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L’ “identità” del crocifisso

(5 Novembre 2003)

Con la gazzarra seguita all’ordinanza del giudice del Tribunale aquilano il crocifisso ha subito una ennesima crocifissione, una crocifissione questa volta piazzaiola e mediatica come si conviene ai nostri tempi, ad opera di una folla di benpensanti e di perbenisti che, ergendosi a paladini della croce, ne hanno rivendicato la proprietà e l’uso. Un tentativo di “appropriazione indebita” per la sua pretesa di trasformare il simbolo dell’amore universale, come lo ha definito il Papa, in un distintivo di parte, nella bandiera di una cultura, nell’emblema identitario di una nazione, in un motivo di separazione e di scontro: una spregiudicata operazione intesa a servirsi del crocifisso-immagine per travisare la crocifissione-evento, un evento salvifico offerto a tutti gli uomini di tutti i tempi, di tutti i continenti e di tutte le culture.

E così abbiamo assistito ad una sarabanda di scomposte e penose reazioni: la difesa a spada tratta dell’affissione del crocifisso nelle scuole e negli uffici pubblici da parte di un integralismo cattolico intrinsecamente pagano e che si pone, nelle scelte che contano, agli antipodi dello spirito evangelico; i rigurgiti di un vecchio e rabbioso laicismo che trova sempre spazio quando la religiosità si separa dalla fede per degenerare nel fanatismo; una specie di “santa alleanza” fra politici di opposti schieramenti apparsi talvolta in penosa concorrenza fra loro per accattivarsi le simpatie di un certo elettorato cattolico; i contorcimenti di taluni intellettuali e commentatori che, in bilico fra il rispetto dovuto alla propria coscienza e la preoccupazione di non dispiacere al paese che conta, hanno scelto di non scegliere e di parlare e scrivere senza dire nulla.

Ed ancora: le deplorazioni e gli anatemi che si sono abbattuti su un provvedimento della magistratura per sua natura provvisorio e quindi destinato ad essere riesaminato ed eventualmente modificato nelle competenti sedi giudiziarie; l’inammissibile e certamente illegittima, perché non autorizzata da alcuna disposizione di legge, obiezione di coscienza di un ufficiale giudiziario che si è rifiutato di eseguire l’ordinanza creando un precedente che, se lasciato correre, può aprire la strada al moltiplicarsi di comportamenti intesi a vanificare l’efficacia esecutiva dei provvedimenti giudiziari che ne sono muniti; alcuni discutibili ed eccessive dichiarazioni da parte di soggetti investiti di responsabilità istituzionali; l’ingiustificato invio di ispettori presso il tribunale aquilano da parte del Ministro di Grazia e Giustizia; certe pittoresche proteste e talune strampalate sortite di esponenti istituzionali con l’annuncio di misure rivolte a diffondere in vari luoghi l’immagine del crocifisso.

Per fortuna si sono anche levate alcune voci libere ed avvedute che all’inizio hanno faticato a trovare spazio ed ascolto ma che ora stanno incontrando il buon senso della gente comune dimostratasi incline a cogliere, in questa singolare vicenda, un malinconico segno di quella crisi morale e civile che da tempo serpeggia nei quartieri alti della nostra società. Si stanno così facendo strada riflessioni e domande che si muovono sul piano di una cultura ispirata ai principi dello stato di diritto ed ai dettami della Costituzione repubblicana e su quello di una sensibilità religiosa illuminata dal messaggio evangelico. E partiamo da alcune di queste domande che si pongono sul versante civile. A prescindere dalle decisioni di competenza giudiziaria e forse demandabili al giudizio della Corte costituzionale, si può considerare democraticamente corretto, alla luce dei principi costituzionali e delle modifiche apportate nel 1985 al concordato lateranense, il sostenere, come ha fatto anche il ministro Moratti, la legittimità dell’esposizione del crocifisso nelle scuole in forza di un decreto regio dell’epoca fascista? In tempi minacciati da xenofobie e guerre di religione, non dovrebbe una classe politica responsabile richiamare con forza il grande principio proclamato dall’art. 3 della Costituzione che sancisce la pari dignità di tutti i cittadini (e di tutti gli uomini) e la loro uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione e di altre condizioni che sono state storicamente motivo di discriminazione? E di questo principio di civiltà non dovrebbe essere rispettosa qualsiasi normativa, compresa quella in materia di esposizione di simboli religiosi e di celebrazione di riti confessionali in luoghi gestiti dalle istituzioni democratiche per lo svolgimento di funzioni o di attività di natura pubblica?

Su un piano diverso, quello della sensibilità religiosa, gli interrogativi sono poi ancora più sofferti ed amari. Sono proprio sicuri di rendere un servizio alla loro fede quei cattolici che vogliono imporre, per legge o per disposizione amministrativa, l’esposizione nelle scuole e negli uffici pubblici di quel crocifisso che non pretende certo di affermarsi con gli strumenti del potere ma si propone ai poveri e agli oppressi come speranza di riscatto e a tutti come promessa di resurrezione? Non si fanno costoro sfiorare dall’idea che il crocifisso non ambisce certo ad essere esibito per simboleggiare identità nazionali o culturali ma attende di essere invocato ed accolto nei cuori e nelle case degli ultimi, degli umiliati ed offesi, delle “pecorelle smarrite” e di quanti anche inconsapevolmente lo cercano per trovare “la via, la verità e la vita”? E questi crociati dell’ultima ora, questi liberisti che vogliono statalizzare la religione e nazionalizzare i simboli sacri, questi assertori di “identità” che confondono Dio con Cesare ed insorgono contro una sentenza che di sicuro non cambia i destini del mondo, perché non scendono in piazza e non protestano quando il crocifisso viene ferito e tormentato sul tragico legno della storia contemporanea con i chiodi delle politiche che affamano milioni di uomini e delle guerre “infinite” che devastano ed uccidono?

Brindisi, 3 novembre 2003

Michele di Schiena

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