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SPAZIO E RUOLO DEL RIFORMISMO NEL XXI SECOLO

(27 Febbraio 2014)

spazioeruolo

In un articolo davvero interessante pubblicato oggi 27 Febbraio dal “Manifesto”, Sergio Cesaratto riprende i temi sollevati da un saggio scritto nel 1975 dall’attuale ministro dell’Economia, Padoan e pubblicato al tempo da “Critica Marxista”.
Il titolo di quel saggio appare ancora adesso estremamente esemplificativo “Il fallimento del pensiero keynesiano”: Padoan faceva parte, all’epoca, di un gruppo di giovani economisti che stava lavorando presso l’Istituto Gramsci sul tema “Limiti del dirigismo e fondamenti teorici della politica delle riforme”.
Tralasciando il resto dell’articolo di Cesaratto e i suoi riferimenti (del resto molto plausibili, come ad esempio il saggio di Paggi e D’Angelillo del 1986) è il caso, però, di interrogarsi oggi, ancora una volta, sulla domanda fondamentale: c’è spazio e ruolo per il riformismo?
Una domanda antica, così come appaiono antichi e quasi immutabili i presupposti complessivi di un ragionamento di merito che pure può essere portato avanti, tenendo conto dall’intangibilità complessiva dimostrata dal permanere della “contraddizione principale”.
La dura e cruda realtà del primato della “contraddizione principale” permane pur in tempi di mutamento vorticoso nell’utilizzo della tecnologia, di avvento e insieme declino della globalizzazione e di spostamento nei riferimenti di mercato a livello planetario. Senza contare fattori sovrastrutturali di grande importanza quali la velocità della comunicazione, il peso crescente dei mezzi d’informazione diversi dalla classica carta stampata, dal modificarsi nelle forme di azione di agibilità a tutti i livelli all’interno dell’arena politica.
Sulla base di queste considerazioni, riassunte all’osso per esigenze di spazio, appare insomma quanto mai necessario chiedersi di nuovo quale spazio e quale ruolo abbia il riformismo nella fase attuale, tenuto conto anche del peso che il vincolo esterno, specificatamente quello europeo, riveste nel limitare eventuali politiche espansive a uso interno.
Il fatto essenziale, però, rimane quello dell’esistenza di una crisi grave del capitalismo italiano, dopo il fallimento delle partecipazioni statali, le difficoltà evidenti del modello fondato sui distretti e sulla piccola e media industria, l’assenza di un piano industriale complessivo , l’obsolescenza del sistema delle infrastrutture, il rovesciamento nel rapporto con il capitale finanziario causato dalla crisi del subprime dal 2008.
Su questo punto torna però d’attualità un antico e sempre nuovo elemento d’analisi: la crisi non ha più un carattere qualitativo ma ne ha anche uno quantitativo.
Non è più crisi nello sviluppo, ma crisi dello sviluppo : proprio come si diceva una volta.
La seconda cosa, ripresa dall’analisi di ieri, ma resa ancor più pregnante dall’urgenza dell’attualità, è quello che se si vuole ancora parlare di sviluppo (diffidando di teorie della “decrescita” o evitando di aggiungere inutili orpelli del tipo “sostenibile”) occorre riflettere su di un modello diverso che proponga cioè modificazioni profonde nella distribuzione del reddito, del ruolo dello stato dell’economia, di politiche sovranazionali che tengano conto dello spostamento di peso specifico al di fuori del perimetro dello “Stato –Nazionale”, del tema infinito del rapporto con l’ambiente e il complesso della vivibilità umana.
La crisi di questi ultimi anni ha prodotto, in particolare in Italia ma non solo, due elementi di grande portata: la crescita delle diseguaglianze e lo spostamento d’asse nell’esercizio della democrazia verso la personalizzazione, il presidenzialismo, la governabilità in luogo dell’antica centralità della rappresentanza politica.
Nel frattempo abbiamo avuto, all’interno del quadro complessivo di un processo massiccio di finanziarizzazione dell’economia, un vero e proprio rovesciamento nella funzione della rendita e del parassitismo (questo secondo elemento usato a lungo, all’interno del caso italiano, quale fattore determinante nella conservazione del consenso politico ed elettorale).
Proprio lo scatenarsi di spinte corporative, le forme nelle quali – attraverso rendita e parassitismo – il potere politico cerca un sostegno, la corruzione dilagante e i benefici autoassegnatisi in maniera esponenziale che hanno portato al conio dell’antipatico termine “casta” per designare il ceto politico, hanno prodotto- prima di tutto – una rottura di blocco sociale, in secondo luogo una politica di taglio del consumo possibile, in terzo luogo del fenomeno della cosiddetta “antipolitica” foriera di ventate autoritarie e populistiche.
Questi fattori che, sommandosi e moltiplicandosi, hanno concorso a definire la crisi hanno prodotto il blocco complessivo di qualsiasi ipotesi di sviluppo, sfarinato le identità e i raggruppamenti sociali, resa impotente la rappresentanza dei corpi intermedi, a partire dai sindacati, aperto la strada all’assalto alla diligenza di lobby e gruppi di potere più o meno occulti.
Ciò significa, in pratica, che oggi una operazione riformista, se veramente volesse proporsi di risolvere il problema dello sviluppo, dovrebbe avere un carattere molto più ambizioso e coerente di quanto ancora neppure si proponga.
Vediamo allora gli ostacoli oggettivi a una azione riformista di tipo classico, come proposto anche da qualche settore politico non secondario, in Italia e in Europa, dopo il fallimento evidente del “New Labour” e del blairismo, sul quale pare attardarsi ancora l’apparente “nuovo corso” della politica italiana:
a) L’incertezza nella ricomposizione di un nuovo assetto della divisione internazionale dell’economia, con il ripresentarsi sulla scena di una sorta di logica dei blocchi, di eventualità di guerre periferiche di dimensioni rilevanti, di crisi evidente dei cosiddetti “paesi emergenti” e in particolare del BRICS e anche di quelli che apparivano in una più sicura fase di espansione come la Turchia;
b) Il limite che offre un quadro europeo inteso quale solo campo nel quale sviluppare un’operazione di “rilancio democratico” dello sviluppo capitalistico, magari in nome di una generica “lotta all’austerità”;
c) La degenerazione evidente del sistema politico italiano, dopo la fase della “Lunga transizione”, dell’introduzione del maggioritario e dello spostamento d’asse dalle assemblee elettive verso il potere di figure monocratiche. All’ombra di questi fenomeni che hanno assunto aspetti di vera e propria degenerazione si situa la già citata disgregazione corporativa del corpo sociale. Da ciò è derivata la conseguente crisi dei valori collettivi e l’affermarsi di una effettiva egemonia ideologica del capitalismo in versione iper-liberista;
d) L’affermarsi di una sorta di “democrazia mistificata”, che conserva quote di consenso (buttando al macero milioni di cittadini completamente estraniati dal processo sociale e politico, che hanno alimentato una crescita esponenziale nell’astensionismo elettorale, sicuro indice di malattia del sistema democratico nel suo complesso) con la manipolazione e la mediazione di interessi particolari, nascondendo tra l’altro le limitazioni soggettive del proprio potere reale. Una democrazia fatta, in sostanza, di miraggi collettivi. Un simulacro di democrazia dove si situano larghe zone di consenso assolutamente passivo e la confluenza di interessi apparentemente contradditori con, parallelamente, l’appiattimento dei legami ideali e l’emergere di fragili, fasulli soltanto apparenti poteri carismatici.
Tocca allora a noi (verrebbe alla mente il “ a noi comunisti toccherà salvare l’Italia” di Gramsci) presentare con chiarezza le contraddizioni di fondo di questa fase storica: far comprendere e far crescere nelle coscienze l’idea del limite insuperabile dello sviluppo capitalistico, della precarietà e assurdità dei suoi traguardi, della disumanità che esprime nel suo modo di raggiungerli.
Si pone così il tema dell’opposizione e dell’alternativa.
L’opposizione non potrà che essere, da nostro punto di vista che altro non è che il punto di vista di classe, decisa e radicale.
Ma nel ricominciare la pratica opposizione sul terreno politico (una pratica dimenticata, sepolta nel tempo) occorrerà agire in modo da produrre via, via spostamento di forze reali (ad esempio lavorando sulle criticità di una situazione sindacale davvero complessa, tanto per definirla con un eufemismo), aggregazione sociale, ricostruzione di strutture politico – organizzative sul modello dell’integrazione di massa, riflessione culturale, nuove modalità di gestione, promozione di nuovi quadri.
Il salto da compiere per quanti ritengono ancora possibile una battaglia politica di opposizione e di alternativa in Italia e in Europa sulla base di principi e di analisi anticapitalisti è quello di darsi una precisione di obiettivi, una stabilità di organizzazione, di proposta utile a coagulare la spinta contestativa che emerge da non secondari strati sociali portandola anche ai livelli di strati già intermedi e adesso sprofondati nel buio dell’impoverimento di massa.
Occorre prima di tutto autonomia di progetto, muovendosi necessariamente fuori dal quadro dato anche da coloro che pensano a un nesso tra l’attutirsi della spinta liberista e la riproposizione di un riformismo “blando” (il nuovo centrosinistra, tanto per intenderci).
L’obiettivo politico nel breve periodo deve essere quello della ricostruzione di un antagonismo progettuale, concretamente presente nell’arena politica e nel confronto sociale, in Italia e fuori.
L’analisi della strutturalità della crisi, dei nuovi rapporti di forza e dei nuovi dati culturali che al suo interno si esprimono, ci può consentire di battere l’opinione generale che non vi sia più sbocco possibile e che, in fondo, Von Hayek, Huntington e Fukuyama, i teorici della “nuova destra”, abbiano avuto ragione: risvegliare un nuovo processo culturale, ribellarci al “pensiero unico”, costruire un’alternativa, un compito difficile che non possiamo però tralasciare proprio in questa fase storica.

Franco Astengo

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