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Bilancio di una rivoluzione nazionale falsamente ammantata di socialismo

In morte di Fidel Castro

(5 Marzo 2017)

La nostra corrente, nella sua storia ormai ultrasecolare, si è costantemente caratterizzata per una profonda avversione nei confronti di ogni forma di esaltazione degli individui, per la ripulsa di ogni idolatria di capi sagaci, di “uomini della provvidenza” e dell’idea che un singolo uomo, si trovi pure alla guida della nazione più potente del mondo, possa cambiare con le sue scelte il corso della storia. In maniera analoga siamo contrari a ogni forma di demonizzazione degli esponenti politici al servizio della classe borghese, non perché non meritino il nostro più cordiale disprezzo, o perché ispirati da un ipocrita umanitarismo, ma perché non li riteniamo in grado, pur con tutta la nequizia di cui sono capaci, di provocare effetti più nefasti di quanto i rapporti di forza oggettivi fra le classi rendano possibile.

Anche in occasione della morte del cubano Fidel Castro Ruz, non ci interessa giudicare l’uomo e le sue faccende personali quanto cogliere l’occasione per fare una valutazione da un punto di vista marxista della natura della Rivoluzione Cubana e tirare un bilancio dei quasi sessant’anni di regime. Nostro scopo è sfatare miti e menzogne che confondono e disorientano molti proletari i quali si fanno accecare dal miraggio di un preteso ordine sociale socialista che albergherebbe nell’isola caraibica.

Il rovesciamento politico che portò al potere i castristi nel 1959 fu il risultato di un moto di carattere anticoloniale, nato in opposizione alla dominazione economica statunitense, che si era imposta progressivamente sull’isola a partire dal 1898, anno della sua indipendenza dalla Spagna. Tale moto anticoloniale non si era riproposto mai di andare oltre l’orizzonte politico, economico e sociale borghese, né il regime che ne scaturì tentò mai di rivolgere le basi capitalistiche della società cubana.

Il capitalismo si era già impiantato a Cuba da molti decenni al momento in cui il “Movimento 26 Luglio”, guidato da Fidel Castro, intraprese la strada che lo avrebbe portato alla presa del potere. Quindi al moto anticoloniale cubano difettava il carattere di lotta contro le strutture sociali tradizionali, feudali o semifeudali, proprio delle rivoluzioni che fra la metà degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso scossero ampie aree dell’Asia e dell’Africa.

Tuttavia la giovane borghesia cubana, pur cresciuta nella soggezione al capitale statunitense, trovò, nella sua storia e nelle forze suscitate dall’accumulazione capitalistica, la determinazione a dividere le proprie sorti da quelle del potente vicino.

Se la direzione del movimento nazionale-anticoloniale rimase saldamente in mani borghesi, fu il proletariato cubano la classe che si impegnò maggiormente in lotte coraggiose e generose contro il fatiscente regime del dittatore, nonché curatore degli interessi economici statunitensi, Fulgencio Batista.

Il proletariato non riuscì a contendere alla borghesia la direzione del movimento anticoloniale per due fattori: 1) l’assenza del partito comunista, che solo può indicare alla classe lavoratrice i propri compiti e interessi storici; 2) un contesto internazionale in cui la classe operaia delle metropoli capitalistiche, paralizzata dall’egemonia politica ed ideologica dello stalinismo e del riformismo, non fu in grado di unirsi alle lotte dei popoli coloniali e dei paesi economicamente dipendenti, come era il caso dell’Isola caraibica, per scuotere il giogo della dominazione borghese in primo luogo in casa propria.

Gli strati proletari e sottoproletari delle campagne e delle città ebbero un ruolo notevolissimo nel processo che portò al rovesciamento del regime di Batista anche in virtù della loro cospicua consistenza numerica e peso relativo nella composizione della società cubana del tempo.

Scrivevamo nel 1961, riunione di Roma del 3 e 4 marzo: «Vittima di un capitalismo abnorme, innestatosi su un regime semi-schiavista di grossi proprietari terrieri, era sorto a Cuba un vasto proletariato e semiproletariato sfruttatissimo in condizioni di estrema indigenza. Su una popolazione attiva di circa 2 milioni di individui, un milione e mezzo era ed è costituito da salariati puri di cui 800.000 agricoli, le classi medie formate da imprenditori artigiani e professionisti, non contavano in tutto che mezzo milione di unità (...) Dalla sola industria zuccheriera dipendono circa 500.000 operai agricoli che però lavorano solo quattro mesi l’anno, al tempo del raccolto: la disoccupazione raggiunge nel “tiempo muerto” stagionale il 15-20%. Grazie all’importazione delle tradizioni anarco-sindacaliste spagnuole, la rapida manomissione capitalistica dell’economia indigena provocò il raggruppamento dei salariati in organizzazioni sindacali».

Questo bracciantato agricolo poverissimo, elemento di instabilità permanente e ribelle alla pace sociale, fu determinante nello scontro che oppose il movimento castrista al regime di Batista e che si manifestò nella “guerra di guerriglia” sviluppatasi nelle campagne. Eppure la rivoluzione cubana fece leva anche sulla lotta urbana, aspetto questo sottovalutato dall’agiografia castrista e guevarista, che vide attiva la classe operaia con atti di sabotaggio, azioni violente e soprattutto con l’arma proletaria per eccellenza dello sciopero. Ma l’impegno della classe operaia cubana nella lotta contro il regime di Batista, in assenza di una direzione rivoluzionaria, la borghesia cubana seppe utilizzarlo per i propri fini di affermazione nazionale.

La coltivazione della canna saccarifera aveva un ruolo centrale nell’economia cubana, tanto che nel 1957 lo zucchero superava i tre quarti del totale delle esportazioni. L’anarchia della produzione capitalistica mondiale ed il ruolo imposto a Cuba dalla divisione internazionale del lavoro avevano imposto quella monocoltura che era andata radicandosi di pari passo con l’affermazione degli interessi del capitale statunitense.

Tale processo non era stato indolore anche a causa delle periodiche crisi provocate dalle oscillazioni delle quotazioni internazionali dello zucchero che talora conobbero anche ribassi repentini come negli anni ‘20 del secolo scorso quando il prezzo crollò di oltre il 75%.

Alla metà degli anni ’50 la maggior parte delle terre coltivate era di proprietà statunitense e i due terzi del prodotto raffinato usciva da zuccherifici americani.

Inoltre, si legge in “Il significato della rivoluzione cubana alla luce del marxismo”, in “Il Programma Comunista” n.20 del 1961, «tutto o quasi tutto Cuba doveva importare dalla vicina America: dai manufatti ai generi alimentari. Le materie prime esportate negli USA facevano ritorno a Cuba sotto forma di beni di consumo dopo aver subito colà i processi dì trasformazione industriale. Questo “vassallaggio al colosso straniero” può essere illustrato da un rapido esame della bilancia dei pagamenti. Per l’intero periodo della seconda dittatura di Batista (1950-58), essa è passiva con un disavanzo di circa mezzo miliardo di dollari, che le riserve auree non bastano a coprire, e per cui è necessario domandare prestiti agli stessi americani che ne traggono ingenti interessi».

Questa soggezione al capitale straniero si manifestava con profondi squilibri su quella che era un’economia relativamente prospera e ai primi posti per reddito pro-capite e per tasso di alfabetizzazione fra i paesi dell’America Latina. La relativa ricchezza di alcune città era in contrasto con l’estrema condizione di miseria dei lavoratori della canna e con le pessime condizioni sanitarie in cui vivevano gli strati poveri della popolazione, mentre la decadenza sociale si manifestava anche nel proliferare di attività quali il gioco d’azzardo e la prostituzione, legate al flusso di “turisti” fra le due sponde degli Stretti della Florida.

Fu dunque per opporsi a questa dominazione, cavalcando il diffuso malcontento sociale, che elementi della media e piccola borghesia, delusi da ogni tentativo di cambiamento per via democratica e pacifica, decisero di imprimere una svolta violenta al movimento che si opponeva alla dittatura di Batista, e dunque per necessità anche alla dominazione economica statunitense.

Con l’assalto armato alla caserma Moncada nella città di Santiago de Cuba del 26 luglio del 1953, Fidel e i suoi seguaci consumavano una rottura definitiva nella vita politica dell’isola caraibica, che tuttavia nelle loro stesse intenzioni non li poneva ancora in urto con gli Stati Uniti in maniera aperta. Infatti in un primo tempo anche settori dell’amministrazione nordamericana videro con favore il movimento di opposizione al sempre più instabile regime di Batista e valutarono di appoggiarne anche la svolta verso la lotta armata.

A conferma dell’assenza di alcun contenuto proletario rivoluzionario nella lotta della guerriglia castrista vi è il “Programma del Moncada”, le cui rivendicazioni erano tutte interne al quadro politico ed economico borghese. Tale programma, che avrebbe dovuto essere letto per radio dopo la presa della caserma, consisteva in cinque punti fondamentali: 1) ripristino della costituzione del 1940; 2) distribuzione della terra a tutti i contadini (coloni, affittuari, mezzadri e giornalieri) che occupavano appezzamenti inferiori a cinque caballerias (1 caballeria = 13,43 ettari) mediante esproprio dei proprietari da parte dello Stato con indennizzo pagabile in dieci anni; 3) diritto degli operai e degli impiegati a partecipare al 30% degli utili delle grandi aziende industriali, commerciali, minerarie; 4) concessione ai coloni del 55% delle rendite della coltivazione della canna da zucchero; 5) confisca dei beni dei malversatori e dei loro eredi per mezzo di tribunali ad hoc dotati di ampi poteri investigativi.

A sostegno di questo programma lo stesso Fidel, dopo che venne arrestato e sottoposto a processo, sottolineò che tale programma era ispirato a due articoli della costituzione del 1940 i quali proscrivevano il latifondo e impegnavano lo Stato a impiegare tutti i mezzi a propria disposizione per offrire un lavoro a quanti ne erano privi. Dunque, secondo lo stesso Fidel, nessuna di queste misure poteva essere considerata incostituzionale e aggiungeva: «Il problema della terra, il problema dell’industrializzazione, il problema degli alloggi, il problema della disoccupazione, il problema dell’istruzione e il problema della salute del popolo: ho qui riassunto i sei punti verso i quali i nostri sforzi sarebbero stati diretti, assieme alla conquista delle libertà pubbliche e della democrazia politica».

Dopo l’esordio della lotta armata, passarono altri tre anni e mezzo prima che, con lo sbarco nel dicembre del 1956 di un nutrito gruppo di combattenti stipati nello yacht Granma partito dal Messico, si realizzasse quel radicamento della guerriglia sul territorio cubano che in poco più di due anni aprì ai castristi la strada del potere.

In tutto questo periodo e nei primi tempi successivi all’insediamento del nuovo regime, avvenuto il 1° gennaio del 1959, non si assistette ad alcun sostanziale cambiamento del programma originario del movimento, dal quale non si discostarono sul piano sociale ed economico neanche le prime misure del governo castrista. Nel corso dei primi tempi il nuovo regime nazionalizzò il 90% del debole settore industriale e circa il 70% delle terre.

I provvedimenti di esproprio nei confronti delle proprietà terriere al di sopra dei 405 ettari, che colpirono prevalentemente compagnie e cittadini statunitensi, provocarono fra l’estate e l’autunno del 1960 la rottura con l’amministrazione americana, seguita dalle ritorsioni economiche culminate in seguito col “bloqueo”, il blocco economico imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati che per oltre mezzo secolo ha impedito un vero decollo dell’accumulazione capitalistica a Cuba.

Fu dunque questa inimicizia con il vicino nordamericano, dettata da interessi economici nazionali e borghesi, e non di opposta classe sociale, che impose alla direzione cubana l’alleanza con l’Unione Sovietica e i paesi del blocco di Varsavia, e quindi l’adozione di una facciata “socialista”.

Iniziava allora una lunga stagione in cui la collocazione di Cuba nella divisione internazionale del lavoro è rimasta sostanzialmente invariata, basata sulla monocoltura della canna da zucchero. Per le sue necessità imperiali il blocco sovietico acquistava lo zucchero a prezzi al di sopra di quelli del mercato internazionale in cambio della fornitura di petrolio russo.

Questa imposizione esterna comportò un sostanziale fallimento del progetto, legato alla riforma agraria, di differenziare la produzione agricola. Nel 1978, a quasi 30 anni di distanza dalla conquista del potere da parte dei castristi, lo zucchero raggiungeva la quota record del’87% sul totale delle esportazioni.

Il ritardo nello sviluppo della produzione agraria poteva attribuirsi anche al persistere della condizione parcellare, elemento di freno allo sviluppo capitalistico delle campagne, ma anche quanto di più lontano dal socialismo, la cui bandiera il regime cubano continuava ad agitare abusivamente a fini di repressione sociale.

Nei primi anni ’90 il collasso dell’Unione Sovietica e del Comecon fece venire meno uno dei principali sostegni all’economia cubana che, anche per il persistere del blocco economico nordamericano, subì una crisi gravissima. A essere colpito maggiormente fu l’approvvigionamento energetico, che risentì fortemente del crollo delle importazioni di petrolio russo, e di generi alimentari. Iniziò dunque quello che venne chiamato il “período especial” in cui la penuria di idrocarburi ebbe un effetto paralizzante anche sulla produzione interna, tanto che il Pil fra il 1990 e il ‘93 crollò del 36%.

Fu un periodo di duri sacrifici per il proletariato la cui dieta venne razionata al limite della denutrizione. Il consumo di carne annuo nello stesso periodo crollò da 39 a 21 chili pro-capite, quello di pesce scese da 18 a 8 chili.

La penuria di carburante per le macchine agricole determinò anche un drastico calo della produzione di canna da zucchero, che da allora, pur senza perdere la sua centralità nell’economia cubana, perse terreno rispetto ad altre produzioni.

L’esigenza di sfamare la popolazione risparmiando sul carburante per i trasporti, spinse il governo a destinare significative estensioni di terreno alla coltivazione di ortaggi per il consumo locale. Nacquero così nel 1994 i “mercados agropecuarios” in cui era possibile vendere liberamente i prodotti ortofrutticoli provenienti da appezzamenti coltivati da singoli o da cooperative di contadini, che vennero invitati a rilevare e a mettere a coltura anche terreni incolti.

Nello stesso tempo venne autorizzata la libera circolazione del dollaro, che si affiancò alla doppia circolazione monetaria di pesos convertibili e non convertibili. Inoltre vennero permessi gli investimenti stranieri, ci fu una maggiore apertura al turismo ed autorizzato il lavoro autonomo per quasi 150 professioni.

Con la progressiva apertura al settore privato, mai scomparso del tutto neanche negli anni di maggiore avvicinamento di Cuba al “modello” del capitalismo a tendenza statale russo, la quota di addetti al settore passava all’8% del 1981 al 23% del 2000. Queste cifre non danno conto del settore illegale dell’economia, un elemento persistente della vita cubana e forse l’unico settore che non abbia mai conosciuto crisi e che a partire dai primi anni ’90 ha segnato un vero boom.

Tuttavia le liberalizzazioni e le privatizzazioni, misure dall’effetto tutt’altro che taumaturgico, non hanno portato sostanziali miglioramenti all’economia cubana, la quale è riuscita ad evitare nuovi tracolli anche grazie alle forniture di petrolio a basso costo dal Venezuela.

A impedire miglioramenti sostanziali nelle condizione di vita dei salariati cubani è stato il divieto degli scioperi, rimasto punto fermo in quasi sei decenni di regime castrista. A escludere già nel 1961 la legalità dello sciopero fu Ernesto Che Guevara il quale sosteneva che i lavoratori cubani, dovendo abituarsi a lavorare in maniera collettiva, non potessero astenersi dal lavoro per avanzare rivendicazioni economiche.

Mentre i salari del settore pubblico restano molto bassi e sono pagati con pesos non convertibili, il governo cubano nel 2008 ha adottato nuove misure a carattere sfacciatamente antiproletario e in linea con la maggior parte degli esecutivi borghesi del pianeta, innalzando l’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini. A questo va aggiunto che le pensioni garantiscono appena una stentata sopravvivenza essendo anch’esse molto basse e pagate in pesos non convertibili.

Negli ultimi anni all’accelerazione del processo di liberalizzazione dell’economia e della privatizzazione di una parte cospicua del patrimonio pubblico, ha corrisposto la continuità ideologica e politica del regime.

Il cambio fra fratelli al vertice del potere, con le cose rimaste in famiglia, si spiega con l’impossibilità di manomettere la vasta rete di interessi legata alla macchina statale che ha permesso al regime di sopravvivere tanto a lungo.

Ora il capitalismo cubano, il quale sembra sempre più orientato a un modello “vietnamita” di liberismo coniugato al sistema politico del partito unico, si trova di fronte a nuove sfide che metteranno a dura prova il regime del falso comunismo: il persistere della crisi economica mondiale e le crescenti difficoltà del Venezuela a fornire petrolio a prezzi politici.

Il grande capitale statunitense potrà anche favorire un cambiamento di regime sull’isola pur di dare sbocco ai suoi capitali in esubero, riversandovi fiumi di dollari da investire nel settore immobiliare e nelle infrastrutture turistiche. Magari anche per riprendersi il controllo del settore agricolo e tornare in possesso degli zuccherifici nazionalizzati nei primi anni ’60! Si chiude un cerchio.

Tutti fattori che pongono interrogativi circa la tenuta del logoro e corrotto regime castrista, nato da un moto anticoloniale e nazionale, e rimasto sempre nell’ambito della normale amministrazione dell’economia borghese, al prezzo di duri sacrifici per i proletari cubani.

Partito Comunista Internazionale

4009