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(18 Febbraio 2017)
Il “traumatico” risultato del referendum inglese sull’Unione Europea di giugno continua a spandere i suoi effetti.
Irritati, i capi di Stato dell’Unione Europea hanno subito preteso che il Regno Unito ricorresse senz’altro alle dure condizioni dell’Articolo 50 del Trattato, che prevede un periodo di due anni per il compimento della revoca dell’adesione da parte di un paese membro. Il Regno Unito sta avendo difficoltà ad imporre una sua posizione negoziale e molti Stati, Germania compresa, hanno detto che non si può aspettare un trattamento migliore fuori della UE di quello di cui godeva dentro.
Il primo ministro inglese, per rassicurare i “brexiters”, ha confermato che il risultato del referendum sarà onorato: “Brexit significa Brexit”. Ma, ancora oggi, nessuno ha idea di cosa “Brexit” significhi, primi fra tutti i “brexiters”. Le lacrime di coccodrillo del nuovo primo ministro, in un improvviso slancio di solidarietà sociale noi sappiamo vogliono essere solo il dolce rivestimento di una pillola amara.
I legami economici, commerciali, finanziari, politici, diplomatici, militari, normativi, istituzionali, ecc. che costituiscono l’Unione Europea, dai quali sganciarsi, o da rinegoziare, non solo non sono ancora stati affrontati ma nemmeno elencati. L’appello all’Articolo 50 è quindi per ora rimandato ad un giorno, indefinito, nel corso del 2017.
Quel che è sicuro è che il voto per la Brexit ha innescato ogni sorta di dislocazioni all’interno del tradizionale apparato dei partiti. Gli impavidi brexiters, dopo le celebrazioni di rito, sono spariti di scena, ma il risultato del referendum ha messo in crisi anche entrambi i maggiori partiti. La dirigenza dei Conservatori si è rapidamente risolta nel nominare Teresa May; Jeremy Corbin ha dato le dimissioni dal Governo Ombra e la lotta per la direzione del Labour Party è ancora in corso. A parte il completo sparire di Cameron dalla scena, niente di visibile succede e le argomentazioni di entrambi i campi su sovranità, l’immigrazione ecc, restano sostanzialmente le stesse.
Si deve ancora capire cosa significhi la presunta nuova politica detta “Una Nazione” di Teresa May, richiamantesi, dice, alla linea di Joseph Chamberlin nel 19° secolo in difesa del declinante colonialismo imperialista britannico. È evidente che le decisioni su come procedere e su quale tipo di Brexit sono ancora da esser prese.
La sterlina si è svalutata, ma per adesso non vi sono state più importanti conseguenze economiche, anche per l’intervento della Banca d’Inghilterra successivo al voto, che ha abbassato i tassi di interesse.
Nell’Europa del dopoguerra
Abbiamo dato una prima valutazione del voto sulla Brexit nelle note “Vacillano le impalcature del capitalismo mondiale”, in Comunismo n.80, e “Ultima risorsa di classi borghesi in crisi mortale, un nauseante razzismo contro il proletariato e contro il comunismo”, in questo giornale n.378. Qui continuiamo la disamina degli eventi che hanno portato alla situazione presente.
Nel primo articolo abbiamo accennato alle vicende, interne ed internazionali, che nel 1970-74 misero in crisi il governo Heath. Il governo fu travolto dagli scioperi, compresi quelli dei minatori; il mancato rifornimento di petrolio, che costrinse le industrie alla settimana di tre giorni, e i tagli alla distribuzione dell’elettricità contribuirono all’immagine di un paese non più sotto controllo. Fu in questa situazione che il governo Heath si precipitò ad aderire alla Comunità Economica Europea.
Aderendo alla CEE il Regno Unito non avrebbe certo interrotto il lungo declino dell’economia inglese, ma dato l’opportunità ai monetaristi, e in particolare a quella disgustosa loro variante che circondava la Thatcher, di “ristrutturare” l’economia nazionale. Questo rappresentò una svolta nella giustificazione keynesiana della pianificazione degli investimenti statali post-bellici al loro opposto, secondo i principi del “libero mercato”. Quello che appare infine oggi, come un abbandono del monetarismo, non significa un ritorno alla ortodossia keynesiana, ma ad un annaspare fra le due ideologie.
Il mondo appena uscito dalla Seconda Guerra mondiale, con gli USA economicamente e militarmente forti ed una Europa bottino di guerra, con timore di sommovimenti sociali, presentava un nuovo panorama del capitalismo.
L’Impero britannico era finito, bastò un decennio per le ultime formalità della sua liquidazione e fu infine accettato come inevitabile il rito che lo portava all’eterno riposo. Nuove realtà geopolitiche si erano in qualche modo affermate, benché inventate da righe disegnate sulle mappe da un primo ministro inglese rappresentante delle classi dominanti illuse che la Gran Bretagna fosse ancora una potenza mondiale in grado di affrontare chiunque. I fatti di Suez del 1956 vennero a confermare questa nuova realtà.
La nuova realtà era la divisione dell’Europa fra gli imperialismi americano e russo, imposta con la forza militare ed economica. All’inizio l’America, dapprima unica potenza atomica, con la sua enorme supremazia, affrontava una Russia che disponeva sul terreno solo di gran numero di stivalati. Nel periodo della cosiddetta Guerra Fredda, fatta di finte e contro-finte, la corsa all’armamento nucleare da entrambi i lati, le guerre per procura (Corea, Vietnam, ecc), le purghe del maccartismo e dello stalinismo, le alleanze della Nato e del Patto di Varsavia, sovente restituivano immagini grottesche da quegli specchi deformanti.
Così divisa l’Europa, era esclusa la possibilità di una minaccia alla pace da parte di un riemersa Germania. Fu infatti rigettato e non più riproposto il piano Morganthau, appoggiato dalla Francia, di deindustrializzare la Germania per riportarla ad un passato agricolo. Inoltre la ricostruzione dell’Europa occidentale era divenuta una necessità sia economica sia geopolitica per gli americani. Per l’Europa continentale ci fu il piano Marshall; per la Gran Bretagna i prestiti, i duri termini dei quali dimostrarono la ridimensionata influenza inglese sulla scena mondiale.
Tutto questo si è infine riflesso nella moderna Unione Europea.
Il Regno Unito era in bancarotta, il rischio di rivolte sociali notevole. Il rapporto Beveridge, del 1942, aveva anticipato un piano di obbiettivi per il dopoguerra per i quali sarebbe valsa la pena di combattere, di fatto era pura propaganda per sostenere il morale delle truppe in tempo di guerra; fu pubblicato dalle stamperie reali e distribuito in milioni di copie, specialmente fra le forze armate. La conseguenza, forse involontaria, fu che nessuna maggioranza parlamentare l’avrebbe potuto ignorare. Gli americani ne furono inorriditi e dichiararono Beveridge straniero indesiderabile quando fu invitato negli Stati Uniti per un giro di conferenze.
Nel Regno Unito, a seguito dell’elezione di un governo laburista, che fece suo il rapporto Beveridge, e dell’aiuto Marshall nell’Europa occidentale, politiche economiche keynesiane furono abbracciate dai governi sia socialdemocratici sia conservatori.
In America invece, dove i consumi crescevano, Keynes era bollato come “comunista”. Negli anni Trenta Roosevelt era riuscito a far passare il suo New Deal (solo retrospettivamente riconosciuto come keynesiano) convincendo i democratici del sud che l’idea era basata sulle politiche adottate da Mussolini in Italia. Fino all’entrata dell’America nella Seconda Guerra mondiale il Dipartimento di Stato regolarmente mandava ricercatori in Italia per scoprire buone pratiche per l’efficiente conduzione delle imprese di Stato e private.
Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale furono istituiti nei termini dettati dagli americani, rigettando alcune delle proposte di Keynes, che avrebbero consentito delle interferenze esterne sulla politica economica americana. Il FMI e la BM divennero arnesi degli USA per imporre la loro politica economica, a gradi diversi, su tutti gli altri Paesi.
Ma anche gli Stati Uniti presero in considerazione politiche di ispirazione keynesiana, sebbene mai l’abbiano riconosciuto. Alla metà degli anni Sessanta, mentre in Europa erano apertamente adottate le politiche economiche keynesiane, negli Stati Uniti l’elezione di Lyndon Johnson, a seguito dell’assassinio di Kennedy, sembrò il momento di riformare il sistema assistenziale per portarlo ad un livello confrontabile con quello in Europa. Nel mezzo del movimento e delle richieste per i Diritti Civili, ancora una volta si dovette nascondere lo statalismo di fatto imperante anche in USA. Servì allo scopo la diffusione del Rapporto Moynihan, che praticamente diceva che chiunque avesse avuto bisogno di assistenza sociale era o pigro, o criminale, immorale, mentalmente malato, sub-umano...
La ricetta keynesiana, cioè l’intervento dello Stato nell’economia, detto meglio, l’intervento dell’economia nello Stato, sono una realtà e una necessità del capitalismo in crisi. Questa non è una sua “politica”, tanto meno “di sinistra”. Infatti non è alternativa ad una diretta oppressione della classe operaia con una spietata austerità, o a provvedimenti coercitivi antisindacali, o alla sanguinosa repressione tramite le forze armate dello Stato. Non è come i socialdemocratici vorrebbero farci credere, che sia un passo verso il socialismo. Non significa automaticamente aumento dei benefici sociali ed assistenziali per la classe operaia.
Le economie keynesiane prevedono il coinvolgimento dello Stato attraverso la spesa in infrastrutture (in alcuni casi utilizzando i disoccupati come lavoro a buon mercato), la nazionalizzazione delle industrie essenziali, divenute troppo poco redditizie per il capitale privato. Elemento chiave di questa prospettiva è la stampa di carta moneta per pagare questi investimenti. Il che aumenta l’inflazione, così abbassando le condizioni di vita della classe operaia. Qui di nuovo il capitalismo rivela la sua vera natura, in pieno accordo con le politiche dei socialdemocratici (come il Labour Party in Gran Bretagna), che cercano di imporre il controllo delle paghe e di introdurre una legislazione anti-sindacale. Il tutto finisce nella austerity e nel controllo coercitivo con altri mezzi della classe operaia.
La nuova crisi mondiale
La scuola di Keynes ha quindi ben servito anche il capitalismo inglese durante il periodo postbellico e della ricostruzione. Ha aiutato a mantenere la pace sociale e dato un alimento ideale alla burocrazia sindacale.
Ma il vero problema dell’industria inglese era la mancanza di investimenti e la necessità della sua “ristrutturazione”. Questo era una questione di mentalità, oltre che economica, per i capitalisti inglesi: pretendevano di continuare coi vecchi metodi sopravvissuti alla guerra: con macchinario superato ed uso intensivo della forza lavoro. I concorrenti europei avevano visto le loro industrie rase al suolo ed avevano dovuto ricostruirle più moderne. La accresciuta efficienza dei compari dell’industria tedesca consentiva loro di poter concedere agli operai migliori condizioni di vita.
Nel Regno Unito dure lotte operaie riuscirono a mettere in crisi il governo laburista del 1964-71, ottenendo che fosse sospesa la legge antisindacale di Barbara Castle “Invece di scontrarci”, subito ripresa sotto il governo Heath nel 1970-74. La svalutazione della sterlina da parte del governo Wilson negli anni Sessanta, nel brutale tentativo di gettare il carico della crisi sulla classe operaia, non ottenne gli attesi effetti sull’economia.
Il movimento di scioperi nel Regno Unito negli anni Sessanta e Settanta fu il modo in cui la classe operaia inglese cercò di opporsi alla austerità del dopoguerra. La rielezione di Wilson al governo nel 1974, che anche allora prometteva un referendum sull’adesione del Regno Unito alla CEE, non risolse alcuno dei problemi fondamentali che stava affrontando la borghesia inglese. Il consenso postbellico stava per finire.
Il Regno Unito era in fallimento. Il ministro del tesoro, il laburista James Callaghan, dovette chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale. I termini del prestito erano gravosi, ed era condizionato ad un cambiamento nella politica economica. Callaghan annullò un biglietto aereo e dall’aeroporto andò al Congresso delle Trade Unions per leggervi un testo: “Come vivere con le risorse del paese”. Usciva Keynes di scena e vi entrava il monetarismo!
Non c’è una vera opposizione nei programmi economici dei partiti del capitale: tutti cambiano strategia ogniqualvolta il capitale lo richiede. I governi Blair e Brown continuarono a richiamarsi al monetarismo del precedente governo Callaghan, come a quello della Thatcher. Gli alibi economici del monetarismo, ora chiamato neo-liberismo, erano invocati da entrambi i partiti Laburista e Conservatore.
Il governo Thatcher aveva spinto all’estremo gli attacchi contro la classe operaia. Facendo di necessità virtù affermò che “una buona dose di disoccupazione” l’avrebbe resa più arrendevole per accettare qualsiasi condizione. Alcuni decenni ed almeno una generazione dopo, i lavoratori inglesi sono proprio nello stato d’animo giusto per accettare le poche briciole che loro si offrono.
La linea della Thatcher era di cercare di mantenere solvibile il paese affidandosi alla City di Londra, ai servizi finanziari, al turismo, alle industrie di nicchia, ecc. L’adesione alla CEE era centrale in questa strategia, mentre interi rami industriali rovinavano a terra. “La forgiatura dei metalli può esser fatta da qualche altra parte”, così ci si consolava. Quel che si ebbe fu la generale de-industrializzazione.
Oggi anche il neo-liberismo sembra aver fatto il suo corso. Nessuno dice cosa comporterà all’economia la messa in esecuzione del voto per la Brexit, né le conseguenze sull’indirizzo del governo. Tutto rimane vago e confuso: le classi dominanti di rado rivelano le loro intenzioni pratiche e le loro motivazioni, specie quando non sanno cosa fare e come.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
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