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CILE. La grande paura della borghesia mondiale

(24 Ottobre 2019)

I.C.P. 2

Negli ultimi tempi tumulti e sommosse si sono ripetuti nel continente sudamericano. Il caso dell’Ecuador che ha vissuto molti giorni di disordini cruenti, e in misura minore il malessere sociale serpeggiante in Argentina e in Bolivia, sono aspetti di una tendenza generale.

In Cile nei giorni immediatamente precedenti i tumulti, alcuni gruppi di giovani si sono organizzati per saltare i tornelli della metropolitana della capitale Santiago come protesta per l’ennesimo aumento del prezzo biglietto. Un aumento modesto, da 800 a 830 pesos, pressappoco di 4 centesimi di euro. Ma è da considerare che in Cile lo stipendio minimo è di 310.000 pesos mensili, 380 euro. Per contro i prezzi dei beni di prima necessità sono comparabili a quelli di molte città europee e gli aumenti dell’elettricità avevano già esasperato i lavoratori e le mezze classi in fase di proletarizzazione.

Dopo alcuni giorni il governo ha dislocato le forze di polizia in prossimità dei tornelli. Ne nascono i primi tafferugli e un inasprirsi della protesta: distruzione dei tornelli fino all’incendio di alcune stazioni della metropolitana e infine l’assalto venerdì 18 ottobre con bombe incendiarie alla sede dell’Enel provocandone la distruzione totale.

Quella sera il presidente Sebastián Piñera, appreso degli incidenti nella capitale, proclama lo stato d’emergenza e disloca polizia e carabineros nei punti nevralgici della Regione Metropolitana di Santiago. Ma questo non ferma il diffondersi della protesta che si esprime soprattutto con i “cacerolazos”, cortei in cui i manifestanti battono le pentole, alludendo alla difficoltà di riempirle, e con cortei di automobili che suonano il clacson in segno di saluto verso gli assembramenti di manifestanti. In poche ore le proteste si diffondono a molte altre città del paese.

A quel punto. in un discorso televisivo alla nazione, il presidente, stigmatizzata la rivolta come opera della delinquenza, annuncia sì la revoca dell’aumento del prezzo della metropolitana, ma anche anticipa la possibilità di indire il coprifuoco e la delega della gestione dell’ordine pubblico al generale Javier Iturriaga. Si tratta di una scelta che suona sinistra per i lavoratori cileni, sia per il coinvolgimento dell’esercito nella politica, sia per l’appartenenza di quel generale a una famiglia di militari illustratisi per la ferocia con cui perpetrarono crimini infami contro gli oppositori politici ai tempi della dittatura di Augusto Pinochet. Non stupisce quindi se Iturriaga abbia presto proclamato il coprifuoco, che al momento in cui scriviamo è ancora in vigore nella maggior parte delle provincie.

Già la prima notte di coprifuoco, mentre migliaia di manifestanti restano in strada sfidando il divieto, in varie località del paese vengono presi d’assalto e saccheggiati supermercati e depositi di merci. Se i media di tutto il mondo sminuisCono gli sviluppi della lotta in Cile, nei social compaiono video in cui si vedono i militari sparare ad altezza d’uomo per uccidere.

Dopo una domenica con almeno otto morti, i giorni successivi hanno visto un crescendo delle manifestazioni e degli scioperi che hanno visto anche la mobilitazione di strati proletari fra cui i minatori della regione di Antofagasta, mobilitazioni in grado di avanzare richieste economiche classiste, l’aumento del salario minimo e delle misere pensioni dei proletari cileni.

Martedì 22 ottobre cortei con centinaia di migliaia di partecipanti hanno attraversato le città principali del Cile, segno che la rabbia dei proletari e delle mezze classi in rovina non teme né il piombo dell’esercito né i carri armati.

A conclusione di questa giornata, in cui si registrano altri tre uccisi dai carabineros, il presidente si vede costretto a fare concessioni economiche di una certa rilevanza: aumento del salario minimo da 310.000 a 350.000 pesos, aumento del 20% delle pensioni di base, annullamento del recente aumento del 9,2% delle tariffe elettriche.

Allo stesso tempo, nello stile di ogni demagogo borghese, introduce un’aliquota fiscale del 40% sui redditi superiori agli 8 milioni di pesos (9.900 euro) e la riduzione degli stipendi dei dirigenti dell’amministrazione pubblica, la riduzione delle indennità e del numero dei parlamentari e altre operazioni cosmetiche, come se responsabile delle dure condizioni dei lavoratori sia non il capitalismo ma solo il suo parassitario apparato politico.

Interessante notare come il presidente Sebastián Piñera sia costretto dalle circostanze a rimettere mano alla “riforma” delle pensioni imposta a suo tempo da suo fratello maggiore José, ministro del lavoro sotto il regime di Pinochet. La continuità e la sopravvivenza degli uomini e delle istituzioni della dittatura, formalmente finita nel 1990, prova che il regime democratico non è che la maschera della feroce dittatura del capitale.

Ma non è questo il motivo della esacerbazione della rabbia proletaria. La causa reale è una crisi economica mondiale già iniziata che ha mosso i primi passi col rallentamento della crescita del settore manifatturiero in diversi grandi paesi industriali. Dietro alle proteste sudamericane c’è in buona sostanza il calo delle quotazioni delle materie prime di cui questi paesi sono produttori, dovuto alla diminuzione della domanda globale. Il Cile risente di una caduta del 6% della quotazione del rame, che contribuisce in maniera significativa alle esportazioni del paese.

Una falsa rappresentazione della dinamica sociale, fatta passare per determinismo marxista, vuole che sommosse e tumulti arrivino soltanto quando le classi sono costrette alla fame. In realtà questa è una parodia meccanicistica e semplicistica del marxismo. Il “prospero” Cile resta un anello debole della catena imperialistica, mentre i proletari che hanno generato la sua crescita negli ultimi decenni sono spinti dalla crisi a riappropriarsi di una parte del plusvalore loro estorto.

La vicenda del moto di classe che sta scuotendo il Cile è ragione di grande preoccupazione per la classe borghese internazionale: “se può succedere in Cile, paese prospero e socialmente moderno, allora può succedere ovunque”, si ripetono i media di tutto il mondo, preposti alla riproduzione dell’ideologia della classe dominante.

Ciò che più di ogni cosa teme la borghesia avida e assassina è il contagio della tempesta a tutta l’America Latina. In uno dei suoi deliranti discorsi il presidente del Cile, ammannendo una raffazzonata teoria complottista, ha detto letteralmente “siamo in guerra contro un nemico potente”. Per questa volta non vogliamo smentirlo. Effettivamente questo potente nemico esiste, ma purtroppo non dispone ancora di un’organizzazione all’altezza dei suoi compiti storici. Questo nemico potente, incubo e terrore dei borghesi di ogni clima, si chiama classe operaia mondiale e l’organizzazione in cui si riconoscerà si chiama Partito Comunista Internazionale.

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PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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