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(9 Novembre 2023)
Akiva Orr (al centro), operaio marittimo nei primi anni ’50
Da https://www.marxists.org/history/etol/newspape/isr-iso/2002/no23/machover-orr.html. Versione pubblicata in The Other Israel: The Radical Case Against Zionism, a cura di Arie Bober, Garden City, New York: Anchor Books, 1972. Traduzione dall’inglese di Rostrum.
Il carattere di classe della società israeliana è un testo scritto a quattro mani da due internazionalisti ebrei israeliani membri dell’Organizzazione Socialista Israeliana, meglio nota come Matzpen, attiva tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Pubblicato per la prima volta nel 1969, rappresenta un tentativo di analisi marxista delle caratteristiche della classe operaia in Israele. Con i suoi eventuali limiti e sebbene nel frattempo diversi cambiamenti siano intervenuti nella società israeliana e a livello internazionalea, questo articolo rimane un importante punto di partenza per qualsiasi discussione sulle dinamiche della società israeliana.
Al centro della riflessione degli autori c’è la constatazione che la società israeliana beneficia di una quota di sovraprofitto imperialistico elargita da alcune potenze dell’imperialismo affinché lo Stato ebraico possa svolgere in Medio Oriente un ruolo di gendarme in funzione degli interessi di queste stesse potenze. Queste briciole del sovraprofitto imperialistico – ormai sempre più da sommare al plusvalore direttamente estorto dal capitale israeliano in patria e altrove – rappresentano il fondamento dell’esistenza di un’estesa aristocrazia operaia materialmente cointeressata al mantenimento della propria condizione di relativo privilegio e dunque alla conservazione dell’ideologia sionista della borghesia israeliana, che questi strati privilegiati trasmettono al resto della classe operaia ebraica di Israele.
Individuando materialisticamente quali potenti forze ostacolano la maturazione di una coscienza di classe nel proletariato ebraico israeliano, dunque senza “nascondere la testa sotto la sabbia” e senza “scambiare i propri desideri per realtà”, gli autori mettono in pratica esattamente l’«analisi concreta della situazione concreta» (che troppo spesso è una non-analisi di una realtà la cui “concretezza” è puramente ideologica) e colgono le “precise ragioni materiali” alla base di questo stato di cose. Tuttavia – aspetto che irriterà non poco gli pseudo-internazionalisti – proprio quest’analisi concreta della situazione concreta, invece di indurre gli autori ad abbandonare una prospettiva internazionalista in Israele-Palestina per passare armi e bagagli nel campo del nazionalismo palestinese, li ha rafforzati nella loro determinazione a lavorare politicamente alla realizzazione di questa prospettiva, pienamente consapevoli delle sue difficoltà oggettive.
Per Machover e Orr, in effetti, «una volta terminato» – in conseguenza di una crisi capitalistica tale da mettere in moto rivoluzionario il proletariato del Medio Oriente – il ruolo di gendarme dell’imperialismo da parte di Israele «e i privilegi ad esso associati, il regime sionista, che dipende da questi privilegi, sarebbe aperto a sfide di massa dall’interno di Israele stesso». Ovviamente, ciò «non significa che i rivoluzionari all’interno di Israele non possano fare nulla, se non sedersi e aspettare l’emergere di condizioni esterne oggettive sulle quali non hanno alcuna influenza» ma che «il compito principale dei rivoluzionari che accettano questa valutazione è quello di indirizzare il loro lavoro verso quegli strati della popolazione israeliana che sono immediatamente colpiti dai risultati politici del sionismo e che devono pagarne le conseguenze».
Si potrà eccepire che i risultati del loro impegno siano stati ben magri, dal 1969 ad oggi, ma c’è da tener conto della fase storica che il capitalismo mondiale ha attraversato da allora – con le sue inevitabili ricadute sulla lotta di classe a livello planetario – nonché delle molteplici forze che a tale prospettiva si opponevano – e si oppongono – sia nel campo dichiaratamente borghese come in quello camuffato da “sinistra rivoluzionaria”, le cui parole d’ordine nazionaliste borghesi non hanno dato ad oggi maggiori risultati nella risoluzione della “questione palestinese”, se non nel senso di un accentuato incancrenimento imperialistico della questione stessa e in un inasprimento delle difficoltà per una prospettiva internazionalista nell’area.
Per i marxisti l’internazionalismo non è una “formula” o uno “schema precostituito”, buono “per tutte le stagioni”, ma un principio scientifico e un piano di lavoro; non è un semplice “desiderio” ma una prospettiva di lotta i cui risultati possono concretizzarsi solo in determinate congiunture storiche e con l’indispensabile concorso di un difficile e prolungato lavoro politico rivoluzionario. Abbandonare una prospettiva di lotta che rappresenta la stessa ragion d’essere del comunismo rivoluzionario perché la situazione concreta non la conforta nell’immediato non è “analisi realistica”, è il classico, comodo alibi del più puro opportunismo. In realtà è esattamente per questo genere di opportunisti che l’internazionalismo rappresenta soltanto una “formula”. Una formula che peraltro non può essere “buona per tutte le stagioni” ma soltanto per i tempi tranquilli. Una formula da strombazzare ed ostentare quando “fa chic e non impegna”… Ma quando la provvidenziale “situazione concreta” chiama a rapporto… ecco risuonare la liberatoria campana a martello dell’universale “tana libera tutti!”. E allora… sull’attenti all’appello dell’ideologia borghese, avanti e marsch! Appena la situazione dà segno di complicarsi, nel cesso l’internazionalismo, che si trasforma in un pio desiderio, in una bella utopia. Come ci ricorda Amadeo Bordiga, a proposito di chi pretende di «porre i principi del socialismo su altra base che quella della realtà che ci circonda, per demolirne così la potenzialità sovvertitrice»b, era un “internazionalista” di tal fatta anche il Mussolini interventista del 1914.
La società israeliana, come tutte le altre società di classe, contiene interessi sociali contrastanti, interessi che danno origine ad un conflitto di classe interno. Tuttavia, la società israeliana nel suo complesso è stata impegnata, negli ultimi 50 anni, in un continuo conflitto esterno: il conflitto tra il sionismo e il mondo arabo, in particolare i palestinesi. Quale di questi due conflitti è dominante e quale subordinato? Qual è la natura di questa subordinazione e qual è la sua dinamica? Sono domande a cui tutti coloro che sono coinvolti nella società e nella politica israeliana devono rispondere.
Per i rivoluzionari all’interno di Israele queste domande non sono accademiche. Le risposte date determinano la strategia della lotta rivoluzionaria. Coloro che considerano il conflitto di classe interno come quello dominante concentrano i loro sforzi sulla classe operaia israeliana e attribuiscono un’importanza secondaria alla lotta contro il carattere colonizzatore, nazionalista e discriminatorio dello Stato sionista. Questa posizione vede il conflitto esterno come derivato da quello interno. Inoltre, in questa prospettiva, le dinamiche interne della società israeliana porteranno ad una rivoluzione in Israele, senza che ciò dipenda necessariamente da una rivoluzione sociale nel mondo arabo.
L’esperienza dei Paesi capitalisti classici ha spesso dimostrato che i conflitti e gli interessi di classe interni dominano i conflitti e gli interessi esterni. Tuttavia, in alcuni casi specifici questa teoria non regge. Ad esempio, in un Paese colonizzato sotto il dominio diretto di una potenza straniera, le dinamiche della società colonizzata non possono essere dedotte semplicemente dai conflitti interni di quella società, poiché il conflitto con la potenza colonizzatrice è dominante. Israele non è né un classico Paese capitalista né una classica colonia. Le sue caratteristiche economiche, sociali e politiche sono talmente uniche che qualsiasi tentativo di analizzarle attraverso l’applicazione di teorie o analogie sviluppate per società diverse risulterebbe una caricatura. L’analisi deve basarsi piuttosto sulle caratteristiche specifiche e sulla storia specifica della società israeliana.
La prima caratteristica fondamentale della società israeliana è che la maggioranza della popolazione è costituita da immigrati o da figli di immigrati. Nel 1968, la popolazione ebraica adulta (cioè di età superiore ai 15 anni) di Israele contava 1.689.286 persone, di cui solo il 24% era nato in Israele e solo il 4% da genitori nati in Israele[1]. La società israeliana di oggi è ancora una comunità di immigrati e presenta molte caratteristiche tipiche di tale comunità. In una società di questo tipo, le classi stesse, per non parlare della coscienza di classe, sono ancora in una fase formativa. L’immigrazione produce l’esperienza e la mentalità dell’aver “voltato pagina nella vita”. Di norma, l’immigrato ha cambiato occupazione, ruolo sociale e classe. Nel caso di Israele, la maggior parte degli immigrati proviene dalla piccola borghesia, sia che provengano da aree urbane dell’Europa centrale e orientale, sia che provengano da città del mondo arabo. Il nuovo immigrato non vede l’ora di cambiare il proprio posto nella società. Inoltre, vede che tutte le posizioni vantaggiose nella nuova società sono occupate da immigrati precedenti e questo accresce la sua ambizione di salire la scala sociale attraverso un lungo e duro lavoro. L’immigrato considera l’attuale ruolo sociale che occupa come transitorio. Suo padre era raramente un lavoratore e lui stesso vive nella speranza di diventare un giorno indipendente, o almeno che suo figlio sia in grado di farlo. La coscienza e l’orgoglio di classe che esistono nei proletari britannici e francesi non esistono in Israele e appaiono strani a molti lavoratori israeliani. Un lavoratore inglese, se gli si chiede delle sue origini, risponderà quasi automaticamente in termini di classe (“sono della classe operaia”) e definirà i suoi atteggiamenti verso le altre persone in termini di concetti di classe simili; un lavoratore israeliano, invece, userà categorie etniche e considererà sé stesso e gli altri in termini di “polacco”, “orientale” e così via. La maggior parte delle persone in Israele considera ancora la propria posizione sociale in termini di origini etniche e geografiche, e tale coscienza sociale è ovviamente una barriera che impedisce alla classe operaia di svolgere un ruolo indipendente, per non parlare di quello rivoluzionario che mira ad una trasformazione totale della società.
Nessuna classe operaia può svolgere un ruolo rivoluzionario nella società se la maggioranza dei suoi membri desidera migliorare la propria situazione individualmente, nel quadro della società esistente, uscendo dai ranghi della propria classe. Questa verità si rafforza quando il proletariato non si riconosce come classe sociale stabile con propri interessi di gruppo ed un proprio sistema di valori in conflitto con quelli dell’ordine sociale esistente. L’impulso verso una trasformazione totale della società non nasce facilmente in una comunità di immigrati che hanno appena cambiato il loro status sociale e politico e che vivono ancora in condizioni di alta mobilità sociale. Questo non significa che la classe operaia israeliana non possa diventare una forza rivoluzionaria in futuro; implica semplicemente che oggi l’attività politica all’interno di questa classe non può partire dagli stessi presupposti e dalle stesse aspettative che valgono in un Paese capitalista classico.
Se l’unicità della classe operaia israeliana consistesse solo nel fatto che è composta principalmente da immigrati, allora si potrebbe ancora ipotizzare che con il tempo e la paziente propaganda socialista essa inizierebbe a svolgere un ruolo indipendente, possibilmente rivoluzionario. In una situazione del genere, il paziente lavoro educativo non sarebbe molto diverso da quello svolto altrove. Tuttavia, la società israeliana non è semplicemente una società di immigrati, ma altresì di coloni. Questa società, compresa la sua classe operaia, è stata plasmata attraverso un processo di colonizzazione. Questo processo, che dura da 80 anni, non si è svolto nel vuoto, ma in un Paese popolato da un altro popolo. Il conflitto permanente tra la società dei coloni e gli arabi palestinesi indigeni e sfollati non è mai cessato ed ha plasmato la struttura stessa della sociologia, della politica e dell’economia israeliana. La seconda generazione di leader israeliani ne è pienamente consapevole. In un famoso discorso in occasione della sepoltura di Roy Rutberg, un membro di un kibbutz ucciso dai guerriglieri palestinesi nel 1956, il generale Dayan dichiarò:
Siamo una generazione di coloni, e senza l’elmetto d’acciaio e il cannone non possiamo piantare un albero o costruire una casa. Non dobbiamo tirarci indietro di fronte all’odio che infiamma centinaia di migliaia di arabi intorno a noi. Non giriamo la testa dall’altra parte lasciando che la nostra mano tremi. È il destino della nostra generazione, l’alternativa della nostra vita, essere preparati e armati, forti e duri, per evitare che la spada cada dal nostro pugno e che la nostra vita cessi.[2]
Questa chiara valutazione si pone in netto contrasto con la mitologia ufficiale sionista sul “far fiorire il deserto”, e Dayan lo mette in evidenza continuando a dire che i palestinesi avevano un’ottima causa, poiché “i loro campi sono coltivati da noi davanti ai loro occhi”.
Quando Marx fece la famosa affermazione che «un popolo che ne opprime un altro non può essere libero» non intendeva ciò in termini di mero giudizio morale. Intendeva anche dire che in una società i cui governanti opprimono un altro popolo, la classe sfruttata che non si oppone attivamente a questa oppressione ne diventa inevitabilmente complice. Anche quando questa classe non trae alcun vantaggio diretto da questa oppressione, diventa suscettibile all’illusione di condividere un interesse comune con i propri governanti nel perpetuare questa oppressione. Una classe di questo tipo tende a stare dietro ai suoi governanti piuttosto che sfidare il loro dominio. Ciò, inoltre, è ancora più vero quando l’oppressione non avviene in un Paese lontano, ma “in casa”, e quando l’oppressione e l’espropriazione nazionale costituiscono le condizioni stesse per la nascita e l’esistenza della società oppressiva. Le organizzazioni rivoluzionarie hanno operato all’interno della comunità ebraica in Palestina fin dagli anni Venti e hanno accumulato una notevole esperienza in questa attività pratica; questa esperienza fornisce una chiara prova della validità dell’affermazione che «un popolo che ne opprime un altro non può essere libero». Nel contesto della società israeliana, ciò significa che finché il sionismo sarà politicamente e ideologicamente dominante all’interno di questa società e costituirà il quadro politico accettato, non ci sarà alcuna possibilità che la classe operaia israeliana agisca come classe rivoluzionaria. L’esperienza di 50 anni non contiene un solo esempio di mobilitazione dei lavoratori israeliani su questioni materiali o sindacali per sfidare il regime israeliano stesso; è impossibile mobilitare anche solo una minoranza del proletariato in questo modo. Al contrario, i lavoratori israeliani hanno quasi sempre anteposto la loro lealtà nazionale a quella di classe. Anche se questo potrebbe cambiare in futuro, ciò non toglie che dobbiamo analizzare il motivo per cui è stato così negli ultimi 50 anni.
Un terzo fattore cruciale è il carattere etnico del proletariato israeliano. La maggior parte degli strati più sfruttati della classe operaia israeliana sono immigrati dall’Asia e dall’Africa[3]. A prima vista potrebbe sembrare che la reduplicazione delle divisioni di classe con quelle etniche possa acuire i conflitti di classe interni alla società israeliana. C’è stata una certa tendenza in questa direzione, ma negli ultimi 20 anni il fattore etnico ha funzionato soprattutto in senso opposto.
Molti degli immigrati dall’Asia e dall’Africa hanno migliorato il loro tenore di vita diventando proletari in una moderna società capitalistica. Il loro malcontento non era diretto contro la loro condizione di proletari, ma contro la loro condizione di “orientali”, cioè contro il fatto che erano guardati dall’alto in basso, e a volte persino discriminati, da coloro che erano di origine europea. I governanti sionisti hanno adottato misure per cercare di fondere i due gruppi. Ma, nonostante ciò, le differenze rimanevano evidenti e di fatto aumentavano[4]. A metà degli anni Sessanta, due terzi di coloro che svolgevano lavori non qualificati erano orientali; il 38% degli orientali viveva in tre o più persone per stanza, mentre solo il 7% degli europei lo faceva; e nella Knesset solo 16 dei 120 membri erano orientali prima del 1965 e solo 21 dopo.
Allora, perché Israele non riesce a “integrare” la sua società ebraica e a migliorare le capacità lavorative degli ebrei orientali? La risposta sta nella natura dello Stato israeliano: con l’espansione dell’economia, si è creata una grande richiesta di lavoratori qualificati. Il modo più ovvio per soddisfare questa domanda sarebbe stato quello di lanciare una massiccia campagna di istruzione per il gran numero di ebrei orientali non qualificati e semiqualificati, oppure di reclutare lavoratori qualificati ebrei dall’estero. Le dinamiche del capitalismo e del sionismo portano alla seconda soluzione, perpetuando così la posizione di inferiorità degli ebrei orientali nella società israeliana.
Oltre alla tendenza generale delle società capitalistiche a mantenere le prevalenti divisioni di classe, in questo caso è più conveniente importare lavoratori qualificati che crearli in patria. Inoltre, a parte il valore intrinseco dell’immigrazione ebraica in Israele dal punto di vista sionista, un massiccio movimento verso l’alto di ebrei orientali potrebbe creare allo stesso tempo un problema per il sionismo: In particolare, il vuoto creato nella classe operaia non qualificata e semi-qualificata potrebbe essere colmato solo dalla manodopera araba, che dominerebbe i settori vitali del proletariato israeliano. Questo, ovviamente, non sarebbe tollerato dalla leadership sionista[5]. Non c’è dubbio, quindi, che finché la società israeliana rimarrà capitalista e puramente ebraica, le divisioni etniche corrisponderanno in larga misura alle divisioni di classe.
Tuttavia, tali divisioni e differenze sociali sono interpretate dagli orientali in termini etnici; essi non dicono: “sono sfruttato e discriminato perché sono un lavoratore”, ma “sono sfruttato e discriminato perché sono un orientale”.
Inoltre, nell’attuale contesto della società coloniale israeliana, i lavoratori orientali costituiscono un gruppo il cui equivalente sarebbero i “poor whites” degli Stati Uniti o i pied noir algerini. Questi gruppi non sopportano di essere identificati con gli arabi, i neri e gli indigeni di qualsiasi tipo, che sono considerati “inferiori” da questi coloni. La loro risposta è quella di schierarsi con gli elementi più sciovinisti, razzisti e discriminatori dell’establishment; la maggior parte dei sostenitori del partito semi-fascista Herut sono ebrei immigrati dall’Asia e dall’Africa, e questo deve essere tenuto presente da coloro la cui strategia rivoluzionaria per la società israeliana si basa su una futura alleanza tra arabi palestinesi ed ebrei orientali, sia sulla base della loro comune condizione di sfruttamento, sia sulla base della loro affinità culturale, risultato del fatto che gli ebrei orientali provengono da Paesi arabi.
Detto questo, è importante prendere atto delle periodiche ondate di amarezza che travolgono la comunità ebraico-orientale. Le più importanti sono state la violenta protesta di breve durata ad Haifa, immediatamente prima della guerra di Suez nel 1956, e il movimento iniziato prima della guerra del giugno 1967. Il movimento è rinato nel 1970 con la creazione del gruppo delle Pantere Nere israeliane. È incoraggiante che queste Pantere Nere abbiano iniziato a comprendere alcuni aspetti del legame tra la loro situazione e la natura sionista-capitalista di Israele.
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La società israeliana non è solo una società di coloni plasmata da un processo di colonizzazione di un Paese già popolato, ma è anche una società che beneficia di privilegi unici. Gode di un afflusso di risorse materiali dall’esterno di quantità e qualità senza precedenti; è stato infatti calcolato che nel 1968 Israele ha ricevuto il 10% di tutti gli aiuti dati ai Paesi sottosviluppati[6]. Israele è un caso unico in Medio Oriente: è finanziato dall’imperialismo senza essere sfruttato economicamente da esso. Questo è sempre stato il caso in passato: L’imperialismo ha usato Israele per i suoi scopi politici ed ha pagato per questo con il sostegno economico. Oscar Gass, un economista americano che in passato è stato consulente economico del governo israeliano, ha scritto di recente:
Ciò che è unico in questo processo di sviluppo… è il fattore dell’afflusso di capitali… Nei 17 anni 1949-65 Israele ha ricevuto 6 miliardi di dollari di importazioni di beni e servizi in più rispetto alle esportazioni. Per i 21 anni 1948-68, il surplus di importazioni sarebbe superiore a 7,5 miliardi di dollari. Ciò significa un surplus di circa 2.650 dollari a persona durante i 21 anni per ogni persona che viveva in Israele (entro i confini precedenti al giugno 1967) alla fine del 1968. E di questa offerta dall’estero… solo il 30% circa è arrivato in Israele in condizioni che richiedono un flusso di ritorno di dividendi, interessi o capitali. Si tratta di una circostanza che non ha eguali altrove e che limita fortemente il significato dello sviluppo economico di Israele come esempio per gli altri Paesi[7].
Il 70% di questo deficit di 6 miliardi di dollari è stato coperto da «trasferimenti unilaterali netti di capitale», che non erano soggetti a condizioni di rendimento del capitale o di pagamento di dividendi. Il 30% proveniva da «trasferimenti di capitale a lungo termine» – titoli di Stato israeliani, prestiti da parte di governi stranieri e investimenti capitalistici. Questi ultimi beneficiano in Israele di esenzioni fiscali e di profitti garantiti in virtù di una legge per l’incoraggiamento degli investimenti di capitale[8]; tuttavia, questa fonte di investimento quasi-capitalista si colloca ben al di sotto delle donazioni unilaterali e dei prestiti a lungo termine. Nell’intero periodo dal 1949 al 1965, i trasferimenti di capitale (in entrambe le forme) provenivano dalle seguenti fonti: 60% dall’ebraismo mondiale, 28% dal governo tedesco e 12% dal governo degli Stati Uniti. Dei trasferimenti di capitale unilaterali, il 51,5% proveniva dall’ebraismo mondiale, il 41% dal governo tedesco e il 7,4% dal governo degli Stati Uniti. Dei trasferimenti di capitale a lungo termine, il 68,7% proveniva dall’ebraismo mondiale, il 20,5% dal governo degli Stati Uniti e l’11% da altre fonti. Nel periodo 1949-65, il risparmio netto dell’economia israeliana è stato in media pari a zero, a volte +1% e a volte -1%. Eppure, il tasso di investimento nello stesso periodo è stato pari a circa il 20% del PNL. Questo non poteva provenire dall’interno perché non c’era alcun risparmio interno all’economia israeliana; proveniva interamente dall’estero sotto forma di investimenti di capitale unilaterali e a lungo termine. In altre parole, la crescita dell’economia israeliana si basava interamente sull’afflusso di capitali dall’esterno[9].
Dal 1967, questa dipendenza dal capitale straniero è aumentata. A seguito della mutata situazione mediorientale, le spese militari sono aumentate. Secondo il ministro del Tesoro israeliano, nel gennaio 1970 la spesa militare era stimata al 24% del PNL per il 1970, il che equivaleva al doppio del rapporto degli Stati Uniti nel 1966, al triplo del rapporto britannico e al quadruplo di quello francese[10]. Ciò ha comportato un’ulteriore pressione sia sulle fonti interne di denaro per gli investimenti sia sulla bilancia dei pagamenti, e ha dovuto essere soddisfatta da un aumento commisurato dell’afflusso di capitali. Nel 1967-68, in Israele sono state indette tre “conferenze dei milionari”; i capitalisti stranieri sono stati invitati a partecipare per aumentare l’afflusso di capitali e la partecipazione straniera ai progetti industriali e agricoli. Nel settembre 1970, il ministro del Tesoro israeliano, Pinhas Sapir, tornò da un tour di tre settimane di raccolta fondi negli Stati Uniti e riassunse la situazione di allora:
Ci siamo posti l’obiettivo di raccogliere 1.000 milioni di dollari dall’ebraismo mondiale nel prossimo anno, attraverso l’United Jewish Appeal e la campagna di Israel Development Bonds sponsorizzata dall’Agenzia Ebraica. Questa somma è superiore di 400 milioni di dollari a quella raccolta nell’anno record del 1967… Durante la recente visita in Israele del team di ricerca finanziaria statunitense abbiamo spiegato loro che, anche se riuscissimo a raccogliere tutto ciò che ci aspettiamo dall’United Jewish Appeal e dalla campagna Israel Development Bonds, saremmo comunque al di sotto del nostro fabbisogno di milioni di dollari. Dopo aver riassunto il nostro fabbisogno in armi, abbiamo informato gli Stati Uniti che avremo bisogno di 400-500 milioni di dollari all’anno[11].
Sembra quindi che la dipendenza di Israele dagli Stati Uniti sia cambiata in modo significativo dopo la guerra del 1967. La raccolta di fondi tra gli ebrei di tutto il mondo (facendo leva sui loro sentimenti e sulle loro paure) non è più sufficiente a sostenere l’enorme aumento del bilancio militare. La media approssimativa di 500 milioni di dollari provenienti dalla raccolta fondi deve ora essere raddoppiata e, inoltre, al governo degli Stati Uniti è stato chiesto di fornire direttamente altri 500 milioni di dollari. È ovvio che la disponibilità del governo degli Stati Uniti a stanziare queste somme dipende da ciò che riceve in cambio. Nel caso specifico di Israele, questo ritorno non è il profitto economico[12].
Anche il capitale britannico ha sviluppato stretti legami con Israele[13]. Il 20% delle importazioni israeliane proviene dalla Gran Bretagna e il commercio è quasi raddoppiato dopo la guerra di giugno. La British Leyland ha partecipato con l’Histadrut (che detiene una partecipazione del 34%) alla produzione di autobus e con capitali privati israeliani alla produzione di auto e jeep.
L’aumento della partecipazione di capitale straniero in Israele ha portato ad alcuni cambiamenti all’interno dell’economia stessa, che sono stati attuati anche sotto la maggiore pressione esercitata direttamente dal livello di spesa militare. L’economia è stata resa più “efficiente” secondo gli standard del capitalismo americano: le tasse sono state riformate, le condizioni di investimento “liberalizzate” e i generali dell’esercito sono stati mandati alle scuole di economia statunitensi e poi messi a capo delle imprese industriali. Nel periodo 1968-69, c’è stato un blocco obbligatorio dei salari e alcune imprese pubbliche sono state persino vendute al capitale privato, come ad esempio la quota statale del 26% nella raffineria di petrolio di Haifa.
Questo afflusso di risorse dall’estero non include le proprietà che l’establishment sionista in Israele ha rilevato dai rifugiati palestinesi come “proprietà abbandonate”. Questo include la terra, sia coltivata che incolta; solo il 10% della terra posseduta dagli organismi sionisti nell’Israele pre-1967 era stata acquistata prima del 1948. Sono comprese anche molte case e città completamente deserte come Jaffa, Lydda e Ramleh, dove molte proprietà sono state confiscate dopo la guerra del 1948.
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L’enorme afflusso di capitali non è arrivato nelle mani della piccola borghesia israeliana, ma nelle mani dello Stato, dell’establishment sionista[14], che è stato sotto il controllo delle burocrazie dei partiti laburisti fin dagli anni Venti. Questo ha determinato il modo in cui tutti i capitali in entrata, così come le proprietà conquistate, sono stati utilizzati. I fondi raccolti all’estero vengono convogliati attraverso l’Agenzia Ebraica che, con l’Histadrut e il governo, fa parte del triangolo delle istituzioni di governo. Tutti i partiti sionisti, dal Mapam all’Herut, sono rappresentati nell’Agenzia ebraica. L’Agenzia finanzia settori dell’economia israeliana, in particolare le parti non redditizie dell’agricoltura come i kibbutz, e distribuisce fondi ai partiti sionisti, consentendo loro di gestire i loro giornali e le loro imprese economiche. I fondi vengono divisi in base ai voti ottenuti dai partiti alle elezioni precedenti e questo sistema di sovvenzioni permette ai partiti sionisti di sopravvivere anche dopo la scomparsa delle forze sociali che li hanno creati.
Storicamente, lo scopo di questo sistema era il rafforzamento del processo di colonizzazione, in accordo con le idee dei partiti laburisti sionisti, e il rafforzamento della presa che la burocrazia stessa aveva sulla società israeliana. Ciò si è rivelato un successo, poiché non solo la classe operaia israeliana è organizzativamente ed economicamente sotto il completo controllo della burocrazia laburista, ma lo è anche la borghesia israeliana. Storicamente, la burocrazia ha plasmato la maggior parte delle istituzioni, dei valori e delle pratiche della società israeliana senza alcuna opposizione dall’interno, soggetta solo ai vincoli esterni imposti dall’imperialismo e dalla resistenza degli arabi. La maggior parte di questo enorme afflusso di risorse è stata destinata ai progetti di immigrazione e agli alloggi e all’occupazione necessari per far fronte all’afflusso che ha portato la popolazione ebraica da 0,6 milioni nel 1948 a 2,4 milioni nel 1968.
Questo processo è stato accompagnato da una corruzione personale relativamente bassa, ma da una molto forte corruzione politica e sociale. L’afflusso di risorse ha avuto un effetto decisivo sulle dinamiche della società israeliana, poiché la classe operaia israeliana ha partecipato, direttamente e indirettamente, a questa trasfusione di capitale. Israele non è un Paese in cui gli aiuti esteri confluiscono interamente in tasche private; è un Paese in cui questi aiuti sovvenzionano l’intera società. Il lavoratore ebreo in Israele non riceve la sua parte in contanti, ma la riceve in termini di alloggi nuovi e relativamente economici, che non avrebbero potuto essere costruiti raccogliendo capitali a livello locale; la riceve in termini di occupazione industriale, che non avrebbe potuto essere avviata o mantenuta senza sussidi esterni; e la riceve in termini di un tenore di vita generale che non corrisponde alla produzione di quella società. Lo stesso vale ovviamente per i profitti della borghesia israeliana, la cui attività economica e la cui produzione di profitti sono regolate dalla burocrazia attraverso sussidi, licenze di importazione ed esenzioni fiscali. In questo modo, la lotta tra la classe operaia israeliana e i suoi datori di lavoro, sia burocrati che capitalisti, si combatte non soltanto per il plusvalore prodotto dal lavoratore, ma anche per la quota che ciascun gruppo riceve da questa fonte esterna di sussidi.
Quali sono le circostanze politiche che hanno permesso a Israele di ricevere aiuti esterni in tali quantità e in tali condizioni senza precedenti? A questa domanda ha risposto già nel 1951 il direttore del quotidiano Ha’aretz:
A Israele è stato affidato un ruolo non dissimile da quello di un cane da guardia. Non c’è da temere che eserciti una politica aggressiva nei confronti degli Stati arabi se questo contraddice gli interessi di Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma se l’Occidente preferisce, per un motivo o per l’altro, chiudere gli occhi, si può fare affidamento su Israele per punire severamente quegli Stati vicini la cui mancanza di educazione nei confronti dell’Occidente ha superato i limiti appropriati[15].
Questa valutazione del ruolo di Israele in Medio Oriente è stata verificata più volte, ed è chiaro che la politica estera e militare di Israele non può essere dedotta solo dalle dinamiche dei conflitti sociali interni. L’intera economia israeliana si fonda sul particolare ruolo politico e militare che il sionismo e la società dei coloni svolgono nell’intero Medio Oriente. Se si considera Israele in modo isolato dal resto del Medio Oriente, non si spiega il fatto che il 70% dell’afflusso di capitali non sia destinato a un guadagno economico e non sia soggetto a considerazioni di redditività. Ma il problema si risolve immediatamente quando Israele viene considerato come una componente del Medio Oriente. Il fatto che una parte considerevole di questo denaro provenga da donazioni raccolte dai sionisti tra gli ebrei di tutto il mondo non cambia il fatto che si tratti di un sussidio dell’imperialismo. Ciò che conta è piuttosto il fatto che il Tesoro degli Stati Uniti sia disposto a considerare questi fondi, raccolti negli Stati Uniti per essere trasferiti in un altro Paese, come “donazioni di beneficenza” che danno diritto all’esenzione dall’imposta sul reddito. Queste donazioni dipendono dalla buona volontà del Tesoro degli Stati Uniti ed è ragionevole supporre che questa buona volontà non continuerebbe se Israele conducesse una politica antimperialista di principio.
Ciò significa che, sebbene i conflitti di classe esistano nella società israeliana, essi sono limitati dal fatto che la società nel suo complesso è sovvenzionata dall’esterno. Questo status privilegiato è legato al ruolo di Israele nella regione e, finché questo ruolo continuerà, ci sono poche prospettive che i conflitti sociali interni acquisiscano un carattere rivoluzionario. D’altra parte, una svolta rivoluzionaria nel mondo arabo cambierebbe la situazione. Liberando l’attività delle masse in tutto il mondo arabo, potrebbe cambiare l’equilibrio di potere; ciò renderebbe obsoleto il tradizionale ruolo politico-militare di Israele, riducendo così la sua utilità per l’imperialismo. In un primo momento Israele verrebbe probabilmente utilizzato nel tentativo di schiacciare una tale svolta rivoluzionaria nel mondo arabo; tuttavia, una volta fallito questo tentativo, il ruolo politico-militare di Israele nei confronti del mondo arabo sarebbe finito. Una volta terminato questo ruolo e i privilegi ad esso associati, il regime sionista, che dipende da questi privilegi, sarebbe aperto a sfide di massa dall’interno di Israele stesso.Questo non significa che i rivoluzionari all’interno di Israele non possano fare nulla, se non sedersi e aspettare l’emergere di condizioni esterne oggettive sulle quali non hanno alcuna influenza. Significa soltanto che essi devono basare la propria attività su una strategia che riconosca le caratteristiche uniche della società israeliana, piuttosto che riprodurre le generalizzazioni dell’analisi del capitalismo classico. Il compito principale dei rivoluzionari che accettano questa valutazione è quello di indirizzare il loro lavoro verso quegli strati della popolazione israeliana che sono immediatamente colpiti dai risultati politici del sionismo e che devono pagarne le conseguenze. Questi strati comprendono i giovani israeliani, chiamati a combattere “una guerra eterna imposta dal destino”, e gli arabi palestinesi che vivono sotto il dominio israeliano[16]. Questi strati condividono una tendenza antisionista che li rende potenziali alleati nella lotta rivoluzionaria all’interno di Israele e nella lotta rivoluzionaria in tutto il Medio Oriente. Chiunque segua da vicino le lotte rivoluzionarie nel mondo arabo si rende conto del rapporto dialettico tra la lotta contro il sionismo in Israele e la lotta per la rivoluzione sociale nel mondo arabo. Questa strategia non implica che l’attività all’interno della classe operaia israeliana debba essere trascurata; implica solo che anche questa attività deve essere subordinata alla strategia generale della lotta contro il sionismo.
NOTE
a Israele dipende sempre più da centinaia di migliaia di lavoratori a contratto non ebrei (provenienti da Paesi come la Romania, le Filippine, il Sud-Est asiatico e la Cina) per sostituire parzialmente i palestinesi ai livelli meno qualificati della forza lavoro. E anche i lavoratori israeliani hanno subìto molti degli attacchi alle proprie condizioni di lavoro e alla propria sicurezza sociale sperimentati dai lavoratori di altri Paesi negli ultimi decenni.
b A. Bordiga, Per l’antimilitarismo attivo ed operante, Il Socialista, 22 ottobre 1914.
[1] Annuario statistico del governo israeliano, 1969.
[2] Moshe Dayan, a Davar, 2 maggio 1956.
[3] La stragrande maggioranza degli immigrati prima del 1948 era di origine europea; tra il 1948 e il 1951 le proporzioni erano circa uguali; da allora la maggior parte degli immigrati proviene da paesi extraeuropei. Nel 1966, solo la metà della popolazione israeliana era di origine europea.
[4] Cfr. Annuario statistico (Gerusalemme), 1969.
[5] «L’impiego di un gran numero di [arabi] nell’economia israeliana comporta un grande pericolo, che non ha nulla a che vedere con la sicurezza: Sono una bomba a orologeria… Alcuni settori dell’economia stanno già diventando dipendenti dalla manodopera araba proveniente dai territori occupati, e i lavoratori ebrei stanno abbandonando interi settori dell’economia». (Haim Gevati, Ministro dell’Agricoltura, in Yediot Aharonot, 20 maggio 1970).
[6] Le Monde, 2 luglio 1969.
[7] Journal of Economic Literature, dicembre 1969, p. 1177.
[8] Questa legge è stata approvata nel 1959.
[9] Questi dati sono tratti da The Economic Development of Israel, di N. Halevi e R. Klinov-Malul, pubblicato dalla Banca d’Israele e da Frederick A. Praeger, 1968. La categoria “altre fonti”, inclusa nella voce “trasferimenti di capitale a lungo termine”, è stata omessa dai dati relativi ai trasferimenti a lungo termine e a quelli unilaterali.
[10] Professor D. Patienkin in Ma’ariv, 30 gennaio 1970.
[11] Yediot Aharonot, 30 settembre 1970. Su un totale di 1.034 milioni di dollari di aiuti militari statunitensi ai Paesi stranieri, escluso il Vietnam, nel 1970, Israele ricevette 500 milioni di dollari.
[12] All’inizio del dicembre 1970, Sapir presentò il bilancio per il periodo 1970-71; il 40% era dedicato a scopi militari. Questo includeva: l’acquisto di armi, in parte coperto dai 500 milioni di dollari promessi da Nixon; lo sviluppo dell’industria degli armamenti e della ricerca militare; i costi quotidiani delle operazioni di sicurezza nazionale.
[13] Si veda Why this nation does buy British, The Times (Londra), 28 marzo 1969.
[14] Il termine “establishment sionista” è quello convenzionalmente usato in Israele per indicare il gruppo dirigente presente nell’insieme interconnesso delle istituzioni sioniste.
[15] Ha’aretz, 30 settembre 1951.
[16] Il movimento di opposizione in Israele, in particolare tra gli studenti delle scuole superiori, è stato discusso in Israel: Opposition grows, Black Dwarf, 12 giugno 1970.
Circolo Internazionalista "coalizione operaia"
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