disgelo” tra i due grandi blocchi militari allora esistenti sul piano planetario, all’incubazione e formazione – in Italia – della formula del centrosinistra, con l’ingresso del PSI nell’area di governo a fianco della DC.
Ricostruire quella fase, allora, può risultare un esercizio utile anche per capire alcuni fondamentali tratti della situazione attuale.
A partire dal 1951 i successivi dodici anni furono caratterizzati da un veloce sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale.
Gli aspetti fondamentali di questa evoluzione furono essenzialmente questi:
a) Il forte sviluppo dell’industria manifatturiera, sviluppo che trasformò il Paese facendolo passare da un’economia prevalentemente agricola a un’economia prevalentemente industrializzata. Questo tipo di trasformazione risultò particolarmente accentuato nella zona del triangolo industriale Milano-Torino-Genova dove le novità manifatturiere arrivarono a contribuire per il 40% del PIL e per il quasi 45% al totale del prodotto del settore privato;
b) Il passaggio da una struttura chiusa agli scambi con l’estero a una struttura fortemente caratterizzata da un processo di integrazione con gli altri paesi industrializzati;
c) La conseguente trasformazione nella struttura degli insediamenti, nella direzione di una concentrazione sempre più elevata nelle grandi città con oltre 100.000 abitanti che nel 1955 raccoglievano il 21,6% della popolazione: nel 1968 ne raccoglievano già oltre il 28%.
Oltre a questi aspetti, del resto comuni a ogni frangente di pronunciato sviluppo industriale, il “caso italiano” ha presentato, in quel periodo, alcune caratteristiche giudicate peculiari (formative, infatti, della dizione “caso italiano” fin troppo frequentemente usata nel tempo, anche a sproposito).
Queste caratteristiche peculiari potevano essere così descritte:
1) Un progressivo “dualismo” della struttura produttiva, che nel contempo registrava la nascita e la crescita di imprese tecnologicamente avanzate al livello delle industrie più progredite nei paesi europei e il permanere di piccole strutture arretrate, caratterizzate da bassa produttività e inefficienza;
2) La cosiddetta “distorsione del consumismo” consistente nel fatto che, mentre alcuni consumi privati anche di genere non necessario (motorizzazione privata, elettrodomestici, televisori) si erano andati sviluppando molto velocemente altrettanto non era avvenuto nel settore dei consumi pubblici, anche nei casi che avrebbero dovuto essere riconosciuti come assolutamente prioritari: istruzione, sanità, casa;
3) Si allargava, intanto, una distanza profonda fra il grado di sviluppo delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali, nonostante il flusso della spesa pubblica fosse orientato prevalentemente verso il Sud.
Questi tre aspetti, appena elencati, potevano da subito essere individuati come elementi negativi eliminandoli attraverso una corretta impostazione della politica economica.
Attorno a questi elementi si sviluppò all’epoca un importante dibattito politico che, alla fine, sortì però un esito sostanzialmente negativo : la politica di pianificazione che il PSI avrebbe voluto portare all’interno della formazione del centrosinistra fu sconfitta avendo suscitato il timore, nella DC, di andare a colpire sacche di clientelismo attraverso le quali i democristiani attingevano voti (la politica di “piano” fu sconfitta anche utilizzando metodi non particolarmente chiari, come accadde nell’estate del 1964 con il famoso “tintinnar di sciabole” del Piano Solo) mentre nel PCI, ancor prima della scomparsa di Togliatti, si aprì un inedito scontro politico tra la linea di Amendola che considerava il capitalismo italiano come “straccione” e, quindi, in una qualche misura da sostenere per favorirne la modernizzazione e la linea della sinistra ingraiana, espressa in particolare nelle due relazioni svolte da Trentin e Magri al convegno dell’Istituto Gramsci del 1962, che considerava invece l’opera di modernizzazione del capitalismo italiano già compiuta e, quindi, insisteva sulla necessità di contrapporvi un disegno compiutamente alternativo: il dibattito nel partito comunista si attestò alla fine su di un punto di mediazione di tipo politicista sboccando alla fine in una proposta quella del “compromesso storico” che poneva il tema del governo con la DC tutta intera quale prospettiva decisiva per l’avvenire della sinistra e del movimento operaio.
Intanto la ripresa delle esportazioni aveva rappresentato il punto d’appoggio sul quale era stata resa possibile una rapida industrializzazione, al termine di una faticosa e molto conflittuale fase di riconversione dell’industria bellica, e di una simultanea apertura agli scambi con l’estero.
Proprio la ripresa delle esportazioni risultò, in quel periodo, fattore di squilibrio se non visibile immediatamente, almeno nel medio periodo.
Fra il 1951 e il 1962, i settori più dinamici sono stati quelli delle industrie metallurgiche, meccaniche e chimiche; gli stessi settori sono risultati i più brillanti nell’esportazione con tassi compresi fra il 14 e il 17%, a prezzi correnti, quando il tasso di accrescimento medio delle esportazioni manifatturiere si aggirava sull’11,5%.
All’estremo opposto i settori che svilupparono di meno le esportazioni furono quelli nei quali l’Italia era risultata storicamente più forte: alimentare, tessile, legno, i cui tassi di sviluppo non superarono il 5,6%.
Questo modellarsi della produzione interna sulla struttura della domanda estera rappresentava una scelta obbligata, una volta presa la via dell’apertura dei mercati.
Se l’industria italiana avesse insistito nella produzione di beni tradizionali, tessili o alimentari, lo sviluppo delle esportazioni sarebbe stato assai magro (analogo ragionamento fu sviluppato circa vent’anni dopo, con lo spostamento dell’asse di riferimento della produzione destinata a essere esportata verso la piccola e media impresa allocata prevalentemente nel Nord – Est all’insegna, per riassumere sbrigativamente del cosiddetto “Made in Italy”).
All’epoca l’unico modo che l’Italia aveva per sviluppare un flusso crescente di esportazioni era quello di modellare le proprie esportazioni (e quindi la propria produzione) secondo la domanda dei paesi europei industrializzati, i soli che potessero offrire ampie e crescenti possibilità di sbocco.
La struttura della produzione italiana si trovava così forzata a seguire l’orientamento che le imponeva la domanda proveniente dai paesi europei in fase di avanzata industrializzazione.
Poiché la domanda proveniente dai paesi più avanzati non poteva altro che essere una domanda tipica di società caratterizzate da livelli di reddito ben più elevati, e quindi orientate largamente verso i consumi di massa e di lusso, anche l’economia italiana si trovò costretta a fare largo spazio alla produzione di beni di consumo di massa o addirittura di lusso, ben che peraltro risultavano del tutto fuori fase rispetto ai livelli modesti del reddito italiano.
Su questo punto si caratterizzò un elemento di squilibrio che, successivamente e fino ai giorni nostri ha caratterizzato l’andamento economico del Paese, nel senso di un allargamento nella forbice delle diseguaglianze sociali sempre più allargata, nell’impossibilità del settore pubblico destinato ai beni collettivi di colmarla o, almeno, di attenuarla. Con esiti disastrosi in fasi recessive come quella nella quale stiamo vivendo ormai da diversi anni.
L’altro effetto negativo di questa distorsione verificatasi nell’accentuazione della vocazione esportatrice di determinati settori industriali fu quello di segnare nettamente una “dualismo” nella realtà produttiva: da un lato un settore comprendente industria meccanica, chimica e in un momento successivo anche l’abbigliamento e le calzature caratterizzato da livelli di produttività assai elevati e dall’adozione di tecnologie molto avanzate e dall’altro settori definiti “stagnanti” comprendete le industrie tessili e alimentari, l’industria delle costruzioni e il commercio al dettaglio.
Un dualismo mantenuto anche dal tipo di intervento pubblico in economia sostenuto dalla presenza dell’IRI e dalla mancata realizzazione di un progetto di uscita dalla sudditanza dalla politica energetica incentrata sul petrolio governato dalla “sette sorelle” attraverso l’ENI, mutilato a quel punto dall’ancora misteriosa scomparsa di Enrico Mattei.
L’Italia pagava così il prezzo alla sudditanza occidentale e a un ingresso del tutto subalterno ai meccanismi dell’Unione Europea, fin dai tempi della formazione della CECA all’interno della quale il nostro Paese risultava principalmente come fornitore di mano d’opera a basso costo.
Come scrive Augusto Graziani nel suo “L’economia italiana dal 1945 ad oggi”, ne sortì l’effetto che nei settori nei quali la produttività cresceva velocemente si ebbero forti guadagni e una sostanziale intensificazione dello sfruttamento, con bassi aumenti di occupazione.
Esattamente al contrario avvenne nei settori stagnati che lavoravano prevalentemente per il mercato interno dove l’assenza di motivazioni all’efficienza induceva le imprese a evitare investimenti intensi, mentre i settori delle costruzioni, del commercio, e del pubblico impiego rappresentavano i grandi bacini di contenimento della disoccupazione provocata dall’espulsione di milioni di addetti nell’agricoltura.
Fra il 1951 e il 1963 l’occupazione dipendente crebbe quasi dell’84% nel settore delle costruzioni, del 100% nel commercio, ma soltanto del 40% nell’industria manifatturiera.
L’esito sul piano sociale dell’evidenziarsi di questo dualismo fu molto importante e significativo anche per l’avvenire: il fatto che i settori più dinamici dell’industria assorbissero lavoro solo in misura modesta, e che la stragrande maggioranza dei lavoratori che abbandonavano l’agricoltura fosse costretta trovare occupazione precaria nei settori meno dinamici, contribuì a ridurre la forza sindacale e di conseguenza a frenare l’aumento die salari.
Sarebbe ovviamente sbagliato affermare che, nel decennio della costruzione del “miracolo economico” sia mancata in Italia un’autentica azione rivendicativa da parte delle classi lavoratrici, ma è certo che per molti anni tale azione fu sommamente debole e questo fatto ha avuto un riflesso molto importante sull’insieme del prosieguo della vicenda rivendicativa così com’è stata portata avanti dal sindacato italiano nei successivi periodi.
Fin dagli ultimi anni del miracolo economico, quando l’espansione era ancora in atto, emerse già la consapevolezza che il veloce sviluppo del decennio precedente, se pure aveva risolto alcuni problemi tra i più impellenti del paese (elettrificazione, infrastrutture, case popolari, istruzione di base, aggressione alle più evidenti sacche di povertà), altri ne aveva lasciati totalmente insoluti, se non addirittura aggravati e che si trovano ancora alla base dai limiti di fondo dell’economia italiana, pur nel mutato quadro tecnologico e di riferimenti di “vincolo esterno” come realizzatosi nei decenni successivi:
a) Dualismo della struttura industriale che ha portato con il soccombere della parte a quel tempo più dinamica (siderurgia, chimica, elettronica);
b) Distorsione nei consumi;
c) Distacco tra Nord e Sud;
d) Inefficienza crescente della spesa pubblica.
Il quadro dello sviluppo economico italiano di quel periodo non sarebbe completo se non si tentasse un minimo di approfondimento su di un punto debole che, oggi come oggi, si trova proprio al centro del dibattito: l’inefficienza progressiva della spesa pubblica.
Alla base di questo fenomeno risiedevano due elementi: l’esodo agricolo e il conseguente flusso migratorio dalle regioni meridionali.
L’inadeguato sviluppo industriale, specie nel Mezzogiorno, non consentiva di assorbire manodopera uscita dall’agricoltura in attività direttamente produttive.
Il settore che più si prestava ad assorbire questa disoccupazione potenziale era il settore terziario, sia privato (commercio) che pubblico.
L’espansione del pubblico impiego è stato uno dei modi che, di fatto, sono stati impiegati per alleviare la disoccupazione, specie meridionale, rappresentando una sorta di attività sostitutiva dell’investimento diretto.
Eguale esito di complessiva inefficienza ebbero le politiche riguardanti l’assetto urbano e le abitazioni.
Una delle caratteristiche comuni di tutte le Regioni italiane a partire dal periodo preso in esame da questo lavoro, sia al Nord sia al Sud, fu rappresentato dall’accrescimento delle concentrazioni urbane.
La crescita tumultuosa degli insediamenti urbani recava con sé una domanda crescente di case di abitazione.
Nonostante i ripetuti interventi nel settore dell’edilizia popolare a partire dai piani Fanfani-Ina case, si può dire che il grosso dell’edilizia residenziale sia stato costruito dal settore privato.
In tutto il decennio dell’espansione, tra il 1951 e il 1961, la percentuale d’investimento pubblico rispetto al totale dell’investimento in edilizia raggiunse soltanto il 15,5%, cadendo precipitosamente negli anni immediatamente successivi fino al livello, del tutto trascurabile nel 1969, del 5,8%.
Molte ragioni avrebbero dovuto indurre a controllare strettamente l’industria delle costruzioni sotto il profilo sociale, in quanto industria produttrice di un bene di prima necessità anche sotto il profilo culturale, in quanto i centri storici costituiscono un patrimonio collettivo insostituibile.
Viceversa il controllo dell’industria delle costruzioni fu affidato a un complesso di disposizioni amministrative, gestite principalmente da autorità locali sottoposte a pressioni economiche, sociali, politiche fino a sfociare nella “questione morale”, in particolare a partire dai successivi anni’80.
In realtà il difetto stava nel sistema, che imponeva alle amministrazioni locali un rigore e una capacità di resistere ai ricatti elettorali assai superiore a quella di cui esse, generalmente, erano dotate.
L’incentivo all’addensamento edilizio, allo sfruttamento di ogni pezzo di suolo, alla distruzione degli edifici storici, alla soppressione degli spazi verdi, alla speculazione ininterrotta sulle aree fabbricabili, nasceva evidentemente dal prezzo sempre elevato e sempre crescente dei suoli, e ogni tentativo di porre rimedio a questo stato di cose, come nel caso della legge urbanistica presentata dal ministro democristiano (poi socialdemocratico) Fiorentino Sullo immediatamente bocciato.
Tutto questo ebbe effetti negativi sull’insieme dei servizi destinati alla struttura urbana: dai trasporti, alla sanità ai servizi sociali, progressivamente privati di risorse per la voracità tutta speculativa del settore edilizio.
Nella sostanza da quella fase risultarono favorite l’industria delle costruzioni, assistita anche da una politica creditizia particolarmente generosa e che poteva contare su profitti cospicui e sicuri e l’industria automobilistica, ma ne dovettero subire gli intralci tutte le altre attività produttive.
Emerge da questo quadro, allora, l’insieme dei limiti profondi già presenti nell’economia italiana fin dagli anni dello sviluppo più forte: dualismo tra i diversi settori, distacco tra Nord e Sud, bassi salari e distorsione nel consumo, disordine urbano, inefficienza della spesa pubblica.
Tutto è cambiato attorno a noi, sul piano della tecnologia, dei riferimenti internazionali, del quadro possibile di sviluppo economico e tutto è cambiato nella struttura produttiva italiana, in particolare per responsabilità delle privatizzazioni compiute negli anni’90 fino alla dismissione dell’IRI, ma quegli elementi di sofferenza del sistema sono ancora presenti e ci fanno affermare come, anche per il futuro, rappresentino elementi di grande difficoltà che soltanto un diverso approccio sul piano politico potrà affrontare seriamente.
E’ certo che l’approccio iper-liberista e di ulteriore riduzione nel rapporto tra politica e risposta ai bisogni sociali non è quello adatto: per questo servirebbe progettare un’alternativa di sistema me, al momento, all’interno del quadro politico italiano non si ravvedono soggetti seriamente orientati in quella direzione.

Nel corso di questo lavoro sono stati consultati i seguenti testi:
Augusto Graziani: L’economia italiana dal 1945 a oggi (Il Mulino, Bologna, 1989)
Massimo L. Salvadori: Storia dell’Età contemporanea (Loescher, Torino, 1976)
Giovanni Bruno e Luciano Segreto: Dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica alle privatizzazioni degli anni’90 in “Storia dell’Italia repubblicana” vol. VIII (Einaudi, Torino 1995).

Franco Astengo

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