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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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Per l'alternativa socialista, per la rifondazione della quarta internazionale

Le conclusioni di Marco Ferrando al meeting internazionalista del 7 dicembre a Roma

(18 Dicembre 2002)

Care compagne e cari compagni, mi pare che questo nostro meeting abbia avuto in definitiva, da angolazioni geografiche diverse, una cornice comune: l'analisi della nuova situazione internazionale, la ripresa in essa dei movimenti di massa e della lotta di classe, il ruolo dei comunisti nei singoli paesi e sul piano mondiale.
E’ il nostro ordine del giorno, è l'ordine del giorno della nostra riflessione, del nostro lavoro e della nostra costruzione.

Vorrei partire da una osservazione apparentemente semplice e banale, ma che mi pare non sia tale.
Nel lungo periodo delle sconfitte degli indietreggiamenti dei movimenti di massa negli anni e nei decenni scorsi l'interrogativo che segnava in larga misura ambiti diversi dell'intellettualità della nuova sinistra era sostanzialmente questo: "ma saranno ancora possibili movimenti di massa, è ancora possibile uno spazio pubblico, saranno ancora possibili esplosioni sociali radicali e rivoluzionarie?" E fior fior di intellettuali rispondeva dall'oracolo che "no", che solo quelli che non avevano capito nulla del postfordismo, della globalizzazione, del toyotismo potevano ancora cullarsi con quelle vecchie illusioni e che in realtà il mondo aveva strutturalmente cambiato pagina.
Il Novecento era finito.
E noi sappiamo in Italia ma lo sanno compagni di altri paesi quante fortune editoriali sono state costruite su questa predicazione disfattista.
Bene.
Da un anno a questa parte la ripresa forte, potente della lotta di classe, e dei movimenti di massa nel mondo ha azzerato tutta questa predicazione.
Ma non ha azzerato quelle fortune editoriali.
Per una ragione molto semplice: perché larga parte di quegli intellettuali che fino a ieri profetizzavano il deserto dei movimenti di massa, con un rapidissimo trasformismo intellettuale si sono trasformati per l’appunto nei profeti estatici dei nuovi movimenti, della loro dinamica spontanea, della loro vittoria immancabile, del nuovo '68 che arriva.
E altre fortune editoriali e altri libri.
Sbagliavano prima, e sbagliano adesso e mi viene da dire sempre con la stessa supponenza.
Perché l'interrogativo che oggi si pone, e tanto più oggi a fronte della ripresa dei movimenti di massa, non è se siamo o no alla vigilia del nuovo 68, che è interrogativo assolutamente legittimo e su cui sarebbe feconda una discussione.
Ma è un altro: a quali condizioni politiche un eventuale nuovo '68 può vincere, a quali condizioni politiche quella nuova generazione che oggi rialza la testa come la giovane generazione di trent'anni fa può evitare la stessa sorte politica e la stessa sconfitta di allora.
E qui la mistica del movimentismo rischia di essere come allora il peggior servizio ai movimenti di massa, al loro futuro alle loro potenzialità.
Certo sono grandi le potenzialità dei movimenti.
Noi veniamo spesso accusati di non riconoscerle sufficientemente, vorrei spezzare una lancia da questo punto di vista, persino sul filo dell'azzardo: mi verrebbe da dire che oggi le potenzialità della ripresa di massa sono persino maggiori per alcuni aspetti di quelle di trent'anni fa.
Nella lunga ascesa degli anni Sessanta e Settanta la classe operaia e i movimenti di massa produssero un'offensiva enorme, ma in un contesto in cui il capitalismo aveva un margine di manovra riformistico molto vasto, in un contesto in cui esistevano grandi apparati legati alla socialdemocrazia, allo stalinismo, al nazionalismo borghese (pensiamo al peronismo) che lavoravano a contenere la dinamica del movimento di massa nell'ambito della società data e che avevano una radice sociale, una forza organizzata, un livello di consenso molto strutturato, organico imponente.
Come dire che le masse avanzavano, come sottoprodotto della propria avanzata ottenevano risultanti, conquiste, incidevano sui rapporti di forza per esempio rispetto all'imperialismo su scala mondiale ma al tempo stesso, contraddittoriamente, il campo di forze della conservazione della società borghese era molto esteso e molto consolidato.
Mi verrebbe da dire che oggi in un certo senso la situazione è capovolta.
La ripresa dei movimenti di massa, questo inizio di ripresa di massa oggi nel mondo, porta il segno ereditario (ed è inevitabile che così sia) delle sconfitte precedenti, dall'arretramento precedente dei rapporti di forza, ma al tempo stesso si dispiega in un quadro internazionale in cui il capitalismo non ha più i margini riformisti di cui disponeva in passato, e in cui quei vecchi apparati di controllo delle masse (socialdemocratici, staliniani, o nazionalisti borghesi) hanno subito un indebolimento verticale della propria credibilità e a volte delle proprie radici strutturali all'interno delle masse.
Per cui potremmo dire che le masse partono oggi da una situazione di maggiore debolezza, che il livello di coscienza è arretrato per molti aspetti rispetto a quello di trent'anni fa (e la stessa documentazione che ci forniva il compagno della Fiat da questo punto di vista è abbastanza indicativa, per intenderci) ma che il quadro congiunto della crisi del capitalismo, del riformismo, del nazionalismo e dei vecchi apparati è tale da favorire oggi più di ieri potenti esplosioni sociali, processi di radicalizzazione di massa, sviluppo delle esperienze di ampi settori di massa.
E tutto questo ci spiega tanti fatti piccoli e grandi che sono nel nostro osservatorio generale e che sono nell'osservatorio centrale di questa discussione.
Il compagno Altamira ha detto giustamente che il caso argentino è tutto tranne che il caso argentino.
E' vero: il caso argentino è da un lato riprova che la rivoluzione è possibile, la metafora della possibilità della rivoluzione, ma è dall'altro l'annuncio delle nuove rivoluzioni che verranno, del nuovo processo di convulsioni sociali e politiche che tenderà a prodursi nel mondo sullo sfondo dell'attuale crisi mondiale, economica e politica degli equilibri internazionali.

E allora proprio qui sta il punto.
Il punto che ci consegna tutta l'esperienza del secolo precedente a fronte dello sviluppo dei nuovi movimenti e delle loro potenzialità è questo: o la coscienza della classe operaia e dei movimenti di massa si porta al livello di quelle potenzialità, al nuovo livello dello scontro, a livello di quella attualità del socialismo che in qualche modo è posta dalla profondità della crisi mondiale (ma anche dalle stesse potenzialità dei movimenti di massa), oppure l'elevamento di quel livello di scontro, contro tutti i romanticismi movimentisti, rischia di essere il fattore di sconfitta dei movimenti; perché l'arretratezza della coscienza tenderà a essere il brodo di coltura, il terreno fertile per quelle direzioni riformiste e per quei vecchi apparati (che seppur indeboliti sono pur sempre presenti sul campo) che giocheranno sull'inesperienza della giovane generazione per subordinarla ai propri disegni politici e quindi ai disegni di conservazione della società borghese.
Per questo, a tutti quelli che ci dicono: "ma insomma la coscienza delle masse è troppo arretrata, come fare a portare avanti un programma anticapitalista, radicale, rivoluzionario, socialista?" dovremmo rispondere: cari compagni voi rovesciate esattamente i termini del ragionamento, è esattamente perché la coscienza è arretrata rispetto alla profondità della crisi mondiale e ai nuovi livelli di scontro che abbiamo il problema di sviluppare la coscienza di massa al livello di quello scontro, al livello di quella crisi e quindi al livello dell'unica proposta e prospettiva programmatica sociale e politica che può risolvere da un punto di vista di classe la profondità di quella crisi.
E qui sta il senso della battaglia per l'egemonia.

È proprio perché non si combatte oggi la nuova guerra imperialista che si annuncia con le vecchie illusioni pacifiste, che è necessario sviluppare nel movimento più ampio contro la guerra la coscienza antimperialista, e quindi la denuncia dell’ONU, la critica di ogni illusione nei governi europei, il rifiuto di ogni neutralità pacifista fra potenze imperialiste e paesi dipendenti e quindi la difesa dell'Irak a fronte dell'aggressione imperialista.
È proprio perché non si combatte oggi la barbarie quotidiana del sionismo nei confronti del popolo palestinese e di quella giovane generazione con ricette salomoniche "due popoli due stati" o con gli appelli all'imperialismo europei che è necessario dire con chiarezza (anche a costo magari, come si vede, di scandalizzare qualcuno) che la messa in discussione dello stato di Israele nei suoi fondamenti militari, giuridici e razziali è condizione decisiva per la piena autonomia del popolo palestinese.
È così proprio perché non si piega oggi come ci ha spiegato il compagno Sorge l'arroganza della Fiat e la sua aggressione ai lavoratori con platoniche richieste di piani industriali, con tentativi fallimentari di concertazione con l'azienda, o con letterine a Berlusconi, che è decisivo porre nel movimento di lotta, e mi viene da dire tanto più in queste ore e sottolineo in queste ore, da un lato la rivendicazione dell’esproprio della Fiat senza indennizzo (perché l‘indennizzo lo hanno preso da decenni di trasferimenti pubblici pagati dai lavoratori) e dall'altro la questione dell'occupazione delle aziende portando innanzitutto i cassaintegrati assieme ai lavoratori ancora sul posto di lavoro nelle fabbriche per dire "lì restiamo, quelle fabbriche sono nostre, questo è il nostro lavoro", facendo quello che hanno fatto in decine e centinaia di fabbriche i lavoratori argentini.
Anche di questo ci parla, e su questo tornerò, l'esperienza straordinaria di quel paese.
Insomma vediamo che da ogni versante e a diversi livelli è la nuova radicalità dello scontro imposta dalla crisi mondiale a denunciare come illusorie tanto più oggi le vecchie culture riformiste e a richiamare l'attualità della risposta anticapitalista e socialista quale unica condizione di un altro mondo possibile.

Ma al tempo stesso questa battaglia di egemonia ha bisogno di un partito.
E' necessaria, è possibile ma ha bisogno di un partito.
Di cosa ci parla l'esperienza argentina raccontata e analizzata in termini così pregnanti dal compagno che mi ha preceduto?
Ci parla fondamentalmente di questo ci dice che all'interno di un processo di radicalizzazione sociale, sospinta dalla crisi, un settore di avanguardia della classe operaia può maturare un orientamento anticapitalista e di fatto rivoluzionario, rivendicare la propria autonomia di classe, rivendicare la rottura con la borghesia, rivendicare l'esproprio della borghesia, rivendicare il governo dei trabahadores per intenderci, e al tempo stesso sperimentare nelle sue stesse forme organizzative l'embrione di un potere alternativo: mi verrebbe da dire che anche solo questo fatto fa piazza pulita di tutto quello scetticismo intellettuale neoriformistico che ha detto che il Novecento è seppellito e che le categorie della rivoluzione sono morte.
Ma l'interrogativo vero è un altro: perché si è prodotto questo? Perché un settore dell'avanguardia della classe operaia argentina ha raggiunto questo livello di maturità politica sul terreno della proposta e del programma? Semplicemente perché sospinto dalla drammaticità della crisi?
No. Anche e soprattutto per la presenza di una forza marxista rivoluzionaria sperimentata, radicata, partecipe dell'esperienza della lotta di classe di quel paese e della sua avanguardia che ha saputo marciare contro corrente per un lungo periodo storico, che ha saputo fertilizzare la coscienza di quei lavoratori, che ha saputo e sa oggi sviluppare all'interno di quel movimento una battaglia di egemonia contrastando le posizioni e anche i programmi di quelle forze che nello stesso movimento piquetero vogliono subordinarlo a logiche e a prospettive di collaborazione di classe.
Ebbene quando noi parliamo di questo esempio, parliamo in metafora della necessità di un’Internazionale rivoluzionaria nel mondo.
Perché lo stesso problema e la stessa esigenza si pone sul terreno internazionale.
Quando noi parliamo di un’Internazionale rivoluzionaria, della rifondazione di un’Internazionale rivoluzionaria, non parliamo della rifondazione di una piccola chiesa, di una setta ideologica che mira a riprodurre se stessa, ma della rifondazione di una direzione politica dei movimenti di massa socialmente radicata partecipe dell'esperienza viva della classe, al tempo stesso impegnata a portare nel vivo delle lotte l'ispirazione di fondo se vogliamo dirla così, del programma della sinistra piquetera: perché solo quel programma di indipendenza di classe e di governo dei lavoratori che lega le rivendicazioni immediate alla prospettiva della rottura con la borghesia può dare un riferimento nuovo, realistico, non illusorio alle domande della nuova generazione e alle profondità della crisi.

Ci si chiede però: ma perché "la Quarta Internazionale"? Perché per esempio non un’aggregazione ideologica dei comunisti, dei partiti comunisti oppure stando alle proposte che circolano nella nuova sinistra italiana "una nuova sinistra internazionale"?
Bene, la risposta a questo interrogativo, contrariamente magari a un diffuso sospetto o senso comune, non sta nel richiamo ad una dottrina particolare, a un'ideologia e a una tradizione particolare, sta nel programma di riferimento che per i marxisti è l'unico vero terreno aggregante e l'unico vero terreno discriminante.
Quel programma della sinistra piquetera (se vogliamo dirla così dal punto di vista della sua traduzione popolare), cioè quel programma di autonomia di classe, di rottura con la borghesia, di rifiuto della collaborazione di classe, di governo dei trabahadores, non è un programma neutro, è un programma che segna una distinzione di campo sul terreno internazionale.
È il programma contro cui operano e vivono partiti che si chiamano formalmente partiti comunisti ma che eredi di una ortodossia staliniana dalla metà degli anni Trenta praticano nei loro paesi e con quale prezzo per la propria classe lavoratrice la politica della collaborazione di classe (dal partito comunista francese per intenderci che ha sostenuto i bombardieri di Jospin, sino al partito comunista sudafricano che oggi nega la riforma agraria alle masse di quel paese).
Così è il programma che viene contestato e respinto su un altro versante da quel settore di nuova sinistra noglobal internazionale che, per carità, ha mille diversificazione e contraddizioni interne, ma che ha come suo elemento culturale, fondativo, identitario unificante il rifiuto del concetto della rivoluzione e del potere.
E non è un caso tra l'altro se gli uni e gli altri -guardate come è curioso il mondo- sia i partiti comunisti di estrazione staliniana, sia le forze di sinistra noglobal sono accomunate pur nella loro diversità dal rifiuto della tematica stessa dell’Internazionale quale che sia.
Non è un caso. Trovo che sia del tutto ragionevole. Perché un’Internazionale, come dire, non è necessaria, non serve né per conservare apparati burocratici, né per sviluppare la critica intellettuale delle ingiustizie del mondo, né per chiedere la Tobin Tax ad un governo borghese, neanche per rivendicare la sola disobbedienza: un’Internazionale serve per la rivoluzione, e se si respinge la rivoluzione si respinge anche l’Internazionale.
Così è oggi e così è stato nella storia. Perché quel programma di rivoluzione e di Internazionale ha appunto una radice profonda nella storia del Novecento, come è stata richiamata anche in questo meeting: nella rivoluzione di ottobre certamente, ma anche nella lunga lotta di Trotsky, dell'opposizione di sinistra, della Quarta Internazionale delle origini contro la socialdemocrazia e contro lo stalinismo, che non è stata come spesso si pensa o si dice una lotta "per la democrazia contro la burocrazia", è stata una lotta per la prospettiva rivoluzionaria internazionale della classe operaia e dei movimenti di massa.
"Ma quella lotta è stata sconfitta" ci si obbietta. È vero, ma quella sconfitta non è stata la sconfitta "dei trotskyisti", è stata la sconfitta dell'avanguardia proletaria internazionale, è stata la sconfitta della prospettiva rivoluzionaria Internazionale che ha avuto conseguenze storiche tremende su tutto lo sviluppo successivo del movimento operaio, del movimento comunista sulla stessa sorte come si è visto delle conquiste dell'ottobre.
E oggi non si riapre il varco ad una prospettiva di vittoria della classe operaia se non a partire dal recupero di quel programma e della sua Internazionale, e quindi a partire dal recupero della memoria di quella generazione di rivoluzionari che, contro i mari e contro i venti non solo in URSS ma in Spagna e in tanti paesi del mondo, si sono battuti per quel programma e quell'Internazionale.
Il problema del collegamento fra questa nuova generazione che si risveglia e la generazione di allora, non è dunque un problema sentimentale, di onore al passato o alla memoria, è una necessità politica per il presente e per il futuro, e oggi la crisi congiunta del capitalismo, della socialdemocrazia, della stalinismo apre uno spazio storico sociale e politico obiettivamente più ampio per il rilancio di quel programma e del suo partito.
Vorrei dire che lo stesso Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale è nella sua costituzione e nelle sue aspirazioni anche l'espressione di questo nuovo contesto.

E a sua volta la costruzione di questa direzione alternativa è riproposta non solo dallo scenario mondiale ma anche dallo scenario italiano che non è un caso a parte rispetto al quadro della discussione che finora abbiamo sviluppato, anzi lo riflette, se vogliamo in misura tanto più oggi particolarmente concentrata.
Non è necessario scomodare il decennio, basta guardare a quello che si è sviluppato nell'ultimo anno e a quello che si sta sviluppando per molti aspetti sotto i nostri occhi.
Anche qui in connessione con la dinamica mondiale abbiamo visto e vediamo una ripresa dei movimenti.
Si riaffaccia una giovane generazione (il movimento noglobal in Italia ha forse le proporzioni più ampie che nel resto d'Europa).
La classe operaia esprime una forte reazione rispetto all'attacco che le viene portato dal nuovo governo di centrodestra (abbiamo la moltiplicazione delle ore di sciopero, la più grande manifestazione del dopoguerra).
Si è prodotto e si produce una vasta domanda e iniziativa di partecipazione e mobilitazione del cosiddetto popolo della sinistra in tutte le sue articolazioni (vedi il movimento girotondino).
E si sono moltiplicate in particolare le occasioni di contatto, di contagio, di contaminazione tra queste diverse dinamiche di massa: la stessa accelerazione che si è prodotta da questo punto di vista dopo la manifestazione di Firenze è per molti aspetti impressionante.
Erano vent’anni che in Italia non si registrava una massa critica così vasta di mobilitazione sociale.
E tutto questo ha avuto oltre tutto un impatto politico.
Ha avuto e ha un impatto politico sul governo Berlusconi che insediato da un anno, vede come è del tutto evidente (basta seguire la cronaca quotidiana), un acuirsi delle sue contraddizioni interne che non sono solo contraddizioni di ceto politico, ma sono anche contraddizioni che si sviluppano nel suo blocco sociale, a sua volta sotto pressione della dinamica di massa che si è levata.
E così ha inciso e incide sulla vicenda interna del centrosinistra e dei Democratici di Sinistra in termini profondi: anche qui con una fortissima accelerazione, con una divisione sempre più evidente tra le forze di quel mondo che in qualche modo cercano di conservare un rapporto e una radice nelle dinamiche di movimento per poterle controllare e quelle forze maggioritarie nei gruppi dirigenti che avendo scelto come prospettiva la rappresentanza politica della grande impresa e della grande borghesia si muovono sempre più in un processo di distacco e addirittura di contrapposizione a quelle dinamiche e a quelle ragioni di massa, dalla guerra alla Fiat per intenderci.
E oggi abbiamo addirittura la situazione in cui in Italia la maggioranza dei Democratici di sinistra, cosa nuova rispetto agli ultimi dieci anni, non ha il controllo, la direzione politica di nessuno dei movimenti di massa, non della classe operaia e non del movimento noglobal, non del movimento girotondino, un fatto inedito anch'esso sottoprodotto di uno scenario nuovo.
Bene. La domanda è: ma in questo quadro generale vi sarebbe dal punto di vista della condizione obiettiva il presupposto di un'esplosione sociale a carattere concentrato delle classi subalterne tale da rovesciare dal basso i rapporti di forza e aprire uno scenario nuovo? È talmente sicura la risposta affermativa che persino settori significativi di classe dominante ne sono in qualche modo coscienti.
Il dibattito che si è aperto in settori di grande borghesia, di grande capitale ma anche in settori precedentemente amici o relativamente di amici del governo come i vertici di BankItalia, se non sia il caso a fronte di questo scenario eccessivamente mosso e dei rischi che comporta, di ricollocarsi sul versante del centrosinistra e della concertazione è in qualche modo la registrazione dal punto di vista della borghesia delle potenzialità ripeto oggettive del movimento di massa.

Sentendo Altamira mi è venuta in mente di una trasmissione che si è tenuta qualche giorno fa a "Primo piano" attorno alla vicenda della Fiat in cui intervistavano vari lavoratori e una lavoratrice di Termini Imerese traduceva così il suo disagio: "ho lavorato una vita in questa fabbrica, mi vogliono cacciare, non mi cacceranno, bisogna dichiarare guerra al padronato, se vogliono avere una risposta all'argentina avranno una risposta all'argentina".

Questa piccola frase spiega indirettamente il silenzio tombale della borghesia italiana sull'Argentina.
Perché tanto interesse entusiastico per Lula e la rimozione dell'Argentina? Perché Lula è la speranza, mentre l'Argentina è lo spettro.

I circoli dominanti in qualche modo sentono che quell'esempio e quel riferimento è capace di una suggestione, di un contagio.
Il fatto che in un paese che veniva presentato dai vertici del centrosinistra fino a poco tempo fa come il paese che aveva sperimentato brillantemente le ricette del neoliberismo in versione moderata (il dalemismo fu un canale propagandistico di eccezione di questa soluzione) le masse si ribellino contro un governo regolarmente eletto, e riescano con la loro forza a cacciarlo è in qualche modo dal punto di vista della percezione della borghesia -che non ha diciamo il manuale dell'analisi marxista, ma ha un fiuto e un intuito di classe sperimentato da secoli- un grande elemento di preoccupazione.
Questo appunto ci dice che le potenzialità ci sono, che la borghesia le coglie, che lavora esattamente per sterilizzarle.
Il punto è che non è sufficiente che quelle condizioni obiettive vi siano, è necessario e decisivo l'intervento concentrato di un fattore soggettivo che lavori a innescare la miccia e che contrasti le operazioni avverse della borghesia.
E qui cogliamo in tutta la drammaticità quotidiana non sui libri di storia, ma nell'osservazione di ogni giorno che cosa significa crisi di direzione del movimento operaio, cosa significa crisi di direzione nello specifico della classe operaia italiana.
Noi abbiamo tutte le direzioni, tutte, tutte le presenze dirigenti della classe operaia e dei movimenti di massa che invece di investire nelle potenzialità dell'esplosione sociale, impegnano tutte le proprie forze per scongiurare direttamente o indirettamente quell'evenienza.
Ogni giorno lodano i movimenti (e noi siamo accusati naturalmente di non vedere le potenzialità dei movimenti) poi la loro politica concreta è tesa esattamente a disperdere le potenzialità migliori più avanzate più radicali dei movimenti che lodano.
Accade per una divergenza politico-culturale, per incrostazioni generiche di moderatismo? No, accade per una ragione molto semplice: perché tutte le direzioni, tutte le presenze dirigenti nella classe operaia e nei movimenti di massa non rompono, non vogliono rompere con la borghesia, con il centro borghese liberale.
E anzi tutti i rapporti che coltivano e sviluppano con i movimenti di massa sono tesi esattamente a ricomporre e rifondare una soluzione di collaborazione di governo in un modo o in un'altro con la grande borghesia e con il suo centro liberale. È la realtà.

Se noi vediamo Cofferati, il cofferatismo, la burocrazia della Cgil, noi abbiamo in una forma chimicamente pura la riprova di questo giudizio.
Noi abbiamo un apparato della Cgil, un cofferatismo che da un anno a questa parte, incanala una grande ascesa di massa e che al tempo stesso da un anno a questa parte priva quel movimento di massa di una prospettiva politica e di uno sbocco.
Non c'è una proposta unificante dal punto di vista della piattaforma, e anzi c'è una continuità delle pratiche concertative in tante categorie e aziende.
Non c'è una proposta dirompente che ambisca a vincere, a tentare di vincere sul terreno delle forme di lotta, e anzi abbiamo il centellinare semestrale di scioperi generali che servono a tenere sulla scena Sergio Cofferati ma non certo a piegare Berlusconi.
Sulla guerra abbiamo a differenza di ieri una posizione in qualche modo di obiezione, di rifiuto anche fosse targata ONU, ma al tempo stesso compaiono le prime dichiarazioni secondo cui un conto è naturalmente il rifiuto della guerra e un conto sarebbe l'estremismo di uno sciopero generale contro la guerra, come dire che il dissenso contro la guerra è consentito ma che l'opposizione reale alla guerra imperialista che si avvicina non è dabbene dal punto di vista della tradizione della burocrazia della Cgil.
Dunque vediamo che quanto più si estende la rappresentanza politica della Cgil, tanto più emerge il vuoto di indicazione reale di quel sindacato alle masse che pure dirige.
Tutto questo perché avviene? Avviene semplicemente per un residuo di incrostazioni burocratiche moderate di cui la Cgil, la svolta della Cgil, non si è ancora liberata, come dire il retaggio passato di una scoria che non ti si è ancora scrollata di dosso? Per una semplice vocazione concertativa e di recupero concertativo sul piano sindacale? No.
Avviene fondamentalmente per una ragione politica, perché Cofferati e il cofferatismo hanno una prospettiva politica che è in rotta di collisione con qualsiasi ipotesi di esplosione sociale in Italia.
E non è la prospettiva politica che noi attribuiamo a Cofferati, è quella che rivendica apertamente lui, è quella dichiarata a partire dall'intervista sul Corriere della Sera di quest’estate: la prospettiva politica è la rifondazione del centrosinistra in Italia, in particolare l'incontro strategico con quegli uomini di Prodi, con quella nomenclatura di Prodi che, se vogliamo, è l'espressione politica più diretta oggi in Italia della grande impresa nei suoi interessi nazionali e nei suoi interessi internazionali e imperialistici.
E tutta la messe di relazioni di movimento che Cofferati e il cofferatismo costruisce nella classe operaia, con i noglobal, con i girotondi, adesso con Gino Strada e il movimento per la pace è concepita esattamente come dote contrattuale di quella prospettiva di matrimonio con gli interessi dalla grande impresa, del grande padronato, dell'imperialismo italiano.
Questa prospettiva è compatibile con un'ipotesi di investimento di radicalizzazione dei movimenti di massa? No, è chiaro che la esclude totalmente.
Il piccolo dettaglio è che questo ha conseguenze pesantissime già oggi sulla dinamica della lotta di classe e dello sviluppo generale della situazione politica.
A partire dallo sciopero generale del 18 ottobre non c'è un lavoratore in Italia che conosca, che veda un'indicazione di prospettiva dal punto di vista dell'azione generale.
Berlusconi tira il fiato in questo vuoto di iniziativa e lavora a rimontare le sue enormi difficoltà: e non a caso in questi giorni, in queste ore sta accarezzando l'idea di uscire dalle difficoltà politiche e sociali del suo blocco con un'ipotesi presidenzialista e plebiscitaria (con tutte le potenzialità reazionarie che in qualche modo questa dinamica contiene).
Il padronato approfitta di questo vuoto per fare l’affondo a partire dai suoi specifici interessi: lo stesso affondo sulla Fiat è stato possibile con quella brutalità radicale nel vuoto che si è prodotto a partire dalla consapevolezza che i vertici della Fiat hanno che non c'è nessuna volontà dall'altra parte della barricata di vincere sul serio, di partecipare sì ma di vincere no.
Questo la Fiat lo sa.

E allora da questo punto di vista è chiaro che si pone il problema delle responsabilità anche sul versante di un'altra presenza nei movimenti, che è la presenza del partito della Rifondazione Comunista e della sua maggioranza dirigente.
È del tutto evidente che il PRC non ha le stesse responsabilità dirette di Cofferati perché non ha lo stesso ruolo rispetto alle masse.
Ma ha una responsabilità enorme nel non costruire un'alternativa politica di direzione a Cofferati e al cofferatismo fra le masse: questa è la sua responsabilità e questa è una grande responsabilità tanto più oggi.
Il PRC sostiene le ragioni dei lavoratori e dei movimenti, promuove il referendum per l'estensione dell'articolo 18, critica la concertazione, critica l'Ulivo anzi ne sentenzia la morte, ma non ha una proposta di massa ai movimenti, non ha una linea di partito nei movimenti che non sia quella di non avere alcuna linea, che è l'unica cosa assolutamente chiara che si certifica di direzione in direzione, di comitato nazionale in comitato nazionale con tanto di timbro congressuale.
E siamo davvero al paradosso. Siamo al paradosso perché nel momento della ripresa del movimento di massa come in Italia non si avvertiva da due decenni, il partito che formalmente è il più a sinistra dello schieramento politico e istituzionale italiano, non ha una sua proposta rivendicativa d'azione.
E sulla stessa vicenda Fiat su cui abbozza una proposta relativamente inedita rispetto al passato, la "nazionalizzazione" (noi abbiamo fatto fior fior di congressi proponendo come mozione di minoranza la tematica della nazionalizzazione, ci davano dei matti, adesso hanno mutuato da noi), da un lato l'hanno piegata dentro il codice del loro programma in una proposta di innovazione della politica industriale (prima l’irizzazione poi più modestamente l'intervento pubblico perché anche sull’irizzazione si rischiava di non aver il collant con la Cgil e la Fiom) e dall'altra l'hanno svincolata da un'indicazione concreta, di lotta in una circostanza drammatica come quella descritta dal compagno Sorge su come piegare sul terreno dei rapporti di forza la resistenza della Fiat.
Siamo al colmo: all'ultimo comitato nazionale del partito abbiamo chiesto noi di parlare della Fiat e l'abbiamo ottenuto perché abbiamo annunciato il nostro ordine del giorno; e dovendo parlare della Fiat si è contrapposto al nostro ordine del giorno un ordine del giorno di analisi della crisi dell'auto in cui il messaggio politico era "ci affidiamo alla Fiom e occupare l'azienda è impossibile.".
Il comitato nazionale del partito più a sinistra del paese di fronte all’acuirsi, al concentrato di crisi sociale risponde "facciano i lavoratori dietro le insegne della Fiom".
Se poi dal punto di vista politico le responsabilità si accrescono, e anche qui siamo al paradosso, il partito più a sinistra dello schieramento politico del paese a fronte di uno scontro politico e politicizzato come non c'era da venti anni col governo, consuma risoluzioni di direzioni e di comitati nazionali una dopo l'altra contro la minoranza del partito dicendo che tutto si può dire ma non la rivendicazione "cacciamo il governo Berlusconi".
Siamo all'assurdo, perché la rivendicazione del "cacciamo il governo Berlusconi" è oggi la rivendicazione non dico più popolare ma addirittura plebiscitaria nella classe operaia e nei movimenti di massa.
Se uno deve trovare una rivendicazione che in qualche modo faccia da ponte fra i vari movimenti e persino scavalchi le mille contraddizioni che ci sono nei movimenti, dice "cacciamo Berlusconi".
Bene. Quello che costituisce il collante a livello di sentimento di massa al quale noi dovremmo rapportarci in una logica di egemonia per aprire poi il varco più generale alle nostre rivendicazioni, quella parola d'ordine della cacciata del governo Berlusconi che ci porrebbe in un’interlocuzione di frontiera privilegiata con il movimento di massa e ci consentirebbe di fare noi l’affondo contro il centrosinistra e i DS sul fatto che dopo tante chiacchiere contro Berlusconi non si impegnano a cacciarlo davvero, questa rivendicazione centrale che qualsiasi persona di buon senso comune con una dose media di radicalità a sinistra intelligentemente capisce viene respinta solennemente dall'oracolo dei vertici del partito.
Per arrivare, comitato nazionale dopo comitato nazionale, all'imbarazzante corollario per cui se sullo sfondo del governo Berlusconi-Bossi-Fini, il Papa (dico il Papa) si presenta in parlamento e si presenta in parlamento, non solo per rivendicare la propria legislazione reazionaria sulla famiglia ma per proporre al parlamento italiano e quindi al governo reazionario Berlusconi-Bossi-Fini una sorta di rifondazione del concordato tra il Vaticano e la seconda Repubblica in chiave più apertamente reazionaria, abbiamo il partito più a sinistra dello schieramento politico italiano che non solo non vibra una protesta (che sarebbe onestamente poco) ma che ascolta il Papa in punta di piedi e il suo segretario che dichiara sulle colonne del Manifesto di aver provato, al di là di qualche dissenso, una vivissima emozione ad ascoltare il Papa.
Voglio dire e lo dico senza alcuna battuta irriverente che naturalmente ognuno dispone delle sue emozioni ma, è il caso di dire, a ognuno le sue.
È questo è avvenuto e tutto questo avviene.
badate, non in un momento qualsiasi ma nel momento in cui dopo il V Congresso del partito il gruppo dirigente ha celebrato la cosiddetta "svolta a sinistra", addirittura avviene nel momento in cui il compagno Maitan sulle colonne di Bandiera Rossa ci dice che Bertinotti finalmente è passato dal riformismo alla rivoluzione (l'unico che non se n’è accorto è Bertinotti e probabilmente neanche il Papa).
Figuriamoci se ci fosse una... "svolta a destra"! Allora in realtà al di là delle battute io non credo che questo avvenga per caso: anche qui come per il caso di Cofferati tutto si tiene in relazione alla prospettiva politica che si persegue.
Non è che il gruppo dirigente del partito fa queste cose per un deficit di radicalismo, per una scoria residua di moderatismo istituzionale, oppure per dotta divergenza culturale sul leninismo e l'egemonia.
Quello che conta realmente è la prospettiva politica del gruppo dirigente.
E ancora una volta non gliela attribuiamo noi, se le attribuisce da sé, c'era scritta nelle pieghe dei documenti congressuali, anche se tanti compagni non l'hanno colta e ormai è pubblica, dichiarata, esplicita.
Qual è la prospettiva politica? Lo dichiara Bertinotti in molteplici interviste e l’ha formalizzata anche all'ultimo comitato nazionale del partito: è quella di dire, da un lato, "l'Ulivo è morto", dall'altro "rifondiamo il centrosinistra".
Non è un'esagerazione guardate, è esattamente la sostanza della proposta che viene avanzata, perché la sostanza della proposta che viene avanzata è quella per cui noi siamo il partito che attorno a sé costruisce la galassia della sinistra alternativa (non si capisce bene con quali interlocutori ma lasciamo perdere), poi la sinistra alternativa fa il confronto ravvicinato, l’intesa con la sinistra moderata (che sarebbe Cofferati) e poi insieme le due sinistre, quell'alternativa e quella di Cofferati, negozierebbero con il centro moderato.
Quello che capisco io è la rifondazione del centrosinistra.
E questa costruzione politica significa due cose: primo che se fai e ti protendi all'incontro ravvicinato con Cofferati nei movimenti di massa abroghi perciò stesso qualsiasi battaglia di egemonia alternativa anticofferatiana, per di più nel momento in cui la direzione cofferatiana tradisce i movimenti e le loro potenzialità; e in secondo luogo e soprattutto riproponi la vera e propria ossessione della prospettiva di incontro con quel centro moderato del paese che in realtà è la rappresentanza politica della grande borghesia e della grande impresa.
Si dice "ma c'è la competizione con Cofferati": certo che c'è, ma c'è la competizione con Cofferati non sul terreno dell'egemonia alternativa nei movimenti bensì della ricomposizione del centrosinistra.
Questa politica e questa prospettiva seleziona qualcosa per i movimenti di massa? No, rivela la sindrome Prodi, la sindrome Jospin, la sindrome Lula, l'eterno ritorno di questo gruppo dirigente a quella vocazione riformistico-istituzionale e governista che lo ha compromesso ieri attraverso il coinvolgimento nelle peggiori politiche antipopolari contro la classe operaia e che rischia nuovamente di coinvolgerlo domani con effetti potenzialmente catastrofici non solo sui lavoratori ma anche sullo stesso partito della Rifondazione.

E allora credo che anche questo esame della situazione italiana non solo nel suo lungo corso ma nella stessa esperienza di quest'anno cruciale ci dice che il nodo di fondo non è quello di un intervento più radicale nei movimenti come fine a sé stesso; il nodo di fondo in Italia come altrove è la costruzione di un'altra direzione politica del movimento operaio, di un altro programma e di un'altra prospettiva politica di autonomia di classe di rottura con la borghesia di alternativa anticapitalistica che sola può liberare una battaglia di egemonia alternativa nei movimenti e quindi per questo costruire un futuro diverso per i movimenti stessi.
Per questo Progetto Comunista ha posto al centro della sua battaglia politica strategica non un semplice contributo di idee, fosse pure rivoluzionarie, ma la rifondazione del partito comunista rivoluzionario.
Oggi la scelta di costituirci in Associazione Marxista Rivoluzionaria per la Rifondazione della Quarta Internazionale si pone dentro questa prospettiva di fondo.
Non è semplicemente il coronamento di un tragitto, non è semplicemente l'acquisizione di uno strumento che si pone sul terreno della continuità della battaglia politica interna (che pur è importante e deve costruire la sua prospettiva); non è neppure semplicemente uno strumento di maggior valorizzazione del profilo pubblico delle nostre posizioni e dell'intervento che tanti nostri compagni fanno in situazioni di massa, che è un intervento in crescita (e qua potrei fare tanti esempi, lo sviluppo del nostro lavoro operaio a Genova, lo sviluppo del nostro lavoro operaio a Venezia, due situazioni in cui la maggioranza dei compagni operai del partito è passata alle posizioni di Progetto Comunista; posso citare l'inizio importante della nostra costruzione come Progetto Comunista alla Fiat, della cui qualità credo che il compagno Sorge abbia fornito un’ottima testimonianza; ma anche tanti altri fatti minori che spesso non cogliamo nel nostro stesso osservatorio ma che sono reali: ad esempio in Italia c'è una sola università occupata, a fronte dell’attacco della Moratti, è l'Università di Cagliari occupata per iniziativa dei compagni di Progetto Comunista; e potrei anche citare altri episodi di cui mi piacerebbe parlare e che sono esemplari: ne cito uno, non faccio il riferimento nominale perchè il compagno è qui presente: un compagno che in un importante comune del Veneto vota da solo il documento congressuale di Progetto Comunista nel suo circolo, un grande circolo e tutti gli danno dell’isolato, del sopravvissuto, e che oggi è alla testa di un comitato di duecento operai pendolari che ha eletto lui come portavoce e che attraverso di lui fa la vertenza con una giunta di centrosinistra in cui siedono tranquillamente gli assessori di quella maggioranza del circolo di Rifondazione cui si era contrapposto: come dire che a volte la verifica delle proprie posizioni sul versante di massa riesce non solo ad acquisire importanti risultati sul quel versante ma ad avere anche un impatto non indifferente nella lotta interna al partito.
Ripeto cito questo episodio, ne posso citare altri, mi paiono tutti significativi di una mole di intervento e di presenza e anche di rappresentanza di esperienze di lotta che con tutte le enormi contraddizioni, i deficit e le insufficienze oggi c'è ed è in crescita.
Ma l'Associazione Marxista Rivoluzionaria Progetto Comunista per la Rifondazione della Quarta Internazionale non è solamente, ripeto, la somma magari più concentrata e organizzata di quella battaglia di massa e di quelle proiezioni pubbliche, vuol essere viceversa la riconduzione di tutto questo (della battaglia interna e di massa) al punto essenziale: alla prospettiva di costruzione del partito sapendo certo che questa costruzione è un processo complesso ma sapendo anche che un aspetto decisivo di questo processo è lo sviluppo dell'organizzazione militante, è la formazione e lo sviluppo dei nostri quadri e del nostro radicamento sociale, ed è anche, in questo quadro, lo sviluppo e il consolidamento del nostro impegno internazionale sul terreno dalla rifondazione della Quarta Internazionale al fianco dei compagni e delle organizzazioni che negli altri paesi sviluppano la nostra stessa battaglia sul nostro stesso programma, perché quello che abbiamo costruito in tanti anni nel PRC noi non l’avremmo mai realisticamente costruito al di fuori di questa collocazione e di quest'impegno e tanto meno potremmo svilupparlo e investirlo oggi in una prospettiva al di fuori di questo quadro di costruzione internazionale che non è un optional ma è una parte decisiva del nostro stesso programma.
E a sua volta lo sviluppo del movimento per la rifondazione della Quarta Internazionale non avrà effetti irrilevanti sullo stesso sviluppo della nostra organizzazione in Italia e quindi sulla prospettiva della costruzione del partito rivoluzionario nel nostro paese.

E, per concludere, care compagne e cari compagni, per noi la costruzione del partito della rivoluzione in Italia e nel mondo non è un gioco ma è un impegno reale.
Se il trotskysmo fosse per noi quello che è e che è stato per tanti e cioè una testimonianza delle idee, una custodia della memoria, un contributo critico di un'esperienza critica del Novecento o anche semplicemente un'appartenenza, mi viene da dire che tutto sarebbe terribilmente più semplice.
Perchè si trova sempre una parete a cui appendere un quadro.
Per noi il trotskysmo è invece essenzialmente la rivoluzione, il suo programma, il suo partito.
A differenza di tanti che hanno "messo giudizio" e magari di quei dirigenti di estrema sinistra di trent'anni fa che pontificavano contro il leninismo e il trotskysmo (in nome formalmente allora del movimento e della rivoluzione) e che oggi hanno scoperto o le guerre umanitarie come nel caso di Sofri, o le virtù degli assessorati come nel caso di Piperno o le virtù dell'imperialismo europeo, naturalmente per opporsi all'impero americano, come nel caso di Negri e che quindi sono invecchiati, ecco noi non abbiamo messo giudizio e in questo senso, purtroppo solo in questo, non siamo invecchiati.
E vorrei citare una frase molto bella, io trovo, di un compagno, il compagno Pietro Tresso fondatore e dirigente del Partito Comunista d'Italia, amico di Gramsci, espulso dal PCI per l’adesione al trotskysmo e assassinato nel '43 dagli staliniani in Francia appena fuggito dal carcere nazista che così scriveva alla cognata poco prima della sua morte: "E’ proprio perché siamo ancora giovani che ci ritroviamo fuori dalle diverse chiese.
Se noi fossimo diventati vecchi avremmo ascoltato la voce dell'esperienza, saremmo diventati saggi, saremmo ricorsi come tanti altri alla menzogna, alla doppiezza e alla reverenza verso i differenti 'figli del popolo', ma questo non ci era possibile.
Perché? Perché siamo rimasti giovani, e perché siamo sempre insoddisfatti di ciò che abbiamo, perché aspiriamo sempre a qualcosa di meglio.
E chi non è rimasto giovane è in realtà diventato cinico; per loro gli uomini e l'umanità non sono che strumenti, mezzi che devono servire i loro scopi personali anche quando questi scopi sono dissimulati sotto frasi d'ordine generale.
Per noi invece gli uomini e l'umanità sono le sole vie, le vere realtà esistenti".
Bene, questo è il programma e vorrei dire i principi, e vorrei dire la morale su cui fu fondata tanti fa la Quarta Internazionale.
Se si vuole costruire un futuro per i movimenti di massa nel mondo, il futuro della rivoluzione, è da questi principi, da questa cultura e da questa morale che dobbiamo ripartire.
Perchè la rivoluzione è giovane e giovane sarà la Quarta Internazionale.

Marco Ferrando

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