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QUARANT’ANNI FA IL REFERENDUM SUL DIVORZIO: UNA PAGINA STORICA

Con un commento di Franco Astengo

(7 Maggio 2014)

luigi

Luigi Pintor

13 Maggio 1974, un lunedì, si chiudono le urne aperte il giorno precedente 12 Maggio: l’Italia ha votato per il primo referendum abrogativo nella storia repubblicana. Si tratta di decidere se conservare o meno la legge sul divorzio introdotta nel 1971 grazie all’iniziativa di due parlamentari laici, il socialista Fortuna e il liberale Baslini e approvata dal parlamento con una maggioranza comprendente tutti i partiti dal gruppo del Manifesto al PLI, contrari soltanto DC e MSI.
La legge sul divorzio, lungamente attesa e segno evidente dell’avvio di un processo di modernizzazione nei costumi, era stata messa in discussione dall’iniziativa di gruppi cattolici oltranzisti che avevano raccolto le firme proprio per arrivare alla consultazione elettorale.
Ricostruendo così, con esattezza quella vicenda, si comincia a sfatare un mito: quello del referendum voluto dai radicali, che sicuramente rappresentarono un piccolo gruppo molto vivace a difesa della legge, ma che non ne furono i promotori, non disponendo all’epoca neppure di una rappresentanza parlamentare.
Il risultato di quella consultazione con il 69% di sì alla conservazione della legge dimostrò, peraltro, come il cosiddetto “paese reale” si collocasse ben oltre nella modernità della sua cultura e dei suoi costumi rispetto al quadro istituzionale: erano state forti, ad esempio le incertezze del gruppo dirigente del PCI ad accettare lo scontro referendario voluto dai cattolici, anzi si può dire che le elezioni anticipate svoltesi per la prima volta nel 1972 fossero state determinate anche dalla volontà dello stesso partito comunista di prendere tempo, per arrivare a una mediazione su questo argomento del divorzio che appariva come scottante per di più in un’epoca dove stava maturando, la strategia berlingueriana del “compromesso storico”.
Fu la segreteria democristiana, retta da Fanfani, a volere lo scontro diretto nella convinzione di riuscire a mobilitare la parte più oscura e conservatrice del Paese, quella che nel 1948 aveva dato alla DC la più grande vittoria della sua storia, anche grazie ai Comitati Civici di Gedda, alle Madonne Pellegrini di Pio XII, al grido dall’allarme sul “pericolo rosso”.
Fanfani, però si trovò a fianco soltanto il MSI di Almirante e non comprese per tempo le grandi trasformazioni verificatesi nella vita culturale e sociale del Paese, in seguito alla fase del “miracolo economico” e poi della ventata del’68, rivelatasi alla fine più importante su questo terreno del costume e dei diritti civili che non su quello più propriamente politico.
Si trattò di una grande vittoria, la prima, di uno schieramento progressista nato più dal basso, nella realtà sociale che non dai vertici dei partiti: ma quelli erano tempi in cui i vertici dei partiti sapevano catalizzare e aggregare il consenso, e il risultato, sul piano politico, fu sicuramente quello di uno spostamento a sinistra che determinò anche, 12 mesi dopo, il risultato delle amministrative del 15 giugno 1975.
Si stavano rompendo le barriere e si stava, finalmente, secolarizzando la società italiana: un balzo in avanti dal punto di vista della vita quotidiana, della libertà di pensiero e di comportamento cui diedero un forte contributo anche i cosiddetti “cattolici del dissenso”, la CISL dell’unità sindacale, le ACLI della scelta socialista di Vallombrosa.
Un processo di secolarizzazione della società cui non corrispose, però, la proposta di un’alternativa maggioritaria da parte della politica, dello schieramento di sinistra: la linea del compromesso storico, l’esplosione del terrorismo, la crisi economica derivante dallo “shock” petrolifero dell’inverno 73-74, le difficoltà d’aggregazione di una nuova sinistra, la retrocessione dal progetto di unità sindacale furono i fattori principali per i quali quella grande spinta venne meno e si arrivò, due anni dopo, alla triste soluzione del monocolore democristiano di Andreotti, con l’astensione di PCI e PSI: seguì, poi, il rapimento Moro e così il processo di secolarizzazione del paese prese più la strada del documento di Rinascita Nazionale di Gelli (1975) che quella dell’alternativa di governo da parte delle sinistre.
Eppure quella del 13 Maggio 1974 fu una grande vittoria della morale laica e della politica progressista, e come tale va ricordata.
Nell’occasione allora è il caso , per comprendere meglio il clima dell’epoca, di ripubblicare l’editoriale scritto da Luigi Pintor per il Manifesto il martedì 14 Maggio per commentare il risultato.
Il Manifesto, nel suo “sommarione” caratteristico dell’epoca aveva titolato:
E’ la più grande vittoria contro la DC e la destra dalla fine della guerra: 59% no, 41% sì. Vuol dire che l’Italia è cambiata per la forza ideale delle lotte di questi anni. Fanfani ne esce a pezzi. Noi lo avevamo detto. Ora lo dicono le masse e chiamano la sinistra unita a proporre al paese un nuovo orizzonte.
Di seguito l’articolo di Pintor.
Franco Astengo

IL 18 APRILE ROVESCIATO di Luigi Pintor
Tutta la nostra gratitudine all’on. Fanfani, uomo di un oscuro passato, che con il referendum ha permesso alla grande maggioranza del popolo di affermare e dimostrare che l’Italia è cambiata: le grandi lotte operaie e di massa di questi anni non sono state un sussulto di avanguardia, ma l’espressione e la molla di una crescita politica e ideale che ha investito tutta la società.
Il 12 Maggio è più di una vittoria: è un trionfo per dimensioni e qualità, una miniera d’indicazioni preziose per l’avvenire.
Nonostante il pessimismo o l’agnosticismo imperante anche tra i gruppi dirigenti democratici, lo spostamento di voti contro la DC e il fronte conservatore non ha l’eguale in nessuna consultazione dalla fine della guerra. La DC e i fascisti hanno perso almeno un elettore su sei, il blocco d’ordine esce non solo sconfitto ma disgregato , e per ora senza possibilità di rivincita.
Malgrado molte valutazioni correnti, non esistono nel nostro paese vandee inespugnabili. Il Mezzogiorno non è come lo descrivono i reazionari e gli opportunisti, le sue masse popolari e si suoi strati intellettuali sono più avanzati delle loro espressioni politiche. Il mondo cattolico è una realtà infinitamente più ricca dei suoi vescovi reazionari e dell’istituzione chiesa, che esce umiliata anche su scala internazionale. Salvo oasi limitate c’è uno spostamento democratico, la maggioranza dei “no” accomuna tutto il paese.
Non è solo un voto progressista, democratico-antifascista e laico. Il voto operaio e popolare, il voto di una sinistra che è tanta parte della vittoria, è omogeneo e compatto, non scalfito dalle insidie avversarie, ma invece capace di trascinare con sé importanti strati di piccola e media borghesia, al di là delle incertezze e dei riflessi anticomunisti dei partiti intermedi.
Non è separabile la questione specifica della famiglia dalla cornica politica generale della battaglia. Ci si è schierati in campo aperto attorno ad una grande scelta ideale, in sé più impegnativa di qualsiasi altra consultazione politica tradizionale: una visione della vita privata che è parte integrante di una visione più generale dei rapporti tra gli uomini e dell’ordine sociale. Ha vinto tutto quello che è stato seminato i n questi anni contro il lavoro sfruttato e subordinato, contro la piramide gerarchica, contro lo Stato autoritario e corruttore: tutto quello che è stato seminato come aspirazione generalizzata all’autogoverno, alla responsabilità di scelta, all’autonomia di lotta.
Su queste convinzioni, non certo su uno spirito di avventura e tanto meno su illusioni elettorali, noi abbiamo fondato l’idea che bisognava raccogliere la sfida dell’avversario e ritorcerla vittoriosamente contro di esso, ma tutta la nostra politica e prospettiva da quando esistiamo.
Non lo diciamo ora dopo la vittoria che sentiamo perciò nostra e della sinistra unita, ma lo abbiamo detto da anni e lo abbiamo ripetuto fino nell’ultimo comizio. Le masse sono più avanti, i rapporti di forza più favorevoli, di quanto il quadro politico-istituzionale e la strategia della sinistra non rispecchino.
Per contro la crisi del capitalismo e del sistema di potere democristiano è troppo profonda per poter essere rimontata con dei trucchi, provocazioni o plebisciti che siano, cioè con una riunificazione viscerale attorno a quei falsi valori che proprio da questa crisi sono travolti.
Per tutte queste ragioni il voto del 12 Maggio chiama tutta la sinistra a consolidare la sua unità su posizioni avanzate, per rispondere a una domanda di massa oggi esplicita. C’è la prova che, battendosi in questo modo, non si restringono ma si allargano le alleanze, non si chiudono ma si approfondiscono le contraddizioni dell’avversario; e che ogni battaglia che sia insieme di classe e di libertà, di attualità politica e di prospettiva strategica trova consenso e vittoria. Abbassare il tiro non si può neanche se lo si vuole.
L’on. Fanfani esce dallo scontro molto più che sconfitto, ne esce ridicolizzato molto peggio di De Gasperi nel’53. Da posizioni così immeschinite, non può tentare apertamente una controffensiva, né cambiare cavallo per scendere a compromessi. Può solo prendere tempo, e neppur lui, ma il suo partito e il fronte padronale, per cercare nuove armi, con le quali riversare la crisi economica e il vuoto di potere sul movimento operaio e sul paese. E’ questo tempo che bisogna negare a lui e al suo partito, come glielo ha negato ieri una maggioranza schiacciante e beffardamente “irreversibile”.

Franco Astengo

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