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IL SENSO PROFONDO DELLA CRISI: USCIRE DAL MINORITARISMO, VOLARE ALTO

(22 Settembre 2013)

Da tempo il cono di visuale della politica, anzi della Politica, si è via via ridotto, sfidando al ribasso persino i concetti di politicismo, di "qui e ora", di manicheismo spicciolo.
E' ora di tornare ad una visione complessiva, che tenga conto della storia della sinistra comunista, del contesto storico che si è andato sviluppando sia a livello nazionale che internazionale, delle gravi omissioni e rinunce ma anche delle opportunità che possiamo/dobbiamo cogliere.
Con questo spirito pubblichiamo un testo che vuol essere stimolo e proposta, di analisi come di progetto, per lanciare una discussione di livello adeguato, sapendo di muoverci controcorrente: porre le basi per la costruzione di un soggetto politico definito, identitario, anticapitalistico, con radici profonde e rivolto al presente e al futuro, con al centro la riconoscibilità e la rappresentanza della classe e del suo irrinunciabile conflitto.

IL SENSO PROFONDO DELLA CRISI: USCIRE DAL MINORITARISMO, VOLARE ALTO
Una proposta rivolta a tutti i soggetti dell’opposizione per l’alternativa con l’obiettivo di aprire un dibattito di fondo sulle tendenze della crisi, i suoi riflessi sul sistema politico italiano e le prospettive di una soggettività comunista, anticapitalista, d’opposizione per l’alternativa all’altezza della qualità dello scontro.
IL SENSO PROFONDO DELLA CRISI
Il senso profondo della crisi aleggia attorno a noi: per individuarlo basta guardarci attorno, svolgere inchieste empiriche con il metodo semplice dell’osservazione.
E’ sufficiente assistere al dramma della disoccupazione, ai suicidi per povertà, all’arretramento nelle condizioni materiali di vita nel quotidiano, all’impossibilità del rivolgersi al welfare.
Il senso della crisi sta nei negozi chiusi, negli opifici silenti, dove non echeggia più il rumore del lavoro, nel ritorno alla “guerra tra i poveri”, all’odio crescente tra gli apparentemente diversi senza che nessuno sia più capace di farli riconoscere tra loro eguali nel gran modo degli sfruttati.
Serge Halimi dalle colonne de “Le monde diplomatique ”scrive di “Medioevo Europeo”. Sì appare proprio un “ritorno al Medioevo” quanto sta accadendo qui nell’Occidente super sviluppato.
Il senso profondo della crisi lo si avverte nell’assenza del conflitto: ci giunge lontano l’eco di “piazze ribelli” poi normalizzate dallo stridere lento sull’asfalto dei cingoli dei carri armati.
Un’eco lontana che non sappiamo raccogliere, rinchiusi qui nella fortezza di un’economia definita “comportamentale” che ci impone i modelli, gli stili di vita, i consumi senza dei quali il nostro individualismo non trova altra strada che annegare nella disperazione.
Il senso profondo della crisi corrisponde all’assenza di un’alternativa, nell’omologazione delle culture, nel rendere omaggio all’eterna e intangibile “costituzione del potente”.
“Ribellarsi” potrebbe rappresentare l’imperativo d’obbligo: ma come?
Il senso profondo della crisi ci impone di riscoprire la politica: la politica, prima di tutto, intesa come ricerca dell’appartenenza alla propria condizione materiale, la politica come studio della situazione umana, dal singolo al collettivo, per cercare, proporre, imporre soluzioni, la politica come sede di rappresentanza degli interessi e dei conflitti.
Le grandi masse dei diseredati, colpiti dall’eterno ma mai eguale massacro capitalista sono chiamate a lottare per ritrovare perché la scienza, la volontà, la forza di organizzarsi per resistere e cambiare profondamente questa società: pietra su pietra come si scriveva un tempo.

APPUNTO PER UNA RICERCA TEORICA SULL’IDENTITA’ COMUNISTA OGGI
Il ‘900 secolo del comunismo e del suo fallimento.

La somma di queste due affermazioni ha prodotto, assieme a molte altre conseguenze, la cancellazione di persone, movimenti, concezioni senza le quali la comprensione del nostro passato è impossibile o fortemente ridotta.
La loro eliminazione o stravolgimento (come si sta tentando di fare, in Italia, con il pensiero gramsciano) sono stati parte costitutiva del programma dei vincitori, anche e spesso appartenenti alla loro stessa parte politica.
Il primo obiettivo da perseguire, nell’idea di aprire un filone di ricerca teorica su di una possibile identità comunista, finalizzata a funzionare da retroterra ideale e culturale per un’azione politica diretta e alla ricostituzione di un partito comunista collocato all’altezza delle contraddizioni dell’oggi, deve quindi essere di carattere storico e storiografico.
La tesi di fondo da portare avanti deve essere quella che le idee e le esperienze prese in esame non rivestano, in questa fase, un interesse unicamente storico, ma rappresentino punti di riferimento per il presente e il futuro.
Rispetto alla storia del ‘900 è necessario, inoltre, individuare figure, movimenti, esperienze non riconducibili soltanto alle forme politiche che sono risultate egemoni in quel secolo, ma ricercare anche nel campo dell’alternatività critica.
Una prima obiezione all’impostazione di questa breve nota la si potrebbe sollevare in merito al carattere eurocentrico del criterio adottato.
In effetti, al di fuori dell’Europa e dell’Occidente, la prospettiva e il concetto di comunismo sono apparsi, fin qui, molto diversi, a partire dalla centralità del colonialismo e della lotta contro di esso.
In tutti i contesti extraeuropei, la critica al capitalismo è stata inestricabilmente connessa all’anticolonialismo e all’antirazzismo, alla centralità del confronto tra civiltà e culture “ altre” rispetto al modello occidentale.
La fase della marginalizzazione dell’Europa ha però coinciso, di fatto, con l’inaridirsi delle fonti dell’immaginazione politica e del pensiero critico, esaltando il fenomeno negativo della concentrazione sul presente assoluto dell’economia e del consumo.
Non a caso l’Europa spaccata a metà per effetto della guerra aveva saputo esprimere un ricco panorama di movimenti e figure riconducibili al “pensiero critico” mentre, al contrario, l’Europa unificata dopo il crollo dell’89 è apparsa fin qui effettivamente in preda allo smarrimento se non alla regressione, al punto che la democrazia sta perdendo di significato ed è messa sotto scacco da istanze post ideologiche che hanno assunto l’esistente come stato di natura prodotto dal movimento incontrollabile della tecnica.
Se è vero che le critiche al capitalismo, compresi i suoi approdi liberal-democratici, erano un tempo, lungo i decenni del ‘900, molto diffuse ma pochi sapevano sottrarsi alle sirene degli opposti totalitarismi, nei tempi più recenti e a “cose avvenute”, si sono moltiplicati i critici dei totalitarismi, in particolare e quasi esclusivamente a sinistra.
Critici dei totalitarismi partiti “da sinistra” e approdati, nella generalità dei casi, a un liberalismo che non maschera l’adesione incondizionata al capitalismo.
La tentazione della marginalità e del settarismo manicheo, da parte di questi soggetti “convertiti”, è risultata immediatamente evidente, con il rischio di riprodurre, fuori dal loro tempo, insensate e grottesche scomuniche dal sapore antico.
Dal nostro punto di vista dobbiamo combattere, primo di tutto, la tentazione di abituarsi a vivere, o meglio a galleggiare, in un presente senza spessore, ovvero a rincorrere un futuro inafferrabile.
Si tratta di rendere evidente, non appena si esca dal sonno della ragione indotto artificialmente dai media, come le vecchie ed eterne questioni tornino d’attualità e i conti debbano essere fatti con il tentativo di tradurre in politica e nella realtà sociale, i valori della modernità.
Nella paralisi dell’azione politica, nella mancanza d’immaginazione e di prospettive o, detto in altri termini, nel consolidamento di un atteggiamento “astorico”, si finisce con l’esprimere sia la perdita del valoro fondativo del rapporto con il passato sia la rinuncia a pensare al futuro come storia da costruire da parte di tutti e di ognuno.
Una vera e propria “sindrome del declino”, cui fa da controcanto il moto automatico dell’innovazione tecnologica e della circolazione del denaro.
Ci viene così restituita una diversa e più fondata formulazione della riflessione tutt’altro che superficiale sulla “fine della storia” come effetto indotto dalla fine del comunismo.
Si possono facilmente trovare riscontri empirici a tali considerazioni.
Basti pensare a com’è stata affrontata la crisi in atto sul piano economico – finanziario: ogni sforzo e aspettativa è stato indirizzato alla restaurazione degli stessi meccanismi che hanno prodotto la crisi; in alto e in basso la speranza è quella di tornare al più presto alla cosiddetta “normalità”, alla condizione ritenuta “naturale” di funzionamento della vita e dell’economia, sancendo l’intoccabilità di uno “stato di natura” che peraltro sta producendo ogni sorta di oggettivi disastri e risospingendo in una situazione di vera e propria “minorità sociale” milioni e milioni di persone, in tutto il mondo.
Qualsiasi ipotesi di cambiamento e di apertura sul futuro viene respinta, come se questo tragico esistente coincidesse con il migliore dei mondi possibili: l’unico, comunque, che ci sia dato e che non può essere modificato.
L’ideale non dovrà mai più mutare il “reale”.
Nondimeno si vive in preda a paure crescenti, la cui amministrazione e somministrazione assorbe gli sforzi della politica e dei media.
Il fatto che siano in gran parte paure immaginarie conferma e radicalizza la sindrome della paralisi, il venir meno della possibilità di esperienze fondative e innovative.
Da più parti, con evidente soddisfazione, si è sottolineato che il crollo del comunismo realizzato non ha veramente inaugurato, come nelle tesi di Fukuyama, Von Hajek, Huntington, l’epoca della fine della storia: peraltro, dobbiamo prenderne atto, non ha nemmeno aperto nuove prospettive.
Di sicuro non sono stati compiuti passi avanti significativi verso la costruzione di un assetto internazionale capace di rendere antiquata la guerra, semmai il contrario: essa viene perpetuata, come in Iraq, in Afghanistan, Africa, pur risultando manifestamente insensata e priva di efficacia.
Né la consapevolezza dal basso, nella coscienza dei singoli, della comune umanità sembra in grado di progredire.
Su questo sfondo la democrazia e i diritti umani, le armi ideali utilizzate nella lotta contro il comunismo sovietico hanno perso di efficacia, subendo un evidente processo di strumentalizzazione, come emerge dalle politiche portate avanti dagli USA, in particolare dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Il moltiplicarsi degli indicatori di regresso, sia registrando i dati strutturali nella distribuzione della povertà e della ricchezza su scala mondiale e all’interno dei singoli paesi, sia valutando il grado crescente d’insoddisfazione in ogni ambiente sociale, sia considerando la mancanza di prospettive e di certezze per le generazioni più giovani, tutto ciò sta portando a una revisione del giudizio al riguardo delle grandi temperie del ‘900.
La questione della democrazia
Circola una tesi: con il venir meno del polo comunista, il capitalismo ha potuto dare libero corso ai suoi “spiriti animali” distruggendo il Welfare State.
La verità è che la vicenda novecentesca, imperniata sull’esperimento russo – sovietico, è stata dominata da una colossale e ancora incompresa eterogenesi dei fini, rispetto alla quale l’analisi e il giudizio storico – teorico debbono essere approfonditi in più direzioni: quel che è certo è che il fallimento di quella storia ha minato la possibilità che gli ideali a cui proclamava di ispirarsi possano essere considerati validi per tradursi in una loro realtà effettuale.
Rimane però e comunque ineludibile la tensione verso l’eguaglianza e il superamento del perverso meccanismo di sfruttamento.
Si tratta, allora, di riattivare una memoria culturale a cui attingere per affrontare vecchie e nuove sfide, cercando di riconoscere prima e di superare poi la frattura che si è storicamente determinata.
Rimane tutta intera la questione della democrazia: il crollo del comunismo sovietico ha formalmente moltiplicato il numero degli Stati retti secondo le regole della democrazia e l’allargamento dell’Unione Europea è apparso come una formale dimostrazione di questo fenomeno.
Ciò è avvenuto e sta avvenendo, però, in un’epoca in cui lo stato della democrazia nei paesi occidentali, e un po’ in tutto il mondo, è deludente se non pessimo: al punto che molti si stanno ingegnando per trovare soluzioni che ne possano conservare una qualche versione minimale, una sorta di simulacro, tenuta in vita per comodità delle forze stesse che hanno contribuito a svuotarle e ridicolizzarla.
Quello che sta avvenendo, al di là di diagnosi più o meno pessimistiche, sembra confermare che non solo il comunismo, ma anche il capitalismo, senza più oppositori ufficiali non costituisce un ambiente adatto per la vita della democrazia.
Ed è proprio sul terreno della democrazia, all’interno della società piuttosto che delle istituzioni che si è rimessa in movimento una pluralità di soggetti interessati alla sua realizzazione, ai destini della cosa pubblica, della polis o almeno del territorio, con rischi evidenti di frammentazione, nonostante l’utilizzo sempre più massiccio della Rete che molti, in un primo tempo, avevano scambiato come uno strumento riunificante e aggregante.
Per queste esperienze (ad esempio: in Italia quella rivolta al tema dei cosiddetti “beni comuni”) il tema deve essere quello di non limitarsi a rappresentare una sorta di “agenzia di servizio”, bensì quello dalla capacità di recuperare in pieno il terreno dell’universalismo con quel che ne consegue sul piano degli obiettivi politici, muovendosi per spezzare le dinamiche regressive sviluppatesi nel corso degli ultimi 20 anni.
Su questo terreno i deboli movimenti emersi sullo sfondo della globalizzazione andrebbero richiamati a trovare la capacità di ricollegarsi direttamente alla tradizione principale della sinistra entrando anche nel merito delle istanze complessive di carattere economico – sociale.
Su questo terreno le istanze democratico – universalistiche hanno subito colpi terribili per quanto concerne la condizione e la forza dei lavoratori, al punto che la contraddizione rappresentata dallo sfruttamento del lavoro vivo appare interamente subordinata al capitale e le lotte appaiono possibili soltanto su di un terreno difensivo.
Lotte difensive che si svolgono entro limiti sempre più ristretti, senza mascherare comportamenti e scelte politiche arretrate o apertamente reazionarie, quasi a sanzionare una subalternità insuperabile, accettata e difesa a scapito di chi sta ancora peggio, gli autentici proletari della nostra epoca (tutta la vicenda relativa a questa fase, nell’Unione Europea, al riguardo dei Paesi del Sud del vecchio continente, in particolare di Cipro, Grecia, Portogallo appare come la testimonianza più autorevole dello stato di cose appena descritto).
Nondimeno una ricomposizione del mondo del lavoro non è inimmaginabile.
ANALISI DELLA CRISI E RICOMPOSIZIONE DEL MONDO DEL LAVORO
Nel passato pure si sono verificate fasi di grande sconfitta e di smarrimento, seguite da cicli di ripresa del protagonismo operaio che, oggi, o meglio domani, potrebbe rinascere sotto forma di un’aggregazione di tipo transnazionale in cui confluiscano sia lavoratori manuali, sia cognitivi, sia uomini, sia donne.
Si intende, così, sottolineare la forza di una tradizione e di un’eredità pratico – teorica duramente colpita dal crollo del comunismo sovietico e dal trionfo del capitalismo globalizzato e molecolare, ma tutt’altro che cancellata, anche perché il capitalismo piuttosto che mantenere le sue promesse, sta confermando antiche diagnosi, troppo frettolosamente considerate antiquate.
La vera debolezza della sinistra, la sua inadeguatezza pratica e teorica consiste, piuttosto, nell’incapacità di fare i conti con la sua storia e di tematizzare gli esiti sempre più problematici dell’industrialismo.
Si tratta di lavorare per costruire un intreccio, prima di tutto teorico, tra la realtà esistente e imperante della “contraddizione principale” e la necessità di operare una discontinuità, prendendo coscienza della crisi del concetto di illimitatezza dello sviluppo, della totale sottomissione della natura, dell’artificializzazione integrale del mondo, della consapevolezza che la liberazione dal dolore e dall’oppressione dei costumi non rappresenta la realizzazione del progetto emancipativo della modernità, ma la sua riduzione a puro immaginario, subalterno al consumismo individualistico e al dominio della tecnica.
La politica odierna oscilla, così, tra l’adesione incondizionata all’esistente che non permette mai di uscire mai dall’occasionalismo, dalla ricerca spasmodica di un consenso che non serve a nulla, perché nulla non ha da proporre oltre allo spettacolo che la politica intesa in questa dimensione offre di sé stessa.
Ripartire dalle basi teoriche fin qui indicate significa prima di tutto interrogarsi sulla grande crisi in atto: la più significativa dagli anni ’30 del secolo scorso.
Essa proviene, con tutta evidenza, dall’intrecciarsi della frammentazione del lavoro e dalla finanziarizzazione dell’economia.
La svolta monetarista degli anni’80 ha dato il via a una ristrutturazione che ha precarizzato il lavoro, quale che fosse la sua condizione normativa, e ridotto la quota di salari.
La conseguente spinta alla crisi da sovraproduzione di merci è stata tamponata, soprattutto nell’ultimo ventennio, da una crescita del debito concentrata tra finanza e famiglie.
In particolare ha giocato un ruolo importante quello che può essere definita una “sussunzione reale del lavoro alla finanza”.
Grazie all’istituzione di un capitalismo dei fondi pensione, e più in generale, dei fondi istituzionali, i risparmi dei lavoratori, gestiti dai “money manager” si sono riversati nei mercati finanziari prima, e nei mercati immobiliari poi, dando il via a bolle speculative facilitate e spesso riprodotte da un’originale politica monetaria, molto attiva.
Queste bolle, a loro volta, hanno fatto sì che i risparmiatori, entrati in una “fase maniacale” si trasformassero in consumatori sempre più indebitati in forza di quello che gli economisti chiamano “effetto ricchezza”.
Giocava il suo ruolo la compressione del reddito da salario, e l’illusione che potesse essere compensata con il reddito da rendita finanziaria.
Un processo che spiega la dinamicità del capitalismo dalla metà degli anni’90 in avanti, ma anche la sua insostenibilità e l’ineluttabilità della sua crisi.
E’ chiaro che nella sequenza appena delineata l’origine può essere ricercata in una spinta alla stagnazione che proviene dall’emergere di un’insufficienza della domanda effettiva.
Altrettanto evidente è che si deve tener conto dell’evoluzione della finanza nel configurare i termini della risposta capitalistica alla crisi, e le nuove forme presa da quest’ultima, sulla base dell’inedita configurazione del capitalismo, come “capitalismo monetario”.
Per quanto riguarda il lavoro è prevalsa la tendenza “depressiva”, mentre rispetto al piccolo capitale, sarebbe meglio dire, della dimensione delle unità produttive capitalistiche, (il luogo dove avrebbe dovuto costituirsi l’avanguardia del progresso tecnico) è prevalsa la linea di un sempre maggiore “snellimento” delle imprese, tra concentrazioni e delocalizzazioni.
I due fenomeni della trasposizione concreta del lavoro verso la finanza e della frammentazione del lavoro nella produzione, sono strettamente legati.
Il capitalismo che abbiamo di fronte è sempre più un capitalismo “organizzato”.
Esso però è sempre meno legato alla pura e semplice crescita della dimensione d’impresa.
Anche per questo motivo il capitalismo produce sempre meno un’omogeneizzazione della condizione “concreta” del lavoro dentro la produzione.
Insomma abbiamo di fronte quella che è stata definita da Riccardo Bellofiore una “centralizzazione senza concentrazione”, e quest’ultima è stata determinata anche, se non soprattutto, dalla “governance” corporativa voluta dai fondi istituzionali.
Tutto ciò ha dato ragione a un’antica previsione avanzata, a suo tempo, da Rosa Luxemburg: anziché rendere più stabile il capitalismo ha aggravato la tendenza di lungo periodo alla crisi.
Una situazione che richiede, per essere affrontata adeguatamente, l’elaborazione di una linea di sviluppo creativo.
LA FUNZIONE DELL’IDEOLOGIA
Una linea di alternativa e di uscita dall’accettazione totale dell’esistente, non può che essere portata avanti, in queste condizioni, anziché dalla mera elaborazione di un programma economico, da una reinterpretazione del concetto e della funzione dell’ideologia.
La funzione dell’ideologia, come nell’accezione gramsciana deve essere sottratta al pericolo di un’interpretazione meccanicista e volgare, nella quale la sovrastruttura è ridotta a mera conseguenza dell’effetto della struttura.
L’ideologia va così restituita al suo significato positivo di componente, essa stessa strutturale e indispensabile, dell’agire storico.
Perché senza la funzione strutturale dei convincimenti non si possono comprendere le relazioni e i conflitti tra i ceti e le classi, che se muovono da una causa materiale ed economica, hanno sempre una traduzione e un’elaborazione ideale / ideologica (come è accaduta, del resto, con la grande ondata liberista partita dal mondo anglosassone alla fine degli anni’70).
E’ il caso di recuperare una citazione: dai “Quaderni dal carcere” (volume III dell’edizione del 1975, Editori Riuniti, curata da Valentino Gerratana): “La tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali sul terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico” (ovverosia derivante da una vera e propria “teoria della conoscenza”).
L’obiettivo, per contrastare la deriva del capitalismo della “concentrazione senza centralizzazione” deve essere allora, proprio sulla base di quanto fin qui sostenuto, quello della costruzione di un “blocco storico” (fatto ben diverso dalla costruzione di un semplice “blocco sociale”).
E’ necessario fare in modo che donne e uomini riacquistino coscienza della loro posizione sociale e dei loro compiti proprio sul terreno della sovrastruttura (l’ambito cioè delle forme di coscienza, delle visioni del mondo, del come l’esistenza può essere pensata, significata, interpretata ed elaborata).
Tutto questo ha bisogno, per essere interpretato dai soggetti sociali, di un adeguato luogo politico che può e deve essere ancora denominato come “Partito”.
UNA PROPOSTA DI “PARTITO CONSILIARE”
Un Partito non può essere concepito come un piccolo nucleo cui si affida il compito di preparare e dirigere la lotta mentre le “vaste masse popolari” occupano semplicemente gli spazi sociali disponibili.
Un Partito non può risultare estraneo alla quotidianità di quell’intreccio struttura e sovrastruttura cui si è accennato ma neanche immerso nell’istituzionalizzazione della battaglia politica come potrebbe avvenire oggi per un partito a integrazione di massa di matrice socialdemocratica, strutturato sul modello dei “cerchi concentrici” secondo l’elaborazione di Maurice Duverger.
Un Partito comunista, anticapitalista, di opposizione per l’alternativa oggi può e deve essere fondato su alcuni punti di forte innovazione, al riguardo della pratica politica appartenuta alla nostra tradizione.
La proposta specifica di un rinnovamento reale nella “forma partito” dei comunisti può quindi configurarsi come proposta di un “partito consiliare”.
Un partito consiliare da intendersi non come mediazione fra le diverse realtà esistenti, ma come indicazione di un vero e proprio punto d’innovazione tra la crisi del partito inteso come tale e il compiuto scivolamento nel meccanismo perverso dell’americanizzazione della politica.
Sulla base di questa valutazione e di queste analisi vanno individuate, anche nel campo specifico dell’organizzazione, alcune coordinate interpretative della realtà, capaci di definire una prima risposta ai problemi fin qui indicati, evitando di mistificarli o di banalizzarli. La proposta di partito consiliare prevede tre discriminanti specifiche:
a) Una dialettica forte e permanente tra il partito, considerato una parzialità tendente alla sintesi e i movimenti di massa;
b) Una dialettica forte e permanente tra il Partito e lo Stato: assumendo per intero il dato del deperimento del concetto di “Stato – Nazione” e dell’emergere, non soltanto sul piano europeo, di realtà insieme transnazionali e sovranazionali;
c) Un nuovo rapporto tra specialismo e politica, tentando di realizzare una forte verticalizzazione nella capacità elaborativa delle sedi politiche;
In conclusione è necessario ricordare ancora il punto che, al riguardo del tema della “forma-partito” deve essere totalmente innovato: si tratta cioè di affrontare concretamente la realtà dell’uscita da una condizione storica dove un vertice istituzionalizzato si è alla fine sovrapposto a una massa polverizzata, confinata nella sua spontaneità, fino al punto di smarrire qualsiasi, anche minima, cognizione identitaria: com’è avvenuto, rovinosamente, nell’esperienza italiana di Rifondazione Comunista.
I ritardi di cultura politica, con i quali ci troviamo da tempo a dover fare i conti, derivano in gran parte da questo tipo di situazione perpetuatasi nel tempo.

IL RUOLO DEI MOVIMENTI DI MASSA
La fase che stiamo vivendo, sul piano storico, pare essere contrassegnata da una sorta di “conflitto permanente” tra i movimenti di massa e le forme strutturate d’iniziativa e partecipazione politica come i partiti, con momenti d’intreccio, sovrapposizione, trasposizione di ruoli spesso fonte di fraintendimenti ed equivoci tali da sgomentare le grandi masse, all’interno delle quali spuntano consistenti elementi di sfiducia o disaffezione a cui si contrappongono momenti molto alti di mobilitazione in forma collettiva, come sta accadendo in questo momento in diverse parti del mondo, ovviamente con diversi obiettivi, specificità d’iniziativa, contesto sociale e politico.
All’interno di una discussione sulle forme della politica che pure dovrà essere portata avanti nel senso di una vera e propria “riprogettazione” sarà allora il caso di fissare alcuni punti di fondo, si direbbe quasi “fondamentali” al riguardo delle linee di sviluppo teorico dell’analisi politica relativa ai movimenti di massa.
Come possono essere considerati, allora, i “movimenti”?
In primo luogo i “movimenti” possono essere considerati come una rete di relazioni informali tra una pluralità di individui e gruppi, più o meno strutturati dal punto di vista organizzativo.
Se i partiti o i gruppi di pressione hanno confini organizzativi abbastanza precisi, essendo l’appartenenza sancita da una tessera di iscrizione (che, adesso, può anche essere acquisita “on line”) a una specifica organizzazione, i movimenti sono invece composti di reticoli dispersi e debolmente connessi di individui che si sentono parte di uno sforzo collettivo.
Sebbene esistano organizzazioni che fanno riferimento ai movimenti, i movimenti non sono organizzazioni, ma piuttosto reti di relazioni tra attori diversi, che spesso includono, a seconda delle condizioni, anche organizzazioni dotate di struttura formale (ad esempio, come accaduto all’interno del “Genoa Social Forum” all’epoca del G8 2001).
Un tratto peculiare dei movimenti è, infatti, il poterne far parte, sentendosi quindi coinvolti in uno sforzo collettivo, senza dover automaticamente aderire a una qualche organizzazione.
Queste reti di relazione assolvono la fondamentale funzione di permettere la circolazione delle risorse necessarie per l’azione collettiva, favorendo l’elaborazione di nuove interpretazioni della realtà.
Esse vengono considerate come costituenti un “movimento sociale” nella misura in cui i loro membri condividono un “sistema di credenze” (definizione da Donatella Della Porta – introduzione alla Scienza Politica – il Mulino 2002) nutrendo nuove solidarietà e identificazioni collettive.
Caratteristica dei movimenti è, infatti, l’elaborazione di visioni del mondo e sistemi di valori alternativi rispetto a quelli dominanti.
I movimenti contribuiscono al formarsi di un vocabolario e all’emergere di idee e opportunità di azione che, in passato, erano sconosciute o persino inconcepibili (si pensi agli “indignados” spagnoli, o al movimento americano di “Occupy Wall Street”).
Per questo i movimenti sono considerati i protagonisti del mutamento sociale.
I valori emergenti sono poi alla base delle definizione dei conflitti attorno ai quali gli attori si mobilitano.
In particolare dagli anni’70 del secolo scorso si è imposta l’esigenza, a livello teorico e di azione concreta sul campo, di un intreccio tra la centralità del conflitto capitale/lavoro e le rilevanze di diversi criteri di stratificazione sociale, in particolare generazionali e di generi, mutando i termini complessivi della contrapposizione sociale “classica” tra una classe popolare e una classe superiore che si erano contrapposte all’interno della società industriale, come era già avvenuto in quelle agrarie e mercantili.
Differenza di genere, difesa dell’ambiente naturale, convivenza tra diverse culture hanno rappresentato i temi sui quali sono sviluppati nuovi movimenti che hanno assunto, rapidamente, rilevanza globale.
Si è così cercato di organizzare questa nuova qualità di proposta dei movimenti attraverso un modello di tipo pluralista: un sistema, cioè, di rappresentanza degli interessi con associazioni multiple, volontarie, concorrenti, non gerarchiche e non necessariamente differenziate secondo criteri funzionali.
Questo sistema pluralista è poi rapidamente “scivolato” (a partire dai paesi a più alto tasso di protezione sociale da parte dello Stato, come ad esempio nel Nord Europa) in un modello definito “neocorporativo”.
Il modello neocorporativo moderno, detto anche corporativismo liberale o societario è, infatti, un sistema di rappresentanza degli interessi in cui le unità costitutive, come è stato appena ricordato, sono singole, caratterizzate da un sistema di relazioni poco sviluppato, con una struttura organizzativa frammentata, che deve fare forte affidamento sulla sua base, e ha quindi difficoltà a sviluppare programmi di lungo periodo.
Va indicata subito, senza esitazioni una collocazione del Sindacato fuori dall’ambito del modello neocorporativo della concertazione e della “triangolazione di interessi”: serve un sindacato basato sul modello pluralista, con struttura e processi interni democratici, effettivamente rappresentativi della domanda che sale dal mondo del lavoro, in grado di definire e proporre le proprie richieste sulla base di un’attenta analisi di classe ponendosi quale soggetto “generale” rispetto ai grandi temi dei livelli della contrattazione, dei livelli occupazionali, della proposte di investimento pubblico, delle politiche di riqualificazione della forza lavoro.
Il Sindacato deve mantenere alto il tiro della conflittualità sociale e porsi, in rapporto, con la politica in una forma di assoluta autonomia pur nella ricerca delle forme di intreccio più adeguate e coerenti al riguardo delle comuni propensioni, rispetto ai soggetti rappresentative delle istanze di fondo su cui basare la trasformazione del sistema e rappresentare la dimensione di classe.
Il tema dell’“autonomia del politico” e quella dell’“autonomia del sociale” deve essere affrontato, al riguardo della realtà del Sindacato, come la ricerca di un necessario punto di saldatura perché al Sindacato non sia assegnato, sempre e comunque, un ruolo subalterno dicendo di no al ripiegamento e al rifugio nella “parzialità”.
La logica dei movimenti strutturati su “single issue” conduce a due esiti dal punto di vista della dinamica di confronto sociale e politico: quello del lobbyng e quello della ricerca della concertazione, attraverso il meccanismo della consultazione degli interessi organizzati da parte delle istituzioni pubbliche e una loro partecipazione alle decisioni.
Si tratta, per rimanere all’interno dei confini del “caso italiano”, del modello che si potrebbe definire dei “beni comuni” (portato avanti, essenzialmente, attraverso la logica referendaria, oppure dell’offerta alle istituzioni di “agenzie di servizi” utili per elaborare proposte e progetti attorno a temi specifici, da offrire poi alla mediazione istituzionale da realizzarsi attraverso canali di presunta “democrazia diretta” e/o referendari).
Insomma: qualcosa di molto lontano dalla prospettiva di un’elaborazione e di una pratica di massa tendente a una trasformazione complessiva del sistema.
Sullo sfondo l’ipotesi di grandi compromessi tra i gruppi focalizzati su temi legati alla produzione e gruppi legati ai consumi: come sta avvenendo del resto, in tante realtà, sui temi di carattere ambientale e di conflitto tra industria, ambiente, difesa della salute.
In ogni caso si tratta di un modello che pone in evidenza la necessità di ridurre da parte delle istituzioni ,l’eccesso di domande frammentate e contraddittorie: in assenza di una capacità di sintesi alternativa l’ipotesi è quella della riduzione del rapporto tra politica e società: una riduzione di rapporto che equivale a un restringimento nei margini di agibilità democratica (presidenzialismo, ruolo del governo, leggi elettorali maggioritarie, elezione diretta delle cariche monocratiche, ecc.), con l’obiettivo di emarginare sempre di più i gruppi non dotati di potere di ricatto economico (disoccupati, studenti, consumatori, ecc.).
E’ evidente che il solo antidoto a questo processo di vera e propria degenerazione della democrazia, che si avvale ovviamente anche dell’utilizzo dei meccanismi di innovazione tecnologica sul piano della comunicazione, del processo di spettacolarizzazione della politica, dell’eccesso di individualismo e di personalizzazione, è quello della ripresentazione sulla scena del conflitto sociale delle grandi sintesi del cambiamento, dei grandi progetti complessivi di trasformazione politica e sociale.
E’ un tema novecentesco che si ripropone per intero in quest’avvio di millennio, ed è il tema della strutturazione politica, dei partiti, cui è già stato dedicato spazio in questo testo, attraverso l’elaborazione di una precisa proposta politica di “partito consiliare”

UNO SGUARDO AL “CASO ITALIANO”
Quanto durerà il governo Letta? Considerate le forti fibrillazioni alle quali è sottoposto, per diversi motivi, l’intero sistema politico italiano, la domanda appare più che legittima e i pronostici quanto mai difficili e occorre cercare una risposta che si collochi ben oltre all’attualità contraddistinta dalla valutazione della situazione giudiziaria di Silvio Berlusconi.
Eppure non si tratta della domanda giusta che, invece, dovrebbe essere riformulata in questo modo: quali prospettive ha il “modello” di cultura politica cui s’ispira il governo Letta, in una visione di cambiamento del sistema?
In questo caso la risposta può risultare sufficientemente precisa: altissime probabilità di affermazione, almeno nel medio periodo.
Anche perché si tratta di un modello che si è ormai insediato nella mentalità di gran parte degli operatori politici ed ha già avuto una sua prima sperimentazione (sia pure di diversa intensità e qualità) con il governo Monti: il modello che Ilvo Diamanti ha definito “democrazia degli ottimati”.
Qualcuno obietterà tirando in ballo la presunta debolezza di questo tipo di governo: ebbene sarà facile rispondere che proprio questa debolezza (e la tattica del rinvio assunta come metodo) rappresentano un vero e proprio punto di forza, con una sua ragione fondamentale: l’impossibilità di un’espressione bipolare del sistema italiano a livello centrale (come invece è possibile a livello locale). L’affermazione, nel medio periodo irreversibile, di una nuova forma di “pluralismo polarizzato” (derivante anche dall’adozione di un certo tipo di sistema elettorale, che non potrà essere modificato nel senso del ritorno – appunto – a una possibilità di offerta politica “bipolare”) rappresenta una sorta di “camicia di Nesso” che imprigiona gli attori politici presenti nella nostra arena, costringendoli in una qualche misura ad assumere gli atteggiamenti cui stiamo assistendo proprio sul terreno di quelle che sono state definite “larghe intese”.
Esistono però motivazioni molto più profonde, poste proprio nel campo di un’espressione di cultura politica, che rendono e renderanno stabile questo incontro “al centro” tra i due “storici” competitor della fase apparentemente bipolare sviluppatasi nel primo decennio del 2000 .
Motivazioni che risiedono nell’evidente emergere di un vero e proprio dato di omogeneità culturale, almeno tra il “grosso” del notabilitato già di centrosinistra e del suo omologo già di centrodestra (tanto per usare una datata toponomastica politica e rendere, così, più intellegibile il discorso all’esterno).
Sul piano della dinamica di periodo saranno due i punti sui quali si verificherà questa espressione di omogeneità nel tentativo, considerata presumibilmente l’eventualità dell’uscita di scena del “protagonista storico” del periodo che è trascorso dal 1994 a oggi, di chiudere l’infinita “transizione italiana”:
1) Il mutamento della forma di governo e l’adozione del presidenzialismo (in quale formato si vedrà: al momento sembra favorito il modello francese, al riguardo del quale però dovranno essere svolte ancora accurate riflessioni). Il presidenzialismo sembra proprio essere ritenuto quel punto di cultura politica che può suggellare quel dato di omogeneità cui si faceva già ampio cenno e la forma di governo più adatta alla fase storica, sulla base della quale costruire un nuovo regime (nell’accezione piena, non semplicemente dispregiativa) del termine. Ciò per almeno tre motivi: il primo quello della previsione dell’insorgere di una fase d’intense turbolenze sociali (prive del resto, pressoché completamente, di referenti politici: anche per scelta delle stesse più importanti espressioni di movimento che appaiono essere in grado di provocare le più forti insorgenze) che dovranno essere affrontate con una dose ulteriore di autoritarismo al di là dei meccanismi repressivi già in atto. Autoritarismo che può trovare una sua fonte di legittimazione soltanto dall’espressione di un potere di tipo monocratico; il secondo motivo è quello della suffragazione definitiva della personalizzazione e dell’individualismo competitivo (che il PD, partito di pieno regime correntizio, ha ritenuto istituzionalizzare attraverso il ricorso alle “primarie” in una misura pressoché generalizzata, sia per le cariche elettive, sia per quelle di partito). Personalizzazione e “individualismo competitivo” rappresentano il fondamento di questa comune cultura di governo, tra le espressioni di quelli che dovrebbero essere diversi schieramenti; il terzo motivo è quello di un’altrettanta comune visione della democrazia fondata sull’intreccio tra una “democrazia governante” all’interno della quale si agisce sulla base di una completa separatezza tra governanti e governati (hanno impressionato le “distaccate” analisi sviluppate dal prof. D’Alimonte al riguardo del vistosissimo calo nella partecipazione al voto nelle elezioni amministrative) e la cosiddetta “democrazia del pubblico” laddove cittadine e cittadini, magari via web, sono “consultati” su specifiche questioni (mai collegate tra loro in una visione di progetto generale) e chiamati, così, ad assistere a una sorta di “evento della politica”. Si realizzerebbe, in questo modo, una sorta di cocktail micidiale tra le teorie di Licio Gelli e quelle di Gian Roberto Casaleggio. Uno scenario inquietante, non c’è che dire, almeno per i sinceri democratici;
2) Il secondo punto sul quale si verificherà la consistenza di questa omogeneità di nuovo conio tra ex-centrodestra ed ex-centrosinistra sarà quello della questione europea: e bene lo vedremo all’opera nella campagna elettorale per il Parlamento Europeo, prevista per la primavera del 2014. Entrambi gli schieramenti si troveranno nella condizione di sviluppare la competizione elettorale attorno ad un punto in comune (poi gli accenti propagandistici saranno diversi, figuriamoci): quello dell’appoggio indiscriminato a questa Europa, a “queste” istituzioni europee, a “questa BCE”, a “questo” monetarismo, a “questa” volontà capitalistica, che proprio a livello europeo sta esprimendosi al meglio, di soffocamento economico e di repressione politica delle grandi masse popolari. Si tratterà di un punto in comune di formidabili proporzioni sul piano politico, il vero e proprio momento di suggello dell’apertura di una nuova fase.
Dal nostro punto di vista la necessità di costruzione di un soggetto di opposizione per l’alternativa appare urgente e ineludibile che va posta proprio sul piano europeo in una dimensione assieme internazionalista e sovranazionale.
L’espressione concreta, per dirla con uno slogan riassuntivo magari un po’ usato ma sempre valido : un’altra Europa.
Per riuscire nel concreto a muoversi in questa direzione è obbligatorio metterci al lavoro per costruire un’adeguata cultura politica: basata, però, su di una “visione del mondo”, non sui dettagli di pur sacrosante specificità rivendicative o territoriali.
Una sinistra d’alternativa e d’opposizione che sappia “volare alto” sia rispetto all’espressione di una teoria del cambiamento, sia nella quotidianità della lotta di difesa nella società e nella politica.

FUORI DAL MINORITARISMO: VOLARE ALTO, AGIRE NEL CONCRETO
I fenomeni determinanti nel mutamento della fase politica possono essere così riassunti:
a) La crisi (nel senso classico di “krisis”) dello “Stato – Nazione” (il filosofo tedesco Teubeuer scrive di “sistema aperto del nuovo mondo");
b) La qualità nuova della situazione economico-finanziaria a livello globale e i suoi specifici risvolti europei, dei quali vanno disvelati alcuni punti – chiave (debito pubblico/ debito privato, ecc.)
c) L’evidenziarsi di un vero e proprio mutamento di paradigma nell’“agire politico” con l’emergere di una sorta di ideologia della “politica tecnica”, che trova in un “caso Italiano” di segno ben diverso da quello che eravamo abituati storicamente a considerare, un rilevante punto di saldatura . Un mutamento di paradigma che trova nell’omologazione culturale tra i diversi soggetti presenti nel sistema politico italiano la sua espressione più coerente nel “governo delle larghe intese” la cui prospettiva appare essere quella, al di là delle forme concrete nelle quali si articolerà la contesa politica, della costruzione di un regime “ a pensiero unico”. Per questo preciso motivo, la nostra prospettiva deve essere quella della costruzione di un largo campo dell’opposizione per l’alternativa per intervenire nella politica, nella società, nel dibattito culturale, nelle istituzioni.
Si tratta di fenomeni interconnessi che hanno dato origine a quello che risulta essere, dal nostro punto di vista, l’elemento centrale da affrontare nella fase: Il recupero del nostro antico bagaglio, in un’idea di intreccio tra rinnovamento e recupero.
Sotto quest’aspetto:
1) E’ necessario partire da noi, dalla nostra autonomia, dalla capacità di far politica della sinistra comunista, in rapporto con i settori sociali, più avanzati in Italia e in Europa;
2) Nella crisi che stiamo vivendo (della quale abbiamo enucleato i fenomeni sopra accennati ai punti a,b,c) sta arrivando a compimento, infatti, un gigantesco processo storico di integrazione di massa, nel segno della “rivoluzione passiva”;
3) Per leggere questa crisi con gli occhiali giusti è necessario assumere tre avvertimenti “profetici” che hanno avuto il torto di essere stati lanciati con anticipo rispetto alle dinamiche della storia e aver cozzato “contro” l’impatto fornito dal processo di “rivoluzione avvenuta” in URSS: Hilferding e la finanziarizzazione dell’economia; Luxemburg socialismo e barbarie (un fenomeno che vediamo svilupparsi impetuosamente nell’attualità, proprio sotto i nostri occhi); Gramsci “americanismo e fordismo” (certo il fordismo è finito, ma è rimasto in piedi il concetto devastante di asservimento al ciclo produttivo nella forma di una nuova qualità di intreccio tra struttura e sovrastruttura”);
4) IL cuore dello scontro è ancora qui, nell’Occidente sviluppato, il cui meccanismo di produzione è ancora regolato dai rapporti di classe e dall’intreccio tra questi con lo sviluppo più avanzato delle contraddizioni post-materialiste (platea degli sfruttati che si allarga fino a comprendere settori dei produttori; i livelli di consumo acquisiti – qui sta il nodo dell’intreccio appena citato – impediscono di pensare di poter far leva su di un avanzamento della pauperizzazione che porterà, invece, a un ulteriore sfrangiamento e all’emergere di nuove contraddizioni sociali sempre più complicate da regolare (verrebbe alla mente il maoista “contraddizioni in seno al popolo”);
5) Dobbiamo uscire dal pantano della crisi attraverso la politica. L’Italia è stata il luogo dove la presenza politica della sinistra comunista, attorno ai temi fin qui sommariamente descritti, aveva raggiunto lo sviluppo più avanzato sia sul piano teorico, sia su quello politico, rispetto soprattutto al tentativo di inveramento statuale di fraintendimento del marxismo;
6) L’esperienza della sinistra comunista è stata chiusa inopinatamente, almeno in Italia, proprio per il prevalere delle spinte all’integrazione di cui al punto 2 e al cedimento strutturale alle forme dell’americanizzazione della politica;
7) Dalla chiusura della storia della sinistra comunista in Italia sono usciti soggetti dalla vocazione minoritaria del tutto interni al processo descritto ai punti 2 e 6. Rifondazione Comunista, messa su in fretta e furia ragioni di posizionamento elettorale senza alcuna continuità di orientamento e di direzione politica con la sinistra del PCI che si era opposta alla liquidazione del partito, ha compiuto un vero e proprio capolavoro di eutanasia con la collocazione strumentalmente assunta di internità al “movimento” in occasione del G8 di Genova nel 2001: eguale atteggiamento è stato tenuto, cercando di conciliare il massimo della “autonomia del politico” (addirittura il governo) e il massimo di “autonomia del sociale” ( i no-global) fino alle vicende dei cosiddetti “beni comuni”. Inoltre sta realizzandosi la formazione di un cartello “riformista” tra SeL e altre aree politiche (a partire dall’iniziativa di “difesa della Costituzione” avviata da Rodotà e Landini), occhieggiando a parti del M5S, con l’idea di recuperare il PD a una linea “diversa”: ipotesi, come abbiamo già avuto occasione di dimostrare, del tutto analiticamente errata.
8) In questo quadro è necessario riprendere i temi di fondo della nostra elaborazione “storica” senza nessuna concessione di facciata a una presunta “modernità”: serve una lettura adeguata dello stato di cose in atto, una corretta analisi della crisi e delle prospettive del capitalismo (per fare un riferimento storico, qualsivoglia ipotesi di carattere programmatico dovrebbe partire da un dibattito del livello di quello svolto, proprio sul tema delle tendenze del capitalismo, nel 1962 dall’Istituto Gramsci);
9) Debbono essere strettamente intrecciati due piani: la prospettiva di una trasformazione radicale dell’esistente e la proposta di una società alternativa e un programma politico raccolto attorno al tema del recupero, in Occidente, dei termini di ragionamento per la costruzione di un’alternativa partendo, fin dalle prossime elezioni europee, in una dimensione di collegamento sovranazionale e internazionalista;
10) Su queste basi la costruzione di un nuovo soggetto politico, senza aver paura di chiamarlo partito, da edificarsi, come è già stato richiamato, attraverso una strategia di tipo “consiliare” senza concessioni al movimentismo e comprendendo anche le ragioni, non meramente propagandistiche, di rinnovamento del gruppo dirigente centrale e periferico e con un’idea precisa di soggetto di acculturazione di massa e di creazione di un nuovo quadro dirigente “diffuso”.
11) Fondamentale importanza avrà, nella costruzione di questa nuova soggettività, lo schierarsi dalla parte di una certa idea del “far politica” che coincida con quanto indicato dalla Costituzione Repubblicana: no al presidenzialismo, centralità del Parlamento e degli altri consessi elettivi anche a livello locale, spazio alla rappresentatività politica in intreccio e non in subordine alla governabilità (ne consegue, anche se non compresa in Costituzione, l’opzione per un sistema elettorale proporzionale);
12) L’incognita della legge elettorale rende difficile la valutazione dello spazio politico effettivamente a disposizione, ma l’esigenza di una nuova soggettività in questo quadro (l’arroccamento - disfacimento del PRC, e la subalternità di SeL al PD, dopo il fallimento di ben due linee politiche in sei mesi: SeL che rimane l’esempio più evidente di integrazione di un soggetto di sinistra dentro il vortice dell’americanizzazione della politica, tra l’altro malamente scimmiottata) appare comunque molto forte e i lavori dovrebbe iniziare al più presto.


NELLA SOSTANZA DELLA PROPOSTA POLITICA:

1) Emerge, in Italia e fuori d’Italia, l’esigenza di lavorare sia sul terreno teorico sia su quello immediatamente politico, per la ricostruzione di una soggettività di sinistra comunista, anticapitalista e di opposizione per l’alternativa collegata a precise istanze che derivano dalla nostra storia, all’identificazione nell’attualità di precisi filoni culturali di riferimento, alla progettazione di adeguate iniziative politiche sia al riguardo della struttura del soggetto sia sul piano progettuale – programmatico. La qualità stessa della gestione capitalistica della crisi (che abbiamo tante volte analizzata come orientata nel senso complessivo della “ricollocazione di classe” ed espressione di una “nuova repressione”) impone un discorso di questo tipo;
2) Un lavoro da impostare seguendo filoni ben precisi di orientamento proprio sul piano teorico: partendo, ovviamente, dall’Italia perché qui siamo chiamati ad agire. Ripropongo, quindi, l’utilizzo – per quanto possibile – il filone della “sinistra comunista” italiana da Gramsci a Ingrao al sindacato dei consigli al “Manifesto” (direi che l’arco temporale di riferimento può essere identificato tra le Tesi di Lione del 1926 e la relazione di Magri ad Arco nel 1990). E’ evidente che, pur considerata tutta l’importanza dell’elaborazione portata avanti dalla sinistra comunista in Italia (che qui è presa in considerazione soprattutto per via della “capacità storica” di realizzare un’autonomia non di facciata dall’imposizione sovietica) occorra – anche sul piano dello studio – un collegamento con riferimenti internazionali posti sul piano più alto nella storia del marxismo al di fuori dei filoni emersi dalla Rivoluzione d’Ottobre: Luxemburg, Pannekoek e la sinistra socialdemocratica, in particolare l’austromarxismo e l’elaborazione (torno in Italia) di Panzieri e dei “Quaderni Rossi”. Senza cadere nel sociologismo della Scuola di Francoforte (origine, a mio giudizio, della mancata “incidenza politica” del ’68) e tenendo fermi due punti: il prevalere della tensione etico – politica sulla banalità dell’economicismo e la capacità, sempre e comunque, di un’espressione piena di “critica della modernità”. “Critica alla modernità” che deve essere espressa anche rispetto all’utilizzo di massa dell’innovazione tecnologica che sta verificandosi all’interno del filone del “consumismo individualistico” e dell’isolamento soggettivo;
3) Il primo orizzonte da scrutare riguarda la visione internazionalista nella lotta per la liberazione dei popoli. Senza offrire alcun modello (è questa la differenza con la lotta anticoloniale della prima metà del ‘900 fino agli anni’60 quando si compì la liberazione dell’Africa) è necessario mantenere questo tipo di tensione internazionalista rispetto alle grandi lotte popolari in atto, a tutte le latitudini, per l’affrancamento dalla gestione capitalistica della crisi e la fuoriuscita dai meccanismi di vero e proprio “soffocamento” della democrazia. Ognuno con le proprie specificità: senza cadere, quindi, nell’errore del considerare il tutto “movimento dei movimenti” e collocarsi acriticamente al loro livello (questo sì sarebbe semplicemente adeguamento a una presunta “modernità”) e collocando a questo livello la lotta al razzismo e il tema del rapporto con le masse di diseredati costretti a lasciare il loro Paese per cercare altrove la possibilità di sopravvivere, sia pure nelle forme estremamente precarie che il capitalismo offre allo scopo di mantenere, assieme, sfruttamento e dominio culturale e politico;
4) Per quel che riguarda il “caso italiano” (dizione da rivalutare: in senso opposto però al significato che aveva assunto tra gli anni’60 – ’70) sono almeno tre i punti sui quali soffermarci prioritariamente: il primo riguarda l’omologazione culturale tra le forze maggioritarie del sistema politico, sulla base del quale si sta costruendo un vero e proprio “regime” (al contrario, tanto per far un esempio spicciolo, di ciò che accadde all’epoca della solidarietà nazionale e della linea della fermezza rispetto al terrorismo: uscirne fu comunque un merito di Berlinguer che non può essere, nella critica complessiva all’operato dell’area centrista del PCI, sottaciuto); il secondo riguarda la degenerazione nella qualità della democrazia italiana, sia rispetto al tema europeo (che va affrontato specificatamente come non faccio in quest’occasione) sia rispetto alla logica della riduzione del rapporto tra politica e società in nome dell’eccesso di domanda (presidenzialismo, centralità del governo, legge elettorale: tanto per toccare i punti nevralgici di questa strategia riassumibile, alla fine, nella logica espressa da JP Morgan al riguardo della Costituzione e nella sostanziale indifferenza o malcelata soddisfazione di tutti per la verticale espressione di disaffezione al voto. Il terzo riguarda il deserto politico esistente nell’area della sinistra alternativa. Ma movimentismo e rivendicazionismo che appaiono essere, alla fine, l’altra faccia della medaglia ( o forse la complementarietà degli elementi, davvero rozzi, che hanno portato al successo del movimento 5 stelle) debbono essere affrontati con rigore sulla base di un’analisi delle nuove dimensioni di classe e con la precisione dei riferimenti teorici e politici.

PER CONCLUDERE
Il solo punto di partenza possibile al fine di inquadrare questo obiettivo risiede nell’espressione piena di un’identità dalla quale è possibile far discendere una visione di egemonia politica.

La visione dell’egemonia che si intende qui richiamare, concludendo questo lavoro, è interamente quella gramsciana: egemonia per Gramsci non è soltanto forza mista a consenso, ma è la capacità di individuare le forme che devono regolare i comportamenti delle diverse soggettività politiche a partire dalla comprensione piena della loro funzione, delle loro caratteristiche morali, delle loro capacità progettuali.
Una visione opposta a quella della politica intesa come potenza, che individua la direzione che la classe operaia è in grado di esercitare sulla società.
Non sono parole vuote o antiche: rappresentano ancora oggi, nel senso dell’indicazione di un filone, di una precisa direttrice di marcia, l’intendimento al riguardo del quale è necessario muoverci, a partire dall’opposizione a questa società per arrivare a trasformare davvero “lo stato di cose presenti”.

Franco Astengo

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