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Ieri briganti, oggi terroristi

(15 Settembre 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.operaicontro.it

Scendendo in Basilicata, nei giorni scorsi ho assistito a Brindisi di Montagna (Pz), nella Foresta della Grancia, al cinespettacolo “La storia bandita”, una grande rappresentazione spettacolare di teatro popolare, animata da oltre 400 volontari, che rievoca la lotta dei contadini poveri e dei braccianti senza terra contro l’oppressione prima del regno borbonico delle due Sicilie, poi dell’Impero napoleonico e dell’esercito repubblicano di Gioacchino Murat, poi delle armate sanfediste antirepubblicane del cardinale Ruffo di Calabria, poi ancora dei Borboni e infine contro il giogo, il più spietato, del regno di Piemonte-Sardegna dopo l’unità d’Italia del 1861. Da tutti avevano sperato in una vita migliore, da tutti ricevettero tasse, povertà, miseria, fame e morte.
“Calpestati, ci ribellammo” recita Carmine Crocco, il generale capo nel Vulture-Melfese dei senza terra che, soprattutto nella Lucania, resistettero con le armi all’esercito piemontese. Quei contadini e braccianti vennero chiamati con disprezzo briganti, ma essi furono gli insorti che lottarono contro l’occupazione militare della loro terra. Contro di loro l’esercito dei padroni piemontesi agì in maniera feroce e determinata, fino a demolire intere foreste per stanarli e massacrarli a uno a uno, senza processo come consentì la famigerata legge Pica.
La lotta dei “briganti”, al di là della esemplare rievocazione teatrale, è di fortissima attualità. Per più ragioni. 150 anni fa i migliori figli della terra lucana si ribellarono al dominio dei padroni piemontesi con le armi in pugno: vennero criminalizzati e sterminati perché la giovane borghesia piemontese aveva indispensabile bisogno del Sud come terra ricca di materie prime (agricole, forestali, minerarie), di braccia pronte a lavorare anche altrove, di uomini da costringere a servire nell’esercito, e come mercato di sbocco delle sue merci. Al Piemonte non interessava l’unità d’Italia fine a se stessa, ma la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue risorse e fabbriche. Il Sud era la colonia che la borghesia piemontese, a differenza di quelle, più forti, inglese, francese, olandese, ecc., allora non era in grado di conquistare altrove. La colonia che la borghesia piemontese, e poi settentrionale più in generale, non ha in seguito mai voluto (con l’acquiescenza della privilegiata classe politica meridionale), che si sviluppasse realmente, perché altrimenti le sue merci avrebbero fatto concorrenza a quelle del Nord. Oggi invece sono i partigiani afgani (per citare solo gli ultimi, ma se ne potrebbero ricordare tanti altri, dagli etiopi agli eritrei, dai somali agli iraniani, ecc.) che lottano contro la borghesia italiana e il suo tallone di ferro calcato sulla terra straniera in combutta con le altre borghesie europee e con quella statunitense. Ieri i combattenti per la libertà venivano chiamati briganti, oggi invece terroristi, ma non cambia nulla!
Però i “briganti” non combattevano solo per la liberazione della loro terra dall’oppressione straniera; pur fra tante contraddizioni lottavano per il loro riscatto sociale, perché volevano quella terra per se stessi, per lavorarla, per utilizzare per sé i frutti del lavoro delle proprie braccia, senza più cederli al padrone sfruttatore di turno. Ieri erano i “briganti” a opporsi ai padroni del Nord, in una terra considerata tranquilla ma che diventò l’inferno per l’esercito piemontese. Oggi sono gli operai lucani, i pronipoti di quei “briganti”, che si oppongono, tra mille difficoltà, alla volontà di dominio economico e sociale dei padroni della Fiat e del loro esercito di banditi, loro sì veri banditi, capeggiato da Marchionne. Anche gli operai di Melfi, a due passi dalla Foresta della Grancia di Brindisi di Montagna, lottano per il pane, per il riscatto sociale. Non li chiamano ancora terroristi, ma li trattano e comandano come schiavi: e se alzeranno la testa e impareranno a essere uniti e a non tradirsi gli uni con gli altri, i padroni non esiteranno a mandare anche il loro esercito militare: per ora hanno già impiegato il loro esercito di sindacalisti padronali, giornalisti prezzolati, mercenari e traditori di ogni risma. La lotta di classe è per la vita e per la morte. Ma oggi con una differenza: dopo 150 anni i senza terra analfabeti e privi di ogni supporto ideologico si sono trasformati in operai colti e ricchi dell’esperienza di una lunga storia di lotte contro i padroni, oggi possono dire basta una volta per sempre al dominio dei padroni. “Calpestati, ci ribelliamo”, con più forza e unità di 150 anni fa, con la forza e l’unità che può dare il partito degli operai.
Spartacus

www.operaicontro.it

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