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(18 Settembre 2018)
Muqtada al-Sadr
Il festival internazionale dei fiori di Damasco nella seconda metà di luglio è stata un’occasione per il regime siriano di cantare vittoria, ribadire che la guerra in gran parte della Siria è finita e che la vita può tornare alla normalità. Dopo sette anni di guerra sono tornati gli stand espositivi di altri paesi, anche se per ora soltanto di Iraq e Bulgaria!
Effettivamente se andiamo a vedere la situazione militare sul campo, nella primavera scorsa, a seguito di una lunga e cruenta offensiva, le forze fedeli al regime erano riuscite a debellare le ultime sacche di resistenza dei ribelli nei sobborghi della capitale. Successivamente i miliziani non disposti ad accettare il piano di “pacificazione” del governo erano stati fatti evacuare in direzione della città di Daraa, ultimo baluardo dell’opposizione armata ai confini della Giordania. Ma, una volta assicurato il controllo delle retrovie, l’esercito siriano lanciava un’ulteriore offensiva che il 12 luglio scorso sfociava nella riconquista di Daraa. Sempre entro la prima metà di luglio, dell’autostrada che attraversa tutto il paese da Damasco ad Aleppo veniva riaperto il tratto dal valico di frontiera di Nasib fino alla periferia nord di Hama. Infine il 22 luglio, con l’evacuazione delle ultime forze ribelli da Quneitra, nei pressi del confine con Israele nel Golan, il Sud del paese può considerarsi completamente sotto il controllo del governo.
Questo ultimo episodio ha visto il coinvolgimento diretto delle forze armate israeliane che hanno evacuato circa 800 “caschi bianchi”, una sorta di “difesa civile” attiva nelle zone controllate dai ribelli, la quale nei suoi comunicati presentava gli accadimenti dal punto di vista delle forze ribelli e dei loro padrini imperialisti.
L’intervento si inscrive in un accordo fra lo stesso Stato d’Israele e la Russia, che del regime siriano è il principale protettore. I termini dell’intesa prevedono l’istituzione di una zona cuscinetto al confine fra la Siria e Israele divisa in tre fasce: oltre dieci chilometri di “terra di nessuno” completamente smilitarizzati, addentrandosi in territorio siriano in una seconda striscia saranno dislocati 350 carri armati e 3.000 soldati di Damasco equipaggiati con armi leggere; infine in una terza fascia verranno dispiegati 650 carri armati e 450 uomini. Complessivamente questa zona si estende per 100 chilometri all’interno del territorio siriano. Scopo di questo accordo è evitare che gli Hezbollah e le altre milizie sciite legate all’Iran possano premere ai confini dello Stato d’Israele.
Vi si vede la disinvoltura con cui la Russia è disposta a contenere l’Iran, il suo alleato occasionale nella guerra in Siria, pur di mantenere un alto livello di interlocuzione con il governo israeliano. Infatti i rapporti fra Mosca e Teheran non sono così idilliaci come sembrano agli occhi di osservatori superficiali, oppure influenzati da schemi geopolitici “campisti” o “euroasiatici”. Di fatto l’aviazione israeliana durante gli ultimi anni ha effettuato oltre 120 raid contro obiettivi iraniani o dei loro alleati in territorio siriano senza che le forze russe ivi dislocate muovessero un dito.
Ma c’è dell’altro: se l’accordo da una parte riceve il placet dell’amministrazione statunitense e se Usa e Giordania hanno preso atto della sconfitta delle milizie ribelli da loro sostenute ad opera delle truppe di Damasco e dei suoi alleati, questo significa che Washington sta delegando a Mosca una parte del ruolo di mediazione nell’area mediorientale.
Ma c’è altro ancora. Mosca ha raggiunto importanti intese economiche col governo di Damasco, che di fatto piazzano la Russia in prima fila nel grande affare della ricostruzione della Siria e dello sfruttamento delle risorse naturali del paese: un quarto del petrolio estratto nelle zone riconquistate ai ribelli andrà ai russi, relegando in un ruolo di secondo piano l’Iran, e forse invertendo la tendenza alla crescita dell’influenza iraniana sull’economia siriana.
Durante la guerra l’interscambio commerciale fa Iran e Siria si è moltiplicato per tre passando dai 360 miliardi di dollari del 2010 agli 870 del 2014, compagnie iraniane hanno avuto importanti concessioni per lo sfruttamento dei fosfati, mentre secondo alcuni osservatori la Siria avrebbe contratto debiti con l’Iran per 35 miliardi di dollari in aiuti bellici, che potrebbero trasformarsi almeno in parte in colossali acquisizioni nel settore immobiliare. Dunque, come accade spesso a conclusione di una guerra borghese, la lotta per la spartizione del bottino pone in urto gli ex alleati e anche in questo caso ci sono tutte le premesse di nuove tensioni economiche e dunque anche politiche fra Russia e Iran.
Ma la gestione del dopoguerra deve fare i conti anche con l’esplosione di nuove tensioni sociali in almeno tre paesi, Iran, Iraq e Giordania, che sono stati coinvolti in diversa misura nel conflitto siriano.
In Giordania ai primi di giugno un movimento di massa ha scosso la capitale Amman. In decine di migliaia sono scesi in piazza per protestare contro una manovra economica governativa finalizzata ad ottenere l’apertura di nuove linee di credito da parte del Fondo Monetario Internazionale. Le misure adottate dal governo prevedevano la fine delle sovvenzioni statali per calmierare i prezzi e l’introduzione di 165 nuove accise su altrettanti prodotti, fra cui anche i prodotti energetici, col risultato di un aumento del 20 per cento dei prezzi. In seguito a una settimana di proteste e di scontri fra manifestanti e agenti in tenuta antisommossa il premier giordano ha rassegnato le dimissioni. Il fatto che gli scontri di piazza non siano sfociati tuttavia in nuove stragi, come avviene di solito nei paesi dell’area, deve fare pensare che la borghesia giordana sia consapevole dei rischi che correrebbe se affidasse la tenuta del regime sociale soltanto alla bruta repressione.
La maniera “blanda” in cui sono intervenute le forze di polizia ha suscitato l’ironico commento del quotidiano israeliano Haaretz, di orientamento ostile al governo guidato Benjamin Netanyahu, il quale ha scritto che oramai la Giordania è “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Evidentemente la sinistra dello schieramento politico borghese in Israele è consapevole anch’essa della deriva apertamente fascista del governo di Gerusalemme e, pacifista com’è, dei pericoli di una politica fondata solo sul ricorrente massacro di decine di palestinesi alla frontiera con Gaza.
In Iran agli inizi di giugno uno sciopero degli autotrasportatori ha paralizzato gran parte del traffico delle merci in molte aree del paese. Al centro delle richieste dei lavoratori erano forti aumenti salariali. La crisi economica si aggrava anche in seguito alla rottura dell’accordo sul nucleare iraniano voluta da Trump e dallo spettro del ritorno delle sanzioni. Sempre a giugno violente proteste si sono svolte nel Sud-Est del paese, in particolare nella città di Khorramshahr, dove a causa della penuria d’acqua si sono verificati scontri e sparatorie. Intanto fratture significative si registrano anche nel rapporto fra il regime e alcuni settori della piccola e media borghesia. Il carovita, determinato anche dalla forte svalutazione della moneta nazionale, il rial, che ha perso in un anno oltre il 35 per cento nei confronti del dollaro, ha spinto i commercianti del gran bazar di Teheran a una serrata di tre giorni. Evidentemente il “sovranismo monetario” non è una panacea e la crisi economica va avanti indipendentemente dalle scelte dei governi. Se le richieste al governo iraniano da parte dei bazari, così si chiamano i commercianti del gran bazar, erano di lasciare la Siria al suo destino è perché i costi della guerra diventano sempre più insostenibili e dunque all’endemico malcontento dei lavoratori si aggiunge ora quello delle mezze classi, impaurite dalle prospettive di una rapida proletarizzazione.
Infine in Iraq, dalla seconda decade di luglio per oltre due settimane, si sono svolte ampie proteste di massa contro il carovita, il collasso dei servizi pubblici essenziali e una grave penuria di acqua. Le manifestazioni hanno interessato molte città del Sud del paese. In molti casi le proteste hanno dato luogo ad assalti alle sedi degli uffici e dei partiti governativi, ad occupazioni e saccheggi dei giacimenti petroliferi (prese di mira le installazioni della British Petroleum, della russa Lukoil e dell’italiana Eni), di aeroporti e di altre infrastrutture. La dura repressione da parte del governo ha provocato almeno 14 morti e centinaia di feriti. Ma le manifestazioni di piazza dilagano.
Alla luce di questi avvenimenti si spiega anche l’alleanza nelle elezioni politiche del maggio scorso fra la fazione sciita guidata dal leader religioso Muqtada al-Sadr e il Partito “Comunista” Iracheno. Evidentemente la temperatura sociale in Iraq sta crescendo rapidamente, evolvendo verso una rottura della pace fra le classi, alla quale la borghesia sta rispondendo facendo ricorso alla tattica sperimentata di utilizzare l’opportunismo per contenere il malcontento del proletariato. Attualmente la coalizione Sairooun, sciiti nazionalisti e anti-iraniani e “comunisti”, è il fronte di maggioranza relativa in parlamento. Nel corso della sua campagna elettorale ha tentato di deviare il malcontento dei lavoratori “contro la corruzione”, cercando di riproporre una forma di sciovinismo nazionalista attraverso l’altisonante parola d’ordine “fuori le potenze straniere dall’Iraq”. Evidentemente questa ricetta fatta di vuoti slogan non basta a sedare la collera proletaria e mentre stiamo per andare in stampa le proteste sono ancora in corso.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
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