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(23 Aprile 2011) Enzo Apicella

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L’impossibile pacifica spartizione della Libia fra i capitalismi europei e mondiali

(17 Aprile 2017)

Blumenthal

Sidney Blumenthal

In Libia sono in gioco due importanti questioni: la prima tratta principalmente di oro nero, la seconda dei nuovi assetti strategici nel vasto scacchiere del Mediterraneo orientale. Naturalmente gli accordi più importanti tra gli Stati su questi temi vengono stipulati lontano dai clamori dei mezzi di informazione, incaricati di deviare l’attenzione su temi pretestuosi: la lotta al terrorismo di matrice islamica, il traffico di esseri umani, gli sbarchi di clandestini, ecc.

È chiaramente fallito il piano, approvato dagli USA, di una stabilizzazione della Libia dividendola in tre parti, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, sotto la tutela di Italia, Inghilterra e Francia, le potenze europee con i maggiori interessi petroliferi nel paese. Si cercava così di adeguare le esigenze dei vari imperialismi alle reali possibilità di mediare gli instabili equilibri delle principali tribù locali, in lotta permanente per accaparrarsi una fetta maggiore della rendita petrolifera. Questo piano non è stato accantonato definitivamente perché al momento non ci sono alternative, dato che conciliare gli interessi di tutte le parti in conflitto è stato al momento impossibile.

Gheddafi ci riusciva, ma era il risultato di un movimento anticoloniale e nazionale che non c’è più, ora rimanendo solo le spinte centrifughe di 140 tribù. Di queste 30 hanno una valenza politica e tra queste 4 sono le più forti e importanti. Nell’ordine, la Warfalla, che abbandonò per prima il rais, il quale si appoggiava alla piccola tribù dei Ghadafa, insediata nella zona di Sirte. Seguono gli Zuwaya, nell’est a cui si sono associati i Tuareg del Fezzan, e la tribù degli Zintan, nell’Est della Cirenaica, che controlla il tratto di confine con la Tunisia e parte del deserto.

A guerra sul petrolio iniziata si è inserito il fenomeno del fondamentalismo islamico, al quale, per opportunismo, si sono aggregate varie preesistenti bande di briganti e sotto quelle false bandiere depredano e insanguinano il paese, complicando lo sviluppo della situazione.

In questo quadro il lavorio delle altre bande di briganti, gli imperialismi europei e degli altri Paesi interessati, procede alacremente, all’oscuro della “pubblica opinione”, chiamata alla bisogna ad emozionarsi a fronte di ondate di sbarchi di immigrati e di sciagurati naufragi in mare aperto.

La decisione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea nel giugno del 2016 non ha spostato la questione e il nuovo governo avrà l’identico compito di difendere gli interessi dell’imperialismo inglese su quelle sponde del Mediterraneo. Né è ancora chiaro quale sarà il profilato cambio di passo del capitale statunitense, che tira i fili della marionetta-presidente, come potrà difendere gli interessi di quel gigante in crisi. Nemmeno quali saranno le mosse del capitalismo russo, che si sta muovendo con energia in quel quadrante dopo che era stato messo da parte per non aver partecipato alla cacciata del rais. Notizie di questa metà di marzo parlano di truppe russe spedite segretamente in Egitto per appoggiare un eventuale intervento in Libia.

Riassumiamo l’origine di quella guerra con gli eventi recenti più importanti.

Il rapido intervento militare di Francia e Gran Bretagna nel marzo 2011 che, come emerse successivamente, avrebbe avuto scarse possibilità di successo senza il forte sostegno degli Stati Uniti, si dava lo scopo ipocrita di porre fine al sanguinario regime dittatoriale di Gheddafi e “portare la democrazia” nel Paese.

Alla fine è emersa la vera e principale causa del repentino attacco ordinato dal presidente Sarkosy, nonostante Gheddafi gli avesse prestato qualcosa come 30 milioni di euro per finanziare la sua prossima campagna elettorale in Francia. Sidney Blumenthal, già consigliere del presidente americano Bill Clinton e funzionario dell’omonima fondazione, il 2 aprile 2011 inviò una mail ad Hillary Clinton, l’allora Segretario di Stato, con cui la informava sul piano di Gheddafi per sostituire il Franco Cfa, ancor oggi utilizzato in 14 ex-colonie francesi nel Sahel, con un’altra moneta panafricana di nuova emissione. Il Sahel è la fascia sub-sahariana dall’Atlantico al Mar Rosso. Il Franco Cfa, istituito nel 1945 nel quadro degli accordi di Bretton Woods, al tempo era una moneta legata al Franco francese, al cambio fisso di 1 centesimo, controllata dalla Banca centrale parigina, che detiene ancor oggi nei suoi forzieri il 65% delle riserve delle ex-colonie. Oggi è legato all’Euro, al cambio di 656 Cfa.

Gheddafi, contando sull’enorme rendita petrolifera libica, perseguiva l’ambizioso progetto di costituire un’entità africana federata sotto la sua egemonia, completamente indipendente da Parigi, coinvolgendo in primis l’Africa francofona. La Francia, sicuramente ben informata su quelle intenzioni, e che intendeva mantenere il suo controllo sul Sahel, doveva impedirlo in ogni modo, sia per motivi economici, per non rinunciare ai convenienti prestiti che elargisce, sia politici, per continuare a tenere in pugno col ricatto monetario i bizzosi governi africani dell’area Cfa. Né vanno dimenticati gli interessi della francese Total nel Fezzan e in Cirenaica.

Furono contrari all’intervento la Russia e l’Italia. Qui era al governo Berlusconi, che poco tempo prima aveva ricevuto a Roma Gheddafi e la sua corte, con grande pompa e riverenze, dopo che i due nel 2008 avevano siglato un “Trattato di amicizia” per contrastare l’immigrazione clandestina dalla Libia, dicevano, compresa la fornitura italiana di naviglio costiero. Facevano parte del trattato interessanti accordi economici per la fornitura di materiale bellico, infrastrutture, ma anche cessioni di quote della Finmeccanica, commesse future e contratti vari per un totale di circa un miliardo di Euro.

Sappiamo com’è finita l’operazione per la democrazia in Libia dopo la liquidazione del rais: nel Paese, che era al primo posto in Africa nell’indice Onu di sviluppo umano (cosiddetto), ora è in balia di un permanente conflitto tra le tribù locali e le varie milizie, dentro e fuori l’islam, in un reciproco regolamento di conti tra fazioni.

Queste fanno riferimento ai due poli libici principali di Tripoli e Tobruk, cui corrispondono due canali paralleli e concorrenti per l’esportazione del petrolio. L’affare del petrolio libico, di ottima qualità e basso costo di estrazione, vale almeno 130 miliardi di dollari, è il 38% del petrolio del continente africano e copre l’11% dei consumi europei; il 70% delle riserve petrolifere si trova in Cirenaica, date in concessione prevalentemente a società inglesi e francesi.

Ma in questo momento ad estrarre petrolio e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni, che si garantisce quella posizione perché riesce a manovrare, con evidente successo, tra le varie fazioni in gioco e in concorrenza reciproca. In ballo per l’Italia c’è anche la perdita di ben 5 miliardi di Euro in commesse per impianti e infrastrutture, non eseguibili in queste condizioni, come risulta dai diversi rapimenti di tecnici italiani da parte di bande criminali locali, finiti con pagamenti di onerosi riscatti, ma anche con la morte di due ostaggi per “fuoco amico” durante un’operazione militare per liberarli.

È una situazione mal sopportata dagli altri paesi europei e dagli USA, che richiedono un intervento militare italiano in Libia di almeno 5.000 uomini per un maggior controllo del territorio. Ma un altro intervento militare, visti i disastri provocati dal primo, comporterebbe costi imprevedibili.

L’italica borghesia, su richiesta del “premier” Serraj, nel settembre 2016 ha impiantato un ospedale da campo presso Misurata, con circa 500 uomini tra medici, infermieri, addetti alla logistica ed alla protezione, e nel gennaio 2017 ha riaperto la sua ambasciata a Tripoli, da tempo distrutta e saccheggiata, prima e al momento unica rappresentanza diplomatica europea, subito accolta con l’esplosione di un’autobomba nelle vicinanze. Lo scopo ufficiale assegnato alla delegazione ha dell’incredibile: unificare l’Ovest con l’Est!

Esclusa l’opzione militare, quella politica è veramente ingarbugliata per la presenza sia di sedicenti “uomini forti” locali sia di quei “pompieri incendiari” del mondo arabo che tirano i fili di questi mercenari.

L’Egitto manovra il “signore della guerra” generale libico Khalifa Haftar, ex grande collaboratore di Gheddafi divenuto successivamente suo oppositore. Rifugiatosi negli Usa sotto la protezione della Cia, il generale è ritornato in Libia cercando di assumere un ruolo guida nel nuovo regime. Le milizie che lo seguono sono predominanti in Cirenaica, regione che è sempre stata considerata dai nuovi e vecchi faraoni come una provincia egiziana ed era già stata richiesta, senza successo, anche nel riassetto territoriale dopo la Seconda Guerra mondiale. Haftar, dopo i suoi incontri a Mosca a novembre con i ministri degli esteri e della difesa russi, lo scorso gennaio è stato ricevuto con grande visibilità sulla portaerei russa Kuznetsov, al largo della Cirenaica, a riprova dell’interesse della Russia per un’eventuale base militare nel paese, ad affiancare a, se non a sostituire, quella di Tartus sulle coste siriane. La Russia conserva ancora i vecchi contratti per forniture militari di due miliardi di dollari stipulati con Gheddafi, che ovviamente vorrebbe concludere con chi è in grado di pagare, o concedere qualche cosa di equivalente, nonostante sia ancora in vigore l’embargo dell’Onu sulla vendita di armi alla Libia.

Comprensibile quindi la triangolazione di interessi tra Putin, Al Sissi ed Haftar. Molto probabilmente il terzetto sa come aggirare le sanzioni, che però cadrebbero a fronte di uno Stato libico unico e “democraticamente eletto”. Basta aspettare e manovrare con accortezza, sapendo che, oltre alle riserve petrolifere, a garanzia dei pagamenti ci sono gli ingenti depositi dei fondi sovrani libici che con la caduta di Gheddafi sono rimasti congelati nelle banche straniere, principalmente a Londra e a Roma.

Il Qatar lubrifica con dollari in quantità le armi degli “islamisti radicali” di Tripoli; la Turchia ha rispedito in Libia dalla Siria i jihadisti libici per la Guerra Santa nel golfo della Sirte; gli Emirati Arabi Uniti, puntando in alto per sostenere Tobruk, si erano comprati con un fasullo incarico da 50.000 euro al mese il precedente mediatore Onu, lo spagnolo Bernardino Leòn, costretto alle dimissioni nel novembre 2015. Nulla di strano o di nuovo nelle contese tra bande imperialiste.

Ma nemmeno i successori dello spagnolo hanno avuto calorosa accoglienza e vita facile, come l’ex primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Salam Fayyad, proposto a quell’incarico dal Segretario Generale dell’Onu nel febbraio 2017, bloccato subito dal veto dell’amministrazione statunitense.

A Tripoli la situazione è ancora più complessa, nonostante gli accordi di Skhirat nel Marocco del dicembre 2015 tra i rappresentanti dei parlamenti di Tripoli e di Tobruk per la formazione di un Governo di Accordo Nazionale, affidato a Fayez al-Sarraj, sotto l’egida dell’Onu, di Obama e delle maggiori potenze interessate. Questo Serraj è privo di potere reale e consenso pubblico; a Tripoli ci è potuto arrivare solo via mare e vive confinato nella base navale di Abu Sitta, dove imbarcazioni veloci ed elicotteri sono pronti, alla bisogna, a scortarlo in luoghi sicuri. Suo compito, per unificare il paese, sarebbe di formare un governo di unità nazionale che includa più forze politiche, comprese quelle islamiche moderate, cosa sicuramente non facile.

Nonostante il suo governo sia riconosciuto dall’Onu non controlla nemmeno tutta la città di Tripoli, tanto meno l’area di Mellitah dove ci sono i terminali dell’Eni. Il traffico dei migranti, che dovrebbe contrastare, punto cardine dei recenti incontri a Malta avvenuti ai primi di febbraio, avviene in gran parte nella zona di Sabrata, di poco ad ovest di Tripoli, gestito da bande criminali che, a suon di dollari, possono contare sulla “distrazione” delle forze militari ufficiali, le quali potrebbero anche rivoltarsi contro Serraj se ricevessero l’ordine di combattere quelle bande. È stato calcolato che il traffico dei migranti costituisce un terzo del Pil della Tripolitania.

Attualmente si stima che a Tripoli ci siano ben 38 formazioni armate di cui fra le più forti, tre, legate ai Fratelli Musulmani, sostengono Serraj, altre tre sostengono l’islamico Khalifa Ghwell, ex presidente del Consiglio e rivale del nuovo premier. Le formazioni maggiori a loro volta controllano quelle minori sparse sul territorio. Il passaggio di campo, per credo religioso, politico o di occasionale convenienza, è frequente e rapido.

Ad indebolire il potere di Serraj è stato anche un improbabile colpo di Stato portato il 12 gennaio scorso proprio da Ghwell, che non ha avuto alcuna conseguenza immediata.

Nonostante che pesi a favore di Serraj la recente liberazione della Sirte dal controllo del Califfato, il suo prestigio è in rapido declino, mentre cresce quello del generale Haftar, che vanta strette relazioni con Putin e Al Sissi ed ambizioni a capo militare.

Haftar, nel maggio 2013, con le sue milizie, stimate in 30.000 uomini e ben organizzate in un Esercito Nazionale Libico, aveva lanciato l’operazione “Dignità”, volta a combattere l’estremismo islamico, e non solo, conseguendo buoni risultati. Si pone quindi un dualismo di forze, considerato anche il fatto importante che l’Esercito Nazionale garantisce la sicurezza dei terminali petroliferi in Cirenaica. Per contro il parlamento di Tobruk, eletto nel 2014, ma non riconosciuto ufficialmente dagli organi internazionali, è molto geloso del suo potere e non ha mai accettato quello di Tripoli, tanto che sono sempre saltati tutti gli incontri organizzati tra Serraj e Haftar.

Visto il sostegno dell’Italia al governo tripolino, Haftar ha rifiutato gli aiuti italiani e ha considerato l’apertura dell’ambasciata italiana un gesto di “neocolonialismo”.

Ha anche considerato “carta straccia” l’accordo firmato a Malta sui migranti, secondo i quali l’Italia dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano e di coordinamento generale. Negli anni scorsi l’Italia era stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani per i “respingimenti”, ovverosia per la sua azione tesa a riportare all’interno delle acque territoriali libiche i gommoni intercettati. Questo blocco navale ora dovrebbe essere svolto dalla guardia costiera libica mentre navi della marina militare italiana avranno il ruolo di pattugliamento e soccorso fuori dalle acque territoriali libiche. La guardia costiera libica al momento dispone di nove motovedette, a suo tempo consegnate ma riparate in porti della Tunisia per evitare che cadano in mano di bande criminali o ostili al governo ufficiale. In quelle acque infatti incrociano indisturbate flotte di contrabbandieri e trafficanti, che trasportano armi e rifornimenti per tutte le parti in conflitto.

Come si vede la situazione non è affatto in via di soluzione. A Malta è stato firmato un Memorandum d’intesa che non solo non definisce la partizione dei carichi economici sul bilancio della UE, ma non risolve la questione di fondo: quale è il governo, o autorità simile, a rappresentare un paese in cui coesistono in concorrenza tra loro tre pseudo governi: Serraj, che di fatto non è nemmeno il sindaco di Tripoli, l’islamista Ghwell, insediato in un albergo di Tripoli, lo spavaldo generale Haftar che da poco e a fatica è riuscito a avere il completo controllo di Bengasi.

È ovvio che a risolvere l’attuale situazione di stallo fra gli imperialismi in Libia, che è la continuazione della guerra iniziata nel 2011, non potrà essere un’altra volta che la guerra.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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