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(8 Gennaio 2003)
Alcune riflessioni sul percorso politico del "movimento" tra Cosenza e Genova
Il montante fragore dei venti di guerra che raggelano questo inverno, innaturalmente mite, non riuscirà ad annichilire il "vento di Seattle", né a trasformarne il ruggito di ribellione nel belato di un pacifismo tanto operativamente impotente, quanto ecumenicamente inclusivo delle più svariate e contrastanti opzioni di "pace".
Alla logica di guerra, di rapina e di morte di un capitalismo imperialistico ormai spudoratamente teso alla più scoperta predazione in salsa bellicistica del mondo intero, si dovrà saper rispondere sul piano della "guerra di classe": la nostra "proposta di pace" non potrà né dovrà rimanere ingabbiata nelle forme di questo presente contesto socio-politico che la guerra stessa è costretto per sua natura a generare. Ed è per questo che riteniamo di dover riprendere il discorso, non già dall'incombente pur orrorifica emergenza bellica, bensì dagli ultimi momenti significativamente "alti" che il "movimento" ha espresso.
Quasi centomila persone in corteo a Cosenza, 20-30 mila manifestanti a Genova: questi numeri ci dicono qualcosa? Se è vero che la quantità, entro certi limiti, fa qualità, queste cifre mettono in evidenza una zona d’ombra, un fascio di ambiguità che ancora offusca la coscienza e la pratica del "movimento".
L’inchiesta di Cosenza si basa essenzialmente su reati di opinione. Di fronte a un'aberrazione di questo genere, rivendicare la libertà di pensiero e di parola, anche nei loro contenuti più radicali, risulta al contempo una strategia di attacco nell’agone politico e di difesa nelle aule giudiziarie. Una strategia che, comunque, non esce dalla rivendicazione dei diritti riconosciuti da un qualsiasi ordinamento liberal-democratico.
L’inchiesta di Genova ha invece tutt’altra natura, pur facendo oggettivamente parte della stessa strategia complessiva di repressione "generalizzata", innescatasi sull'onda della guerra infinita, definitivamente esplosa dopo le Twin Towers, come controrivoluzione preventiva globale. Al di là delle evidenti forzature (vedi la "partecipazione psichica" o il reato di "saccheggio"), ciò che viene contestato in questo caso sono fatti determinati, specifici comportamenti illegali. Agli avvocati spetterà senza dubbio il compito di contestare la partecipazione dei singoli inquisiti ai fatti loro imputati, e/o di dimostrare l’insussistenza di quelle aggravanti che permettono di identificare fattispecie di reato più gravi.
Ma qual è la posizione politica del "movimento" nei confronti dei fatti contestati? Ci dobbiamo forse limitare a far pressione affinché la giustizia segua il suo corso nel modo più "imparziale" possibile, individuando i responsabili di ciò che accadde a Genova? Ammettiamo solo per un attimo che la magistratura, in un sussulto di inverosimile "autonomia", faccia fino in fondo il suo dovere costituzionalmente stabilito: si scoprirebbe a tal punto che la polizia ha deliberatamente agito in modo del tutto ingiustificato e i responsabili, in alto e in basso loco, verrebbero dunque perseguiti e puniti. Bene, anche in tale prospettiva continuerebbero però a sussistere, comunque, gli atti "criminosi" perpetrati dai manifestanti di Genova, perché nel nostro ordinamento giudiziario non è previsto in alcun modo il cosiddetto "diritto di resistenza", di cui vagheggiava lo stesso Kant. Cosa dovremmo fare a questo punto? Accettare che chi ha "sbagliato" venga "legittimamente" punito ?!?
Questi sono gli acquitrini melmosi in cui ci si va ad infognare, volendo mantenere un basso profilo politico e cercando sostanzialmente di salvare la capra della radicalità e i cavoli della ragionevolezza!
Il vero problema è che, di fronte all’inchiesta di Cosenza, ci si può anche limitare a rivendicare la libertà "formale" di pensare un altro mondo possibile, ma l’inchiesta di Genova ci impone di affermare il nostro diritto "sostanziale" ad agire affinché quest’altro mondo incominci a diventare reale. E questo significa rivendicare anche il diritto di resistenza nei confronti del potere quando esso sospende, come è accaduto a Genova, lo "stato di diritto e le garanzie democratiche", per reprimere quell’intollerabile alterità che con la sua prassi mette concretamente in forse il suo stesso dominio. O forse pensiamo che padroni e padroncini di questo mondo siano così gentili da consentirci di costruirne indisturbati un altro, dove per loro non ci potrà comunque essere alcun posto ?!?
Nessuno però si illuda di poter giocare furbescamente con le parole, come oggi va tanto di moda "a sinistra": il diritto di resistenza non equivale al diritto di disobbedire alle leggi che si ritengono ingiuste. In quest’ultimo caso, infatti, la contestazione puntuale di una singola norma non inficia affatto il sistema di norme in quanto tale, anzi: a tale sistema necessariamente rimanda, perché presuppone la necessità di sostituire la legge ritenuta ingiusta con un'altra considerata più equa, con ciò spostando soltanto i confini della legalità esistente, senza però contestarne l'intrinseca natura comunque sostanzialmente quanto arbitrariamente impositiva.
Rivendicare il diritto di resistenza significa invece affermare la più radicale autonomia del nuovo soggetto collettivo che nelle vie di Genova ha mosso i suoi primi passi; un’autonomia che nelle sue più coerenti ed estreme conseguenze nega l’obbligo di obbedienza nei confronti dello stato e di tutte le sue leggi.
Nessuno stato può infatti riconoscere, se non nella forma di una mera petitio principi priva di qualsiasi effettualità, il diritto di resistenza, perché questo significherebbe offrire i mezzi legali per la propria stessa distruzione. Una contraddizione logica, cioè, dal punto di vista del diritto positivo e, cosa ancor più importante, una negazione della più intima essenza del potere statuale in quanto tale: la "violenza concentrata e organizzata della società". Solo lo stato, infatti, può disporre della vita dei propri cittadini. Tale monopolio, a ben vedere non conosce limiti, neanche quelli posti dai principi normativi che giustificano il potere statale stesso. Quando Weber asseriva che lo stato detiene il "monopolio dell'uso legittimo della forza", intendeva porre l'accento sull'esclusività di questa prerogativa e sul suo possibile dispiegarsi anche al di là della legalità stessa. La violenza è legittima - conforme, cioè, ai principi generali ed alla tradizione storica sottesi alla normativa vigente -, in quanto portata avanti dall'ente statale stesso, quali che siano le modalità in cui si esprime. Anzi, proprio nell'eventualità dello "stato di eccezione", lo stato stesso conferma la propria natura. Infatti, mantenendo la sua vigenza pur nella sospensione dell'ordinamento giuridico che lo giustifica, arriva a disvelare l'"arcano" secondo cui ogni potere costituito, prima di esprimersi come fonte autonoma e sovrana di diritto, si autodetermina come pura e diretta violenza impositiva. In sostanza lo stato di eccezione rivela gli elementi costitutivi posti alla base di ogni sistema normativo: la forza e la schmittiana "decisione", che determinano l'intervento in grado di risolvere l'eventuale ma sempre incombente emergenza della crisi, attraverso la sospensione o la rottura dell'esistente ordinamento giuridico.
Si può dire senza remore, quindi, che il disincantato Weber e il reazionario Schmitt offrono una descrizione del processo reale più fedele di quella sostenuta dal democratico Kelsen, propositore dell'idea di un sistema giuridico che, non trovando fondamento al di fuori di se stesso, ha una vita propria a prescindere dal contesto sociale di riferimento ed è dunque compatibile con qualsivoglia ordinamento socio-economico (e addirittura suscettibile, nella sua forma democratica, di regolare il passaggio, senza rotture formali, da un certo tipo di rapporti sociali di produzione ad un altro). La "sinistra", dal suo canto, preferisce spesso attenersi a questo idealismo mistificante dello stato, promuovendo la realizzazione, presuntivamente progressiva, della ipotetica quanto astratta "neutralità" di esso, e finendo ineluttabilmente però per scontrarsi con la ben più concreta costituzione materiale intimamente classista delle "istituzioni statuali". Il "nobile" cammino verso l’astratto "dover essere" dello stato si rivela così come un meschino fermarsi di fronte al concreto statu quo.
Se vogliamo andare al di là di una critica moraleggiante, condannata all’impotenza dalle sue interne contraddizioni, dobbiamo riconoscere lo stato e l’ordinamento giuridico in cui esso articola la propria costituzione formale, per quello che sono: formalizzazione di rapporti di forza o, più specificatamente, sedimentazione normativizzata di specifici rapporti di classe. Tale "concretizzazione normativa" può essere più o meno flessibile, a seconda delle circostanze, ma mai a tal punto malleabile da poter tollerare di veder messi in discussione i rapporti sociali di produzione su cui essa è fondata, sia pur in modo occultato. I rapporti di classe che da sempre costituiscono le materiali fondamenta dello stato (pudicamente celate, da Madama la Borghesia, nell'astrattizzazione della mediazione politica e dell'asettica, omologante figura del citoyen) sono rapporti intimamente e ineluttabilmente antagonistici, e tale antagonismo si manifesta apertamente ogni qualvolta il proletariato si avvia a riconquistare la sua autonoma soggettività, negando il rapporto dialettico che lo lega al capitale e che viene irregimentato nell’ordinamento giuridico, a tutto vantaggio del capitale stesso. In siffatti momenti, la capacità impositiva e disciplinatrice della legge, calibrata sul "normale" riprodursi dei rapporti sociali di produzione presupposti, mostra la sua inadeguatezza e cede il passo al dominio della forza: tale stato d’eccezione è certamente un’anomalia, rispetto al ciclo dell'astratto che connota il comando del capitale, ma un’anomalia ricorrente, costitutivamente inestirpabile e in sé già allusiva di quella espropriazione degli espropriatori - la "negazione della negazione" -, di cui ancora ci parla Marx (a quando un "riappacificante" rogo dell'opera omnia di tale intramontabile "cattivo maestro" ?!?).
E tale ricorrenza diviene oggi sempre più frequente, dal momento che il mondo intero è minacciato da una guerra illimitata nel tempo e nello spazio, che tutto giustifica in nome della sicurezza degli attuali assetti societari, nei confronti di un nemico tanto sfuggente da avere il dono dell'onnipresenza: la guerra preventiva verso il nemico esterno è anche controrivoluzione preventiva verso il nemico interno.
Si rimarca oggi un passaggio storico che decreta la morte della politica e il dispiegarsi della politica della morte. La sospensione del cosiddetto stato di diritto, da condizione limite delle normali regole democratiche, si sta progressivamente imponendo come il limite che condiziona regolarmente la democrazia. La gabbia del controllo sociale e della repressione si fa sempre più opprimente. Cosa si dovrebbe fare di fronte a questo scenario di progressiva restrizione degli spazi di agibilità politica? Limitarsi ad elevare ragionevoli appelli al buon cuore dei nostri aspiranti carcerieri?
A "Genova 2001" migliaia e migliaia di persone non sono state di questo avviso. Di fronte alla brutale repressione di un potere che non voleva/poteva tollerare la manifestazione di una sia pur embrionale soggettività collettiva antagonistica, la massa degli individui ha collettivamente e spontaneamente rifiutato gli opposti, ma simmetrici copioni che altri avevano scritto. I manifestanti avrebbero dovuto essere passiva massa di manovra o inerte carne da macello, ma così non è andata: di fronte alle selvagge cariche dei reparti scelti di una polizia definitivamente militarizzata, non c’è stato solo il disperdersi impazzito di un "branco" in preda al panico, ma si è manifestato anche un impulso collettivo, coraggioso e consapevole, a reagire sul piano dell'autodifesa contro un indiscriminato ed efferato attacco. La maggior parte degli individui che hanno dato vita a quegli scontri era scesa in piazza per manifestare pacificamente. Non si trattava dei tanto vituperati black block: l’azione di questi ultimi, in realtà, ha rappresentato solo una minima parte di ciò che a Genova è avvenuto. La verità è che un gran numero di "pacifici" manifestanti, di fronte all’alternativa tra farsi massacrare con le mani alzate e cercare di difendersi, ha scelto la seconda strada. E in questa determinazione le singole individualità hanno riscoperto la capacità di agire collettivamente secondo un fine comune, riconoscendosi parte di un’organica intersoggettività, senza capi e senza gregari. In quelle tragiche circostanze si è creata una concreta comunità di lotta, tangibile allusione di quel gruppo in fusione che Sartre individua nelle tipiche dinamiche della folla rivoluzionaria.
Carlo Giuliani era uno di loro. Un compagno come tanti. Non un marginale, uno sbandato in cerca di risse con la polizia. Si è trovato lì, a piazza Alimonda, costretto a difendere la propria e l’altrui incolumità, suo malgrado, e si è comportato come tantissimi altri in quell’occasione. Molti hanno cercato di appropriarsi del significato politico della sua morte, magari dopo aver cercato di prenderne sciacallescamente le distanze, quando il suo corpo esanime era ancora caldo. E così l’immagine di Carlo è diventata per molti solo uno spettacolare santino, costruito su una gigantesca rimozione tanto ipocrita quanto fragile: è come se dalle immagini che riprendono gli ultimi momenti della sua vita fosse stato cancellato l’estintore che teneva in mano. Carlo è stato descritto come una vittima innocente. Ma così non è stato. Carlo è consapevolmente stato una "vittima colpevole": colpevole di resistenza all’oppressione e alla brutalità poliziesca!
Chiunque si presti al gioco perverso di dividere il movimento tra "buoni e cattivi", tra "pacifisti e militaristi", abbia almeno il buon gusto di non pronunciare il nome di Carlo. Non gli appartiene! Queste distinzioni lasciamole fare alla polizia, quella stessa polizia che non cessa di assemblare canovacci d'indagine che brillano per l'opacità delle accuse che vi si muovono, sempre comunque miratamente dirette contro l’intera "ala sinistra del movimento" (indifferentemente antagonista e/o anarchica e/o autonoma).
In ogni caso, è ormai addirittura spudoratamente evidente che si sta ancora giocando, per l'ennesima volta, la carta di costringere il "movimento" nella forbice perversa tra la più remissiva subalternità nei confronti dello stato e del lessico della mediazione politica, e l'avventurismo ipersoggettivistico di insignificanti grumi di ceto politico, autoproclamatisi avanguardie: ancora una volta, i servi più o meno sciocchi del potere intimano "o con noi o contro di noi"! Ancora una volta il "movimento" deve rifiutare e denunciare con tutta la sua forza questo mistificante e paralizzante aut-aut. D'altronde, nessuna segreta conventicola di "specialisti della cospirazione manu militari" può decidere sopra la sua testa, nessuno può imporgli di portare il livello dello scontro su un terreno oggettivamente contrapposto a quella pratica diretta e di massa che costituisce la sua più specifica e qualificante modalità di espressione autonoma.
Quello che è successo a "Genova 2001" nulla ha a che fare con i deliri "lottarmatistici": le bombe e le pistole sono le solite armi di una rinnovata strategia della tensione che, come sempre, si avvale anche dei soliti "imbecilli manipolati" o, più precisamente, degli usuali "manipolati perché imbecilli".
Una diffusa domanda politica sta emergendo, ed è una domanda radicale, nel senso che può trovare risposta solo andando alla vera radice dei problemi. Se non sapremo dare risposte adeguate qualcun altro risponderà per noi, magari con sinistri e lugubri ritornelli, sentiti oramai tante, troppe volte. Ritornelli che hanno purtroppo il vantaggio di apparire estremi e risolutivi, a fronte di tanti opportunismi trasformistici oggi in gran voga fra i sostenitori del cosiddetto "moltitudinario movimento dei movimenti" (cosa ben diversa da quel movimento di massa a struttura soggettiva che noi intuiamo embrionalmente presente nel "movimento" di Seattle, Praga, Nizza, Napoli, Genova, Barcellona ...), laddove sono in realtà semplicisticamente inconcludenti, se non addirittura tragicamente suicidi. Né, d'altro canto, servirà ad alcunché trastullarsi in ingenue quanto imbelli illusioni, cercando di isolare tutti coloro che non vogliono accontentarsi di "ragionevoli" rimedi, di accomodanti rattoppi. Secchiate di falsa coscienza non possono spegnere l’incendio: oramai l’intero Reichstag è in fiamme!
Le domande, dunque, rimangono ed esigono una risposta. Non siamo noi ad inventarle, ma sono ineluttabilmente poste all'ordine del giorno in forza dell'attuale ormai evidente crisi strutturale, su scala planetaria, della valorizzazione capitalistica e della rappresentanza borghese (due facce diverse di quel medesimo ciclo dell'astrattizzione universale che da sempre connota costitutivamente il dominio di Monsieur le Capital).
Stiamo assistendo ad una divaricazione progressiva tra i diritti formali di cittadinanza e il diritto sostanziale alla partecipazione democratica. Il modello istituzionale che ci viene propinato in tutte le salse è, in buona sostanza, quello già definitivamente consolidatosi negli Usa: un modello in cui la vexata quaestio della possibile degenerazione della democrazia in dittatura della maggioranza appare oramai un problema meramente accademico, in quanto si sta da tempo assistendo ad una sempre più ferrea quanto "legale" tirannia della minoranza. L’esclusione è ormai la regola oggettivamente invalsa tanto nella sfera politica, quanto in quella economica.
Al di là della limpidezza abbagliante della critica pratica della politica istituzionale espressasi nel "laboratorio argentino", l’astensionismo elettorale portatosi a livelli abnormi in tutto il "mondo democratico" (?!?) denuncia quanto meno, e in modo incontrovertibile, l'enorme diffusione del più totale disincanto nei confronti del ciclo della rappresentanza, con la conseguente crisi della mediazione politica e della legittimità dello stato stesso. A Lor Signori, nonostante il loro onnipervasivo potere di controllo nei confronti dei mezzi di comunicazione, non riesce più il giochetto di escludere concretamente dal godimento della ricchezza socialmente prodotta e, nel contempo, coinvolgere formalmente nel ciclo astrattizzante della democrazia rappresentativa. Cosa dovrebbe fare il movimento di fronte a tale scenario? Cercare di ricucire lo strappo fra "società civile" e "palazzo", traducendo la sua prassi nel lessico della mediazione politica? O dovrebbe invece allargare quella crisi di legittimità, avocando al sociale il diritto di costituire nuove forme, potenzialmente universali, dell’agire collettivo?! ... istituti di democrazia diretta in cui l'immensa maggioranza degli uomini e delle donne possa infine autocostituirsi come comunità umana, contro l'infima minoranza di coloro che ne pretendono procrastinare a proprio piacimento la più drastica condizione di disumanità?!
Quando, più di due secoli fa, Madama la Borghesia, in Francia, constatò l’impossibilità di affermarsi dentro le vecchie forme politiche dell’Ancien Regime, essa distrusse con la forza l’involucro istituzionale del vecchio mondo. Il terzo stato si autoproclamò "assemblea costituente" e fece letteralmente a pezzi la Bastiglia! Le condizioni per quell’enorme sommovimento storico-sociale, furono poste, per un verso, dalla lenta ma inarrestabile crescita della centralità della borghesia urbana, a fronte dell'emarginazione sempre più scopertamente parassitaria della Corte e della Chiesa, per un altro verso, da un vasto fermento culturale e filosofico capace, senza riverenza alcuna, di criticare in profondità e di mettere alla berlina tutti i pregiudizi e le superstizioni su cui si fondava un secolare sistema sociale e politico. E quando le armi della critica di tale humus intellettuale giunsero ad interagire sinergicamente con la critica delle armi di quella classe borghese, allora oggettivamente rivoluzionaria (ed egemonica sulle vaste masse di un proletariato urbano condensatosi proprio in forza del dissolvimento dei preesistenti vincoli societari), giunse il momento della "catastrofe", la frattura del continuum storico, l'evento di quella "Grande Rivoluzione" che sola poté aver ragione dell'ormai insostenibile contraddizione materiale fra l'incremento enorme delle forze sociali di produzione ed i rapporti giuridico-formali che di esse regolavano il flusso, di fatto interdicendone un effettivo pieno dispiegamento.
Oggi l'"intellettualità di sinistra" sembra molto meno risoluta di quanto non sia stata quella della borghesia, nel corso del processo storico della sua originaria affermazione sul proscenio della storia. Lo stesso ceto politico del "movimento", in larga maggioranza, non ha ancora smesso di ossequiare le decrepite istituzioni capitalistiche, limitandosi ad invocare la protezione e il rispetto di quelle garanzie e di quelle forme politiche che la borghesia costruì a suo uso e consumo, ed in cui essa stessa, per prima, oggi non crede più (né, comunque, potrebbe più permetterselo, sotto il maglio devastante di una crisi di sistema ormai definitivamente strutturatasi ed irreversibile).
Invece di dividersi tra "buoni e cattivi", in base al rispetto delle regole di questo mondo ormai in pieno disfacimento, oggi si dovrebbero utilizzare i "lumi della ragione" per affinare le armi di una critica radicale. Un altro mondo è possibile, questo il "movimento" l’ha già urlato in tutti i modi. Ma, quando questo slogan viene riproposto come un vuoto ritornello ad uso dei media, dai suoi "portavoce" (più o meno autoproclamatisi tali), spesso induce la spiacevole sensazione che, dietro ad una verbosa radicalità, si nascondano molti involontari seguaci di quell’idealismo hegeliano per il quale il possibile è soltanto l’ombra del reale.
Noi, invece, questa intuizione ormai condivisa da milioni di individui, di una radicale alterità ormai tanto concretamente possibile, quanto drammaticamente urgente, la vogliamo prendere sul serio! E allora ci ostiniamo a chiedere a noi stessi ed a tutti: come dovrà essere questo nuovo mondo? Come lo si può costruire?
Noi vorremmo discutere di questo. Tutto il resto è noia ... o ipocrita risciacquo di coscienze sporche!
1° gennaio 2003
La Redazione di Vis-à-Vis
Quaderni per l'autonomia di classe
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